Capitolo 1 | L’etnografo
e lo sguardo. Intorno al paradigma visuale.
Con il termine etnografia si indicano due cose: l’attività
di ricerca condotta a stretto contatto e per lunghi periodi di tempo con una
realtà indagata e la produzione testuale relativa a contenuti
antropologicamente significativi.
L’etnografia odierna è diventata elemento caratterizzante
delle scienze sociali e si è configurata come modello paradigmatico della
conoscenza empirica. Riflettere su questo concetto significa, quindi,
riflettere anche su un vettore di conoscenza.
Caratteristica fondamentale dell’etnografia è l’utilizzo dei
cinque sensi, nonostante lo sguardo sia stato e rimane lo strumento principale
della costruzione di conoscenze etnografiche e antropologiche.
Sin dal principio, l’antropologia culturale fa propria l’idea
del primato della vista, per la formazione della conoscenza, per la sua
attendibilità testimoniale nell’osservazione diretta dei fenomeni, acquisendo
una posizione centrale nella formazione di tali conoscenze etnografiche e
antropologiche. La nascita della fotografia e del cinema divennero conferma della centralità dello sguardo e dell’attività iconica nella pratica
antropologica, e senza il rilievo
etnografico visivo molte dell’etnografie, dall’inizio della disciplina ad oggi,
si ridurrebbero di molto.
Secondo Faeta, oggi, c’è la possibilità di riconsiderare il
paradigma visuale e di rifondare, su nuove basi critiche, la sua posizione
centrale. Come? “Se lo depuriamo
dalle implicazioni positivistiche e oggettivistiche che lo hanno costantemente
accompagnato sin dal suo nascere, compromettendone oggi la sua attendibilità
ermeneutica, e se ripensiamo lo sguardo a partire da una prospettiva, lato
sensu, fenomenologica. […] se proveremo a immettere questa rinnovata attitudine
visuali sta all’interno di un percorso […] di revisione metodologica ed
epistemologica dell’etnografia” [p. 37].
Per spiegare la fondazione di modelli alternativi, Faeta,
parte da una riflessione attorno alle immagini relative al lavoro svolto da
Pierre Bourdieu in Algeria: 600 fotografie scattate tra il 1958 e il 1961.
Nonostante queste foto possano sembrare scattate in modo spontaneo e poco
costruito, in relazione con il testo, rivelano il problema della funzione dell’immagine
nella costruzione del sapere scientifico e descrivono, inoltre, il livello
delle pratiche sociali mettendoci in contatto con sistemi di relazione tra
segmenti giustapposti o contrapposti della realtà. “Le fotografie costituiscono
una traccia evidente del campo relazionale che la sociologia di Bourdieu postula
[…] segnalano con immediatezza la postura dell’osservatore nell’ambito delle
pratiche etnografiche, e delle scritture che ne derivano, e rappresentano,
dunque, strumenti indispensabili per la comprensione dei rapporti di riflessività
nelle scienze sociali” [p. 39]. Nel lavoro di Bourdieu, le fotografie sono sia
il prodotto della conversione dello sguardo, sia gli strumenti che hanno reso
possibile questa conversione. Il sociologo francese ci guida verso una funzione
documentaria ed ermeneutica della fotografia. Attraverso essa, Bourdieu,
riconferma la centralità dello sguardo e la necessità di assumere una postura d’osservatore,
postura che è in stretta relazione, attraverso lo sguardo, con i fenomeni e i loro attori.
Faeta prende in esame anche il pensiero di Merleau-Ponty che
insieme a Jean-Paul Sartre ha svolto un lavoro di antropologizzazione della
fenomenologia. Centrale all’interno del tale lavoro è la dimensione pratica
della percezione, la natura relazionale della visione e lo statuto delle
relazioni di sguardo. “Il ricorso alla fenomenologia ci consente di elaborare
un’analisi dello sguardo e delle immagini che sia assieme corporale e sociale,
e di tenere a freno l’approccio culturalista con cui abbiamo loro troppo spesso
guardato” [p.43].
Faeta cita alcuni passaggi de L’occhio e lo spirito di Merleau-Ponty
in cui il filosofo critica l’approccio aprioristico della scienza auspicando a
una coabitazione tra soggetti e oggetti. Secondo Merleau-Ponty il corpo è un oggetto di studio della
scienza, ma è anche la condizione necessaria dell'esperienza.
