vi posto l'articolo come concordato a lezione.
Cercate di isolare quegli elementi/spunti che pensate sia interessante utilizzare ed approfondire etnograficamente attraverso gli strumenti audiovisivi e postateli sotto forma di commento e/o post con la seguenti etichette(tag): "laboratorio antropologia visiva II", " Etnografia della via Padova".
Cercate di svilupparli - a livello immaginativo - visivamente e di postare e/o commentare una bozza pratica di esplorazione del contesto in oggetto.
N.b. le note non sono presenti, vi fornirò una fotocopia dell'articolo nella prox lezione.
Articolo:
Titolo: Etnografia della via Padova
Titolo: Etnografia della via Padova
Camminare è
il processo indefinito dell’essere assenti e in cerca di uno spazio proprio.
L’erranza che accorpa e moltiplica la città ne fa un’immensa esperienza della
privazione di luogo”.
Michel De
Certau[1]
Abstract
Con il presente articolo si propone una sintesi di un lavoro di ricerca
nella disciplina antropologica, finalizzato alla tesi di laurea, svolto tra il
settembre 2001 e il giugno 2002 nella città di Milano in una via urbana, la via
Padova. Verranno qui discusse ed analizzate le diverse attribuzioni di
significato che la pratica immigratoria genera nel contesto locale, le
narrative di contatto e la costruzione ed il mantenimento di spazi di socializzazione tra cittadini
immigrati a partire dal loro inserimento all’interno di una cornice storica di
riferimento. L’interesse nella proposta di questo articolo risiede infatti
nella possibilità che questo offre di problematizzare la rappresentazione
mediatica su scala nazionale degli episodi di violenza e conflittualità sociale
che hanno interessato recentemente la via Padova.
Introduzione
La
rappresentazione di un sito complesso, qual è quella di una via urbana, richiede
un’attenta riflessione e solleva una questione circa la delimitazione del campo
di ricerca.
Nelle pratiche
di ricerca l’assunzione della strada quale punto di riferimento utile
all’analisi ha significato sia prestare una particolare attenzione alla
costruzione e al mantenimento di contesti materiali e simbolici tali da rendere
possibile la produzione e la riproduzione della località[2],
che analizzare la strada in quanto sistema di comunicazione e di circolazione
aperto.
Se infatti da un
lato la strada offre un’immagine in grado di organizzare lo spazio e il tempo
in una forma rappresentabile, dall’altro, in quanto strumento e mezzo di
comunicazione, è metafora di attraversamenti e spostamenti difficilmente
circoscrivibili.
La strada è ciò
che connette e, al tempo stesso, disgiunge un luogo da un altro. E’ un sito di
partenze e di arrivi; una traccia visibile del nostro tendere a un altrove. La
strada concentra e al tempo stesso disperde. I segni presenti lungo il suo
percorso connettono spazi, tempi e luoghi. Questi segni vengono a loro volta tradotti in geografie e
immaginari di mobilità geografica, economica e sociale.
I monumenti, gli
avvenimenti storici locali e le biografie dei tragitti ne fanno un luogo di
memoria. Ma, come rilevava De Certeau, la strada è anche il “nonluogo”
dell’erranza.
Risulta qui
utile assumere la distinzione operata da De Certeau tra spazio e luogo per la
rilevanza che questa assume, in termini esplicativi, nell’analisi delle
pratiche quotidiane.
Con la nozione
di luogo l’autore definisce un ordine di distribuzione degli elementi entro
rapporti di coesistenza; una configurazione istantanea di posizioni che implica
un’indicazione di stabilità.
Con la nozione
di spazio, all’opposto, De Certeau definisce “l’effetto prodotto dalle operazioni
(individuali e collettive) che lo orientano, lo circostanziano, lo
temporalizzano e lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi
conflittuali o di prossimità contrattuali.” [ pag.176][3]
L’interesse
principale che qui riveste tale distinzione sulla nozione di spazio e su quella
di luogo, risiede nella possibilità che questa offre di un’interpretazione
significativa delle narrazioni da me raccolte sulla e nella via Padova.
