Capitolo 9 | Dietro
il silenzio dei cimiteri. Imago mortis
rivisitata.
In questo ultimo capitolo Faeta si concentra sugli spazi dei morti, sui
cimiteri. Inizia con una breve comparazione tra il cimitero di Montparnasse, a
Parigi, e quelli della Calabria. Dei modi diversi di celebrare i defunti e di
come nel tempo le due tipologie si siano avvicinate tra loro.
Lo svolgersi del discorso della memoria già dai tempi dell’antica
Roma, si disponeva secondo ordinate e rigide sequenze: “colui che giaceva
dietro la lapide era, innanzitutto, uomo (o donna) esemplare, comunque soggetto
che aveva avuto nella vita esperienze professionali degne di essere ricordate (…)
era, poi, leale e affezionato parente; era, infine e ulteriormente, persona
tuttora vivente dentro un mondo evanescente e larvale” [pag. 226].
Anche la libertà e l’autonomia all’interno del cimitero, da
parte dei parenti dei defunti, è cambiata: oggetti e fiori secchi venivano
disposti sulle tombe e nessuno li rimuoveva, i sacerdoti non intervenivano in
nessun modo anche davanti a usanze “non lodevoli” e la costruzione di edifici
per la sepoltura avveniva in maniera spontanea. “Il rumore, il suono, le
parole, s’inscrivevano con forza nelle attività di soglia; servivano per
notificare al morto il complesso delle pratiche cerimoniali di cui egli
beneficiava e al vivo, ai vivi, la scrupolosa osservanza delle regole che il
gruppo familiare aveva. Saper osservare le regole nei confronti dei morti
significava, infatti, offrire garanzie complessive di osservanza delle regole
sociali più estese, di rispetto degli ordini, delle gerarchie, dei vincoli
consuetudinari, delle alleanze. Dunque, la memoria dei morti (…) disegnava il
pentagramma su cui si vergava la memoria dei vivi” [pag. 227]. Attraverso alcune
pratiche, come il parlare a voce alta ai defunti, si facevano esistere i morti
e si legittimavano i vivi e il loro sforzo di costruzione e ricostruzione
sociale.
Faeta ripercorre i cimiteri di oggi trovando le pratiche di
un tempo profondamente cambiate: le cappelle familiari sono costruite secondo
regolamenti, non mimano più la casa del defunto ma lo sono, essendo a tutti gli
effetti delle piccole case. Si è passati dalla tomba come luogo di memoria, al
monumento, oggetto che invece indirizza l’attenzione su se stesso come simbolo
rappresentativo. L’insieme di atti spontanei presenti qualche decennio fa, ora
sono inibiti a causa della soglia chiusa delle cappelle familiari, che
permettono l’ingresso solo attraverso il possesso delle chiavi da parte di un
parente. “ciò comporta la perdita della dimensione estesa e corale dell’attività
commemorativa e la sua compressione in unità temporali di carattere eccezionale
e ristretto” [pag. 230]. Non vi sono più simboli del viaggio in quanto lo
statuto della morte è cambiato da l’idea di una navigazione a quella di una
stabile e sicura residenza.
L’autore cita alcuni passi di Aleida Assmann riguardo la
memoria culturale che ha il suo centro nella commemorazione dei morti, da
questa affermazione Faeta si interroga sul cambiamento delle prime il
conseguente mutamento delle seconde: “la commemorazione dei morti ha una
dimensione religiosa e una laica, che è possibile identificare rispettivamente
nella pietas e nella fama” [pag. 237] la prima è il dovere
dei vivi di mantenere acceso il ricordo dei defunti per conservare stabili le
relazioni che legano i due mondi, la seconda rappresenta il bisogno di
garantire le condizioni di predominio di un gruppo sull’altro, di egemonia. Secondo
l’autore le modificazioni della commemorazione calabrese hanno attenuato la pietas e enfatizzato la fama. “Il discorso funebre s’indirizza
oggi sempre più alla comunità dei vivi e tende a celebrare, indirettamente, attraverso
l’imponenza del monumento e la sua puntuale aderenza al modello della casa. (…)
Occorre essere in prima persona, in quanto membri autorevoli e dominanti,
sacerdoti di quella memoria. Bisogna piegare la prassi cattolica a un uso
civile della memoria” [pag. 238].
Infine Faeta si sofferma sull’immagine del defunto, che “appare
meno direttamente coinvolta nel regime cerimoniale di quanto non lo fosse in
precedenza” [pag. 239].
In conclusione i mutamenti che si sono affermati si manifestano mediante un nuovo
atteggiamento culturale: “la riduzione della condizione parossistica del
dolore, il suo controllo, la tendenziale eterificazione della condizione
luttuosa” [pag. 240]. È, dunque, una memoria placata e con ciò permanente,
custodita all’interno del monumento “sempre pronta a rimettere il defunto
dentro le configurazioni molteplici e cangianti del gioco sociale” [pag. 240].
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