http://www.dailymotion.com/video/xu9phs_haz-de-tu-vida-un-bhajan-documental-sobre-devotos-de-sai-baba-en-barcelona_lifestyle
Gent.le
prof.ssa, cari/e colleghi/e
Il
video che condivido con voi su questo blog è il frutto della ricerca
di campo che ho svolto nell'annata 2011/2012 durante il Master in
Antropologia Visuale presso l'Università UB di Barcellona.
Il
prodotto finale della ricerca doveva essere un video della lunghezza
di circa 40 minuti.
Vorrei
giusto citare un paio di premesse che credo possano essere utili a
una migliore contestualizzazione del video stesso e alla
problematizzazione di alcune questioni.
All'inizio
del master siamo stati divisi, in base ai nostri interessi di
ricerca,in cinque gruppi, ognuno con una tematica di ricerca ben
definita: nel mio caso “Ritual religioso en contexto urbano”.
Dopo
circa un mese di tempo, datoci per prendere le varie decisioni,
all'inizio di ottobre (termine di scadenza del periodo di scelta)
abbiamo deciso di condurre la nostra ricerca etnografica presso il
centro Sai Baba di Barcellona, situato nel quartiere di Gracia.
I
motivi della scelta finale sono stati di vario ordine: questo gruppo
religioso si è dimostrato molto accogliente nei nostri confronti fin
da subito (forse perchè inizialmente ci hanno preso come papabili
devoti) e nonostante avessimo tentato di specificare i nostri intenti
(fare un video per l'università ecc) si ostinavano a ripetere che se
eravamo arrivati fin lì era perchè ci aveva chiamato Sai Baba e che
quindi eravamo i benvenuti.
Sai
Baba è un “guru indio” (morto giusto l'anno prima in cui abbiamo
iniziato a fare ricerca) che ha milioni di devoti in tutto il mondo,
sparsi in diversi centri, che predica una religione universale
riprendendo una serie di pratiche provenienti dalla tradizione
induista e condensando il proprio insegnamento in cinque valori
fondamentali: amore, non violenza, pace, rettitudine e verità.
La
cosa interessante che abbiamo notato fin da subito era la compresenza
di devoti indiani, spagnoli, oltre che latinoamericani e italiani; la
divisione dello spazio rituale a seconda del genere (uomini nella
parte destra, donne nella parte sinistra) e il ruolo centrale che
aveva la musica all'interno della cerimonia.
Il
centro veniva aperto circa tre volte a settimana : martedi' per le
prove di canto, venerdi' per temi di discussione filosofica o cinema
e domenica per la cerimonia principale della settimana, che durava
circa un'ora.
Abbiamo
quindi iniziato a costruire il nostro campo partecipando agli
incontri settimanali (oltre che alla cerimonia domenicale) dove il
clima informale favoriva una maggior possibilità di dialogo con i
devoti.
Per
le prime 3 settimane non abbiamo mai utilizzato la videocamera per
rispetto del contesto “sacro” e delle persone con cui ci
trovavamo ad agire.
Abbiamo
quindi preferito spendere il tempo per costruire le relazioni con le
diverse persone che frequentavano il centro e per cercare di spiegare
il motivo della nostra presenza lì (impresa inizialmente ardua e non
priva di “giri di parole” visto che l'antropologia visuale non è
ancora così famosa), per documentarci il più possibile sulla
letteratura riguardante Sai Baba, oltre che per vagliare i
molteplici approcci teorici e metodologici offerti dalla letteratura
antropologica riguardo a temi quali performance, rituale religioso,
etnografia visuale, approccio riflessivo ecc...
Un
altro interrogativo forte riguardava le tematiche che ci interessava
maggiormente raccontare e soprattutto come riuscire a trasmettere
delle “storie” possibilmente interessanti attraverso un approccio
etnografico audiovisuale critico.
Con
questo intendo dire che il video non costituiva un semplice mezzo
neutro di raccolta dati, successivamente elaborati nella fase di
montaggio, ma un particolare punto di vista dinamico, posizionato e
negoziato con tutti gli attori sociali presenti sul campo: non è un
caso che i dialoghi più profondi e le riprese migliori siano
avvenute tutte nella fase finale quando il grado di confidenza e
conoscenza era tale che la telecamera non costituiva un problema, al
contrario diventava per molti un’ occasione propizia per raccontare
e raccontarsi.
Più
che cercare di nascondere la telecamera abbiamo cercato di
problematizzare la nostra presenza e quella della telecamera stessa:
l'abbiamo data in mano ai fedeli per filmarsi o filmarci in modo
tale che perdesse quello statuto di estraneità che all'inizio aveva.
Inoltre
abbiamo visionato insieme ai devoti delle riprese di una cerimonia
annuale che avevamo editato e montato “come regalo” per loro, in
cambio dell'apertura e disponibilità che hanno mostrato nei nostri
confronti.
Mi
sono dilungato in questa premessa per cercare di chiarire un po' il
punto di partenza della nostra ricerca e cercare di evidenziare
l'approccio riflessivo che abbiamo portato avanti: mostrando
all'interno del video stesso la nostra presenza ingombrante
(attraverso l'utilizzo di due telecamere) vogliamo esplicitare il
processo che ha portato alla realizzazione del prodotto finale.
Il
video è diviso in varie fasi:
inizialmente
viene raccontata la storia del centro Sai Baba di Barcelona e di come
si è formata questa comunità;
in
una seconda fase il dialogo è più incentrato sulle storie personali
di alcuni personaggi-chiave, cosa abbia significato l'incontro con
Sai Baba e che impatto ha avuto sulla loro vita; la fase finale del
video è appunto il rituale domenicale dove si suonano e cantano dei
canti sacri (bhajan e mantra).
In
questa maniera quasi tutto il video è pensato come una preparazione
al rituale principale che costituisce il climax sia del video, sia
della vita della maggior parte dei devoti.
Una
delle tematiche chiave che emerge dal titolo “Haz de tu vida un
bhajan” (Fai della tua vita un canto sacro) e dal video stesso è
il ruolo fondamentale della musica non solo nel rituale ma anche
nella vita delle singole persone che frequentano questo centro.
Spesso
veniva fatta la similitudine fra il nostro corpo e uno strumento
musicale: entrambi emettono vibrazioni più o meno armoniche. Essere
intonati non è vista come una dote, ma diviene dunque una questione
di cammino personale di disciplina spirituale che mira a un maggior
equilibrio e pace interiore.
Inoltre
essendo stata la mia prima “esperienza di campo”, ho avuto modo
di capire che il fare antropologia non può essere solo
l'applicazione di una serie di teorie e tecniche, ma che si “apprende
solo facendo” . Si tratta di un esperienza molto complessa, che si
costruisce anche grazie a una serie di gaffe e fraintendimenti e che
spesso va oltre gli schemi interpretativi ed epistemologici che
l'antropologia offre.
Con
questo non voglio dire che questa griglia interpretativa sia inutile,
anzi è proprio questa che dà un “taglio antropologico” al
lavoro, voglio solo condividere ciò che ho vissuto sulla mia pelle :
la frattura che esiste in questa disciplina tra “la teoria in
classe” e “la pratica sul campo”, cosa che spesso provoca un
forte disorientamento nel momento dell'incontro con l'altro,
esperienza che richiede una “esserci totalmente”, dove la
sensibilità personale, che non viene certo coltivata durante i corsi
di antropologia, riveste un ruolo centrale.
Buona
visione
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Alfredo
Treccani
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