De Certeau
interpreta infatti tali narrazioni nei termini di azioni narrative – pratiche –
che organizzano e attraversano dei luoghi: i racconti, da questa prospettiva
sono fattori fondamentali di spazio.
Questi racconti eseguono
un lavoro di trasformazione degli spazi in luoghi, e viceversa, organizzandone
i rapporti variabili che li caratterizzano e che vanno “ dall’instaurazione di
un ordine immobile e quasi mineralogico (“luogo”), fino alla successione
accelerata delle azioni moltiplicatrici di spazi (spazio)”. [Pag. 177][4]
Abbiamo quindi da
un lato dei luoghi ordinati da differenti istanze, quali possono essere quelle
delle istituzioni (per esempio la divisioni amministrativa locale) e,
dall’altro, degli spazi attraversati e significati dalle azioni effettuate dai
soggetti (per esempio camminare, fare conversazione in attesa dell’autobus,
entrare in un negozio per guardare la merce esposta tra gli scaffali, etc.).
L’analisi delle
descrizioni orali del campo di ricerca, la via Padova, ha rivelato due
operazioni differenti che possono essere compiute nello e sullo spazio
considerato. Queste operazioni compiute nei luoghi e negli spazi corrispondono alla
distinzione definita da De Certeau tra due tipologie di descrizioni orali, la
mappa e il percorso, i cui indicatori sono rispettivamente il vedere e il fare
(ed i loro rapporti).
Nelle
descrizioni da me raccolte questa distinzione si presenta piuttosto come
“un’oscillazione tra i termini di un’alternativa: o vedere (è la conoscenza
dell’ordine dei luoghi) o andare (sono azioni spazializzanti). O presenta un
quadro (“c’è”) o organizza dei movimenti (“entri, attraversi, svolti…”). [Pag.178][5]
Nei frammenti di
storia locale che emergono dai racconti di coloro che vivono e lavorano nella via
da lungo tempo, lo spazio è un luogo praticato di memorie di un passato recente
che riaffiorano nella narrazione rendendo conto dei profondi cambiamenti che
hanno interessato l’ambiente circostante e le forme dell’abitare. In questi
racconti sono presenti le tracce di emigrazioni interne, di riferimenti
scomparsi che il ricordo attualizza e di una conoscenza che si potrebbe
definire multisensoriale del territorio[6].
A partire
dall’analisi del contesto storico locale, l’articolo si propone di analizzare e
di comprendere le narrative di contatto, tra italiani e cittadini immigrati, raccolte durante la fase di ricerca.
Si tratterà
quindi di collocare le percezioni locali circa la via Padova all’interno della
congiuntura storica e politica in cui si è venuta a trovare l’Italia a partire
dagli anni ’90 ed ai cambiamenti locali dovuti a processi globali che hanno
interessato il territorio.
Un’attenzione specifica
sarà infine posta nell’analisi delle forme e delle modalità dell’aggregazione
tra cittadini stranieri ed alla produzione dei nuovi vicinati che tali
aggregazioni comportano.
1. Contesto storico locale
“ Ora da dieci
anni a questa parte la via sta morendo”
“Non c’è più
niente, è sparito tutto”
“La via si sta
spegnendo”[7]
Queste percezioni
di perdita, scomparsa, chiusura e annullamento fanno da contrasto all’estrema
vitalità ed eterogeneità che caratterizza, da più di un secolo, la zona urbana
che la via Padova attraversa fino ai confini est della città.
E’ almeno dalla
fine del diciannovesimo secolo che il territorio, composto da una serie di
borghi che ancora non facevano parte della città di Milano, è stato interessato
da intensi processi di mobilità geografica e sociale da parte di soggetti in
cerca di occupazione nel nascente settore industriale.
L’apertura della
Breda, della Pirelli e della Falck e, successivamente nel 1917, quella della
Magneti Marelli posta al centro di un percorso antico che congiungeva il Borgo
di Sesto con quello di Crescenzago, furono uno dei fattori centrali
nell’attrazione allora esercitata dal territorio.
Parte delle
preesistenti abitazioni rurali furono riutilizzate dalla nuova popolazione
mentre in contemporanea iniziarono a sorgere nuove costruzioni che occuparono
lentamente gli spazi disponibili con una logica di insediamento che traeva
vantaggio dai percorso lineari, quali quello istituito dalla via Padova, più
che dai tracciati irregolari che connettevano gli antichi centri.