Faeta conclude scrivendo che se il paradigma visuale rimarrà
legato alla sia declinazione positivista e neopositivista sarà destinato al declino insieme a quello delle discipline che si fondano sull’osservazione diretta
della realtà e sulla centralità visiva. Se, invece, il paradigma visuale “diviene
rischiaramento del nodo imprescindibile esistente tra corpo e struttura
sociale, e della complessa interazione tra oggettività e soggettività […]
allora la sostanza riflessiva della nostra disciplina sarà ulteriormente
arricchita e le sue derive fondamentaliste saranno decisamente controllate ed
emarginate” [p. 47]. Un metodo di osservazione di quest’ultimo tipo deve, però,
tenere conto che il campo è relazionale, dialogico, negoziale e soprattutto che
la realtà in una prospettiva ontologica, è invisibile, ma non inesistente.
Faeta traccia uno schema duttile del contributo degli antropologi visuali alla riflssione intorno alla natura problematica dello sguardo e fornisce in questo modo spunti interessanti per un approfondimento di ciò che lui definisce nei termini di paradigma visuale dell'antropologia: Da Jay Ruby a Etienne Serres, da Edward Curtis a Boas. Da Haddon a W. Rivers a A.C. Haddon e Malinowsky per arrivare fino a Gregory Bateson. La centralità dell'occhio e dell'immagine nella costruzione del sapere antropologico ed etnografico si incrocia con la storia della percezione sensoriale e le riflessioni su di essa - prime tra tutte quelle di W. Benjamin.
RispondiEliminaLa proposta dell'autore di una revisione del paradigma visuale viene fatta a partire da un ripensamento critico delle pratiche dello sguardo. l'accento posto sulla dimensione pratica dell'esperienza percettiva e sulla natura relazionale della visione (dialettica dello sguardo) mi sembra il contributo più interessante di questo paragrafo: dalla rappresentazione alla produzione della conoscenza in cui le relazioni di sguardo (corporali e sociali)costruiscono il campo di ricerca: "la visione è, dunque, strumento che crea il mondo mentre attualizza il corpo, e che consente di trasformare il pensiero in esperienza e la conoscenza in immagine soggettiva"[pag. 45].
L'analisi del materiale fotografico di Bourdieu e del loro ruolo in ciò che lo stesso Bourdieu definisce, in un'intervista rilasciata a F. Schultesis nel 2001, come conversione dello sguardo è per noi di grande interesse.
La fotografia non solo in funzione documentaria, come traccia mnemonica e insieme testimonianza della presenza del ricercatore sul campo ma la fotografia come un modo di guardare,"di intensificare il mio sguardo". E più avanti (...)" e poi, spesso, è stata un modo di entrare in argomento" [pag.42].
Un modo di entrare in argomento. Quest'ultima espressione mi sembra meriti un'attenta riflesione in relazione all'utilizzo del mezzo - in questo caso la fotografia ma la stessa riflessione penso si possa estendere anche ai mezzi audiovisivi - come mezzi attivi di costruzione delle relazioni e dei significati culturali che emergono dall'interazione tra i soggetti della ricerca.
A proseguire
sara
L'analisi del materiale fotografico di Bordieu decrive, secondo Faeta, il livello delle pratiche sociali: l'interazione degli attori, il loro posizionamento sociale in rapporto agli altri attori, l'interazione degli attori con il ricercatore-osservatore, la postura dello sguardo/la modalità dell'osservazione del ricercatore-osservatore. le foto, dice Faeta, ci mettono in contatto con sistemi di relazioni, sono le tracce di un campo relazionale con una funzione ermeneutica.
RispondiEliminaFaeta riconferma la piena legettimità del pardigma visuale in chiave fenomenologica e ne evidenzia le profonde istanze riflessive: un'idea complessa di sguardo radicato in una specifica soggettività modellata attraverso la centralità del corpo, la relazione del corpo al contesto sociale. l'atto del vedere/guardare - tanto più quando mosso da un'intenzione conoscitiva - modifica la realtà osservata e, porpone Faeta, "diviene sensato (...) spostare il focus etnografico dai fenomeni in sé e nel loro divenire, alle pratiche di osservazione tra osservatori e osservati. (...) strumento e traccia di un incontro e di una relazione" [pag 47]
sara