In quegli anni
fiorì una ricca cultura associativa che si espresse attraverso la formazione di
cooperative, associazioni, case di mutuo soccorso, circoli e case del popolo.
Solo nel 1923 i comuni autonomi che componevano il territorio vennero annessi
alla città attraverso un decreto di Mussolini.
Le vicende
connesse con l’allargamento della città di Milano sono molto lunghe e complesse[8].
L’annessione definitiva dei Corpi Santi alla città non risale che al 1875[9].
Durante il governo
fascista molte realtà di aggregazione vennero chiuse e sostituite dai nuovi
gruppi rionali fascisti, uno dei quali venne aperto in Via Padova. La spinta
aggregativa non scomparve però del tutto, molte esperienze di aggregazione
continuarono ad operare durante la guerra e, nell’immediato dopoguerra, si
ricostituirono formalmente.
Prima del
secondo conflitto mondiale e durante tutta la guerra il flusso di popolazione
proveniente da tutta Italia fu costante.
Ha scritto G.P.
Semino in proposito:
“ Nel nostro territorio, non più campagna e non ancora
città, dove la mano pubblica interviene con qualche scuola o al massimo con le
case e i servizi che avviano l’urbanizzazione di Via Palmanova, regna un
laisser faire da frontiera. Non stupisce che più facilmente vi trovino ricetto
le ondate immigratorie che dapprima dalle campagne lombarde, poi dal Veneto e
dal Mezzogiorno, si riversano in prossimità dei posti di lavoro offerti
dall’industria di Milano e Sesto.”[10]
La ricostruzione
si svolse come impresa collettiva alla quale parteciparono con entusiasmo gli
immigrati dal nord e dal sud creando sinergie laddove esistevano distanze e
incomprensioni. La contiguità fisica tra le varie popolazione provenienti dalle
diverse regioni italiane, all’interno dei centri industriali, agì da collante
tra realtà assai diverse contribuendo significativamente a dare forma e
sostanza all’idea di Unità nazionale.
Risulta a questo
proposito molto significativa la documentazione raccolta, e in parte
pubblicata, dal centro culturale situato nella sede storica di una ex sezione
di partito, la Mantovani- Padova[11],
che prese vita il 25 Aprile del
1945. Una delle sue pubblicazioni, in particolare, offre un materiale prezioso
per la comprensione dei vissuti connessi al periodo bellico, a quello della
ricostruzione e agli anni che seguirono[12].
La stessa sezione e il centro culturale che ne prese il posto, hanno
rappresentato in quei decenni un punto di riferimento centrale per gli abitanti
della zona.
Come ho sopra
accennato, la via Padova era situata a poca distanza da Sesto San Giovanni, un
contesto industriale dove avevano la loro sede la Breda, la Falck e la M. Marelli, ma anche vicino
all’azienda tranvieri di Via Teodosio e al deposito di Via Leoncavallo.
Queste realtà
industriali e di azienda si configuravano come nodi centrali nelle geografie di
mobilità geografica, sociale ed economica italiane e definivano la
conformazione prevalentemente operaia degli abitanti di quest’area urbana.
Dal dopoguerra
fino agli anni 80 si assiste allo sviluppo progressivo di un tessuto urbano
estremamente complesso e discontinuo in contemporanea all’apporto di
popolazione proveniente da tutta Italia, dal sud Italia in particolare.
La
divisione/raggruppamento amministrativo della città è stata modificata nel 1999
con il passaggio dalle 20 alle attuali nove zone. La zona 2, di cui la via
Padova fa parte, è stata formata aggregando la precedenti zone dieci, due e
tre.
I tracciati
irregolari che connettevano gli antichi borghi non sono del tutto scomparsi con
la loro integrazione al comune di Milano e con il progressivo sviluppo delle
direttrici lineari (via Padova, Viale Monza, Via Palmanova), ma sono
sopravvissuti grazie soprattutto alla divisione territoriale delle parrocchie
nella diocesi di Milano il cui criterio di orientamento e di individuazione ha
origini antiche.
Sebbene ora i
confini tra le parrocchie siano conosciuti da pochi, essi hanno rivestito a
lungo un’importanza fondamentale della quale si conservano ancora oggi le
tracce nei racconti degli abitanti anziani nel territorio.
Quando negli anni ’50 venne stabilito
il criterio minimo di una parrocchia ogni 15.000 abitanti sorsero nuove chiese
che richiesero una ridefinizione
dei luoghi di culto corrispondenti alle varie parti del territorio. E’ ciò che
avvenne, per esempio, con l’edificazione della chiesa del Rendentore alla fine
degli anni 50 che coinvolse gli abitanti dei civici dal 3 al 79 della via
Padova.
Questa ridefinizione dei centri di culto
competenti, unita alla riconfigurazione del territorio istituita dalla crescita
e dallo sviluppo dei percorsi
lineari, costituisce una delle ragioni principali della difficoltà, da
me riscontrata,
nell’individuazione dei differenti quartieri che corrisponderebbero alla
via.
Il nome
attribuito dagli abitanti ai quartieri che attraversano lateralmente la via
Padova è rimasto, anche per questa ragione, quello precedentemente posseduto
dai Comuni autonomi: Turro, Casoretto, Precotto, Crescenzago, etc.
1.1 “Questa via è
lunga 4 Km. E’ una città nella città. Dopo il ponte è tutta un’altra storia”
Risulta più semplice comprendere l’importanza assunta da questi
elementi se, ai fini dell’analisi, si prova a focalizzare l’attenzione su una
parte limitata della via, quella che parte da Piazzale Loreto e arriva fino al
ponte della ferrovia all’altezza del civico 90.
“ Quando la chiesa ha deciso di dividere i
fedeli io ho scelto in base alle amicizie che avevo. Mio padre è morto nel 51 e
il funerale l’hanno celebrato nella chiesa di Turro. A Turro sono stata
battezzata, ho fatto la comunione, la cresima e mi sono sposata. Non me la
sentivo di spostarmi.”
Nella percezione degli anziani abitanti
locali il ponte rappresenta una discontinuità in termini spaziali, un confine
ben delimitato tra due realtà sociali pensate come differenti tra loro.
Mentre gli
anziani vissuti nel quartiere di Turro sostenevano l’appartenenza di questa
parte della via al loro, quelli del quartiere di Casoretto la sostenevano
invece come appartenente a quest’ultimo. Una differenza significativa si
riscontrava invece in riferimento agli abitanti dei civici della via Padova
stessa che ne sostenevano piuttosto l’autonomia, dalle citate realtà di
quartiere, e ne accentuavano il carattere di frammentazione e dispersione.
“ La parte che
dal ponte va fino a Piazzale Loreto non era parte di un quartiere. Io la
chiamava la seconda sala d’aspetto dopo la Stazione Centrale. L’ho sempre vista
come zona di transito. Al giovedì era il giorno dei traslochi, c’era una ditta
molto grande davanti al Piazzale Loreto. Era un quartiere popolare, pieno di
operai, c’erano le fabbriche e tante attività. Dopo la costruzione della
metropolitana hanno iniziato con le vendite frazionate. Chi poteva comprare
comprava. Gli altri dovevano andarsene. Si facevano delle battaglie tremende. I
proprietari si mettevano a vendere gli appartamenti in un camper davanti alle
case ( …)”.
La testimonianza
qui inserita ci consente di individuare un importante elemento di continuità
storica in riferimento alla via presa in esame e, in particolare, di connettere
in modo significativo le memorie e i racconti sulla mobilità geografica,
sociale ed economica nazionale e transnazionale dei suoi abitanti e/o di coloro
che vi lavorano.
Se la presenza
di cittadini stranieri interessa da qualche anno la via Padova nel suo
complesso, la parte della Via che da Piazzale Loreto arriva fino al Ponte è
stata la prima ad essere interessata
dall’inserimento di cittadini stranieri e quella in cui lo spazio preesistente
ha subito riconfigurazioni più profonde.
Sebbene il
processo di emigrazione transnazionale sia un fenomeno recente che interessa la
zona in misura significativa solo dall’inizio degli anni ’90, i processi di
mobilità geografica, sociale ed economica nazionali interessano l’area da più
di un secolo e hanno inciso profondamente nella conformazione di quest’area.
La tensione tra la
dimensione dello stare e dell’abitare e la dimensione del muoversi e del
circolare caratterizza storicamente quest’area urbana.
Le memorie, i
saperi e le tradizioni di mobilità qui rinvenibili ci consentono di considerare
le dimensioni del muoversi e del circolare come costitutive e non sussidiare
rispetto alle dimensioni dello stare e dell’abitare.
L’assunzione
della mobilità quale elemento costitutivo e caratteristico di questa parte di
territorio urbano ed è un aspetto fondamentale, tuttavia sistematicamente
trascurato, per la comprensione delle conflittualità che periodicamente
interessano il luogo.
Un’attenzione
mirata e costante a questo elemento potrebbe agire positivamente quale elemento
coesivo in termini culturali.
2. La produzione dell’oggetto:
stranieri e confini
Il sovrainvestimento
di senso che ha interessato la categoria di “straniero” è connesso direttamente
alla crisi che ha colpito e colpisce la formazione Stato – Nazionale a livello
globale quale istanza legittima dello spazio politico fondato sul principio di
territorialità. E’ una categoria la cui densità semantica è pari alle diverse
utilizzazioni che ne vengono fatte.
Si potrebbe
pensare a tale categoria come ad un prodotto culturale mobile e inafferrabile,
in quanto non nasconde nessuna essenza, nessun sé e, nel contempo, come ad una
modalità di rappresentazione e di attribuzione di significati che permette di
delimitare, di dividere e di suddividere, spostando il limite di ciò che è
interno o esterno al sistema (noi/altri).
Bisogna a mio
parere distinguere i contenuti manifesti e/o latenti attribuiti a tale oggetto,
dalle pratiche che lo producono. In generale si dà per scontato che esista
questo oggetto nella sua unicità
e, quindi, dei discorsi che lo affrontano da differenti angolazioni. La
condizione di estraneità è invece
costituita, come diceva Foucault in riferimento alla malattia mentale:
“Dall’insieme di ciò che è stato detto nel gruppo di
tutti gli enunciati che la nominano, la delimitano, la descrivono, la spiegano,
ne raccontano lo sviluppo, ne indicano le diverse correlazioni, la giudicano
ed, eventualmente le prestano la parola articolando in nome suo dei discorsi
che devono passare per suoi.”[13]
L’unità non è
dato riunendo sotto lo stesso termine (“straniero”) tutti i discorsi che a
questo si riferiscono, piuttosto la condizione dell’oggetto è, secondo questo
autore, costruita attraverso le pratiche che lo fanno emergere, in quanto
oggetto, nominandolo e descrivendolo.
E’ significativo
osservare che in genere viene applicata l’operazione inversa. Passando dall’auto
evidenza della categoria “Straniero” ai problemi che questa pone, la si fonda
quale condizione a partire dalla quale possono essere poste una serie di
questioni: linguistiche, pedagogiche, psicologiche, culturali, sociali,
economiche e politiche.
Con questo non
voglio certo dire che il silenzio sia preferibile alle pratiche, né che gli
argomenti trattati nelle scienze sociali siano privi di senso o inutili ma,
piuttosto, che l’oggetto non è ciò a partire dal quale si sviluppa il discorso
ma ciò che è prodotto da quest’ultimo.
Parlando della
formazione degli oggetti Foucault scriveva:
“L’oggetto
esiste nelle positive condizioni di un complesso ventaglio di rapporti. Queste
relazioni si stabiliscono tra istituzioni, processi economici e sociali, forme
di comportamento, sistemi di norme, tecniche, tipi di classificazione, modi di
caratterizzazione; e non sono presenti nell’oggetto. Non ne definiscono la
costituzione interna, ma ciò che gli permette di apparire, di giustapporsi ad
altri oggetti, di situarsi in rapporto ad essi, di definire la sua differenza,
la sua irriducibilità, ed eventualmente la sua eterogeneità, insomma di
collocarsi in un campo di esteriorità.” [pag.
61/62][14]
2.1 “ Da qualche anno a questa parte la zona è cambiata. Ci sono troppi
stranieri”.
Nel ripercorrere
il materiale raccolto durante i mesi di ricerca la ricorrenza di questo
enunciato è tale da richiedere un’attenzione ed una trattazione specifiche. Si
tratta infatti di un “ritornello” che circola costantemente per la via
producendo spazi di alterità, dei contesti, dei confini e delle solidarietà di
categoria. Molti dicevano /dicono di sentirsi minacciati dalla presenza di
questi corpi “ estranei ”[15]
di cui non si sa nulla ma di cui si continua a parlare come se l’evidenza del
visibile, che permea tali parole, avesse bisogno di essere continuamente
confermata e detta.
Questi discorsi
producono ciò che viene comunemente definita come minaccia dell’invasione, tali
pratiche discorsive istituiscono il corpo “ estraneo” quale segno visibile di
una minaccia alla propria integrità fisica e umana[16].
Più che il
contenuto di tali credenze è interessante l’energia di tali affermazioni, il
modo in cui istituiscono un certo tipo di realtà e la confermino attraverso la
visione. Come osservava W.I.Thomas,“Se l’uomo definisce la situazione come
reale essa sarà reale nelle sue conseguenze”[17].
Le statistiche
demografiche della popolazione straniera residente nel territorio milanese
mostrano chiaramente come la percezione dei numeri a livello locale subisca
delle alterazioni. Le statistiche non risultano efficaci nel ribaltare la
percezione di sé in quanto minoranza e riconoscere ad essa un carattere
immaginario non ne diminuisce gli effetti discorsivi o meno.
La costruzione
della figura del clandestino quale soggetto non tanto privo di permesso di
soggiorno, quanto dedito ad attività illecite, risulta utile alla produzione di
questa formazione discorsiva.
Basta poco
perché, dalla vetrina di un negozio alla fermata dell’autobus o mentre si beve
un caffè al bar, i corpi “estranei” diventino significanti di stabilità per il
sé in cerca di un oggetto in cui riflettersi. In questo sguardo voyeuristico si
legge il desiderio di fissare la differenza in un oggetto visibile e per questo
dominabile[18].
Nel materiale di
ricerca raccolto le endodefinizioni ricorrenti degli e sugli stranieri ci
consentono di isolare una serie di routine discorsive che definiscono la
differenza e la fanno emergere. Citerò qui solo le più rilevanti allo scopo di
evidenziare le strategie discorsive che istituiscono localmente un confine tra il “noi” e il “loro”. Lo
stereotipo, in quanto forma di conoscenza e di identificazione, è ciò che
consente la formazione di queste narrative di contatto il cui effetto generale
di ridondanza deriva dalla loro continua ripetizione e circolazione.
K.H.Bhabha
parlando dello stereotipo come di una forma di rappresentazione paradossale,
scrive:
“ Lo stereotipo non è una semplificazione perché è una
modalità falsa di rappresentazione di una realtà data; è una semplificazione
perché è una forma fissa, bloccata, di rappresentazione (…)” [pag.110][19]
-
La sporcizia, il disordine.
-
Il corpo improduttivo: lo straniero deve essere un
corpo produttivo, la sua presenza è accettabile solo nella cornice del lavoro.
Non deve farsi notare in alcun modo altrimenti diventa causa ed effetto del
discorso che lo emargina e ne fa l’esempio di un uso improprio dello spazio.[20]
La distinzione tra corpo produttivo e improduttivo autorizza il discorso alla
costruzione di indici di gradimento / disistima delle differenti popolazioni
presenti sul territorio.[21]
-
Il coprifuoco[22]
quale scenario privilegiato di costruzione dell’alterità.
-
Svalutazione della via[23]
: svalutazione economica e culturale della via in riferimento alla percezione
di un pericolo diffuso e incombente dovuto alla microcriminalità presente a
livello locale. Le attività illegali vengono ricondotte alla presenza di “stranieri.
-
La formazione di nicchie economiche chiuse e settoriali
che bloccherebbero l’economia.[24]
L’inserimento
dei soggetti in categorie già date e pronte all’uso permette di fissare un
confine tra il “noi” e il “loro”, dove il “noi” può rimanere implicito a fronte
di un eccesso di alterità attribuito al “loro”. E’ in questa forma, per
esempio, che i corpi in attesa dell’autobus – una delle scene più ricorrenti in
questa produzione di alterità – dimostrano la verità dell’invasione da parte di
un “troppo” che può essere rappresentato da chiunque abbia un colore o una
fisionomia del volto differente dalla “nostra”. Ma la categoria omnicomprensiva
di “stranieri” perde immediatamente la sua trasparenza nel momento in cui,
riconoscendo ai soggetti la possibilità di non essere identici, si sente la
necessità di definirli a partire da coordinate di conoscenza che hanno come
criterio di definizione una serie di comportamenti disapprovati socialmente e
non una qualche differenza ricavabile dal diverso luogo di provenienza dei soggetti.
La microcriminalità, o l’illegalità più in generale, la sporcizia e il
disordine, non sono attributi culturali di nessun gruppo in particolare.
Il loro utilizzo
quali attributi discriminatori tra il sé e gli altri rivela i limiti di un tale
discorso. Anche quando l’origine è assunta banalmente come luogo a partire dal
quale è possibile dedurre alcune caratteristiche, è evidente che i criteri in
base ai quali risulta possibile attivare una discriminazione positiva sono
interni al nostro sistema e non hanno nulla a che vedere con l’origine dei
soggetti.
Se alcuni di
loro possono essere definiti come buoni produttori e consumatori allora sembra
rendersi necessario specificare la loro distanza rispetto a tutti coloro che
non fanno parte di questo insieme. Ma se in prima analisi i criteri in base ai
quali vengono prodotti i summenzionati giudizi positivi sembrano essere quelli
del lavoro e della capacità di acquisto, ad un esame più attento emerge spesso
che l’invisibilità sociale e la possibilità di una retribuzione più bassa siano
le ragioni che consentono di comprendere le preferenze accordate.
Il valore del
denaro non è uguale ovunque, a parità di stipendio la capacità di acquisto
varia in riferimento ai valori di cambio delle differenti monete. E’ evidente
come questo possa incidere in misura variabile sulle scelte che riguardano il
lavoro, in particolare sulle scelte delle retribuzioni dei lavoratori senza
contratto. Quando si parla di lavori umili che gli italiani non vogliono più
fare, spesso ci si riferisce non solo a specifiche occupazioni ma soprattutto a
certi tipologie di retribuzione in rapporto all’orario di lavoro.
Risulta infatti
fondamentale sottolineare l’importanza dei fattori economici e la loro
incidenza sulle definizioni e sui giudizi di valore che vengono espressi.
Come cercherò di
esporre nel prossimo paragrafo, fattori di tipo economico sono entrati in campo
ed hanno interagito con altre variabili altrettanto significative nella
formazione e nel mantenimento di una specifica solidarietà di categoria: quella
dei commercianti italiani.
Questi ultimi
hanno avuto una posizione di primo piano nella produzione a livello locale
della categoria “stranieri”e nella percezione di sé in quanto minoranza a
rischio di “estinzione”. Cercherò di dimostrare come tale rappresentazione,
basata in primo luogo sulla contrapposizione sé/altro, è fuorviante e oscura e
pone in secondo piano processi globali effettivamente operanti.
2.2 Una mappa di lettura
Se partendo da
piazzale Loreto si inizia a camminare lungo la via Padova una prima
osservazione sarebbe senz’altro relativa alla presenza di diversi esercizi
commerciali dalla cui insegna e dai prodotti esposti in vetrina si evince che
appartengano o siano gestiti da cittadini provenienti da altri paesi. Questa è
sicuramente una delle ragioni per cui molti classificano questa strada come
multietnica. L’emergenza, a livello locale, di queste attività ha avuto inizio
verso la fine degli anni ’90 e si è progressivamente accentuata nel decennio
2000 – 2010: negozi di generi alimentari asiatici e sudamericani, macellerie
islamiche, call – centers e internet points, agenzie di invio di denaro
all’estero, ristoranti tipici classificati in genere come etnici, parrucchieri
cinesi, Kepab e videoteche indiane, centri di massaggi; per citare solo gli
esercizi più diffusi.
La progressiva
comparsa di queste attività e la corrispondente scomparsa dei precedenti
esercizi commerciali e attività artigianali gestite da cittadini italiani è
stata una questione molto dibattuta dai proprietari di esercizi commerciali e
dagli abitanti della zona.
“ Sono qui
dall’88, sono passati 13 anni. C’erano tanti negozi e tante attività, adesso
stanno chiudendo tutti. Man mano che chiudono i negozi italiani aprono gli
stranieri e danneggiano gli italiani. Se uno abita qui e vuole fare una
passeggiata non la fa. Quando io e il macellaio chiudiamo la zona sarà in mano
agli stranieri, è un mondo che sta scomparendo. Quando finiremo noi finirà tutto”.
Dal punto di
vista di un commerciante in possesso di un piccolo esercizio di prodotti
alimentari non è una questione priva di fondamento o inutile.
Come lo stesso
ebbe modo di rilevare nel corso dell’intervista, il settore del commercio al
dettaglio degli alimenti freschi o confezionati rischia di scomparire sommerso
dai grandi centri commerciali che praticano una politica dei prezzi altamente
concorrenziale che il piccolo commerciante non è in grado di fronteggiare.
I supermercati, il ruolo della donna, il
cambiamento dei gusti alimentari e dei tempi dedicati alla preparazione dei
cibi, sono tutti fattori che hanno inciso profondamente sul consumo e sulle
scelte di acquisto dei soggetti.
“Noi siamo gli stoppa buchi dei milanesi”
è una felice espressione utilizzata da un commerciante che lavorava sulla via
per significare tali processi.
La connessione
tra questi processi globali e quello della migrazione transnazionale è minima,
ma mentre la visibilità dei primi è deduttiva, la presenza degli stranieri e la
corrispondente emergenza di negozi che rispondono ai bisogni e alle aspettative
è immediata.
“ Quando ho
comprato 13 anni fa era una buona zona commerciale, ora è diventata una via un
po’ bislacca. Commercialmente la via è scesa di molto. Ci sono troppi
stranieri. I musulmani aprono le loro macellerie e qua sono rimasto solo io.
Loro vendono un po’ di tutto, come un bazar. Non hanno la stessa carne. Loro
non mangiano come noi e macellano la carne in modo diverso.”
Il rischio di
“scomparire” è motivato da fattori effettivamente operanti.
La sostituzione
di una mappa di lettura locale alla moltitudine delle storie particolari che
vivono, attraversano e sostano nello spazio equivale all’imposizione di un
ordine in cui la visione sostituisce il dialogo o comunque lo rende superfluo.
Il tempo
presente che caratterizza gli enunciati qui presentati contribuisce alla
fissazione dell’oggetto impedendone lo sviluppo e la trasformazione. Il sapere
organizzato da queste narrative di contatto autorizza il potere di definire
l’altro e di assegnare a questo una posizione marginale all’interno della
struttura delle relazioni sociali.
Prendendo in
esame le modalità attraverso le quali questi racconti orali circolano a livello
locale tra la categoria presa in esame, è possibile rilevarne i luoghi elettivi
di produzione, di trasmissione e di riproduzione. I bar disseminati lungo il
percorso sono, a questo proposito, luoghi privilegiati in cui ne avviene la
socializzazione.
Questi possono
essere concettualizzati quali nodi che collegano tra loro una serie di singoli
punti vendita e che costituiscono il supporto fisico e materiale alle reti di
relazioni che sostengono la formazione e il mantenimento della solidarietà di
categoria qui analizzata. Trattandosi di soggetti che abitano lo stesso spazio/
tempo le relazioni e lo scambio dei significati avvengono attraverso
interazioni faccia – a – faccia[25].
Il livello di
convergenza e congruenza dei significati qui analizzati è molto alto in quanto
coloro che partecipano alla rete condividono sia la professione che lo spazio
locale. Giorno dopo giorno, incontrandosi, i commercianti danno forma al loro
vissuto spaziale sottoforma di racconto. Quest’ultimo, in quanto prodotto
collettivo, organizza l’esperienza costituendo una prospettiva specifica a
partire dalla quale tale versione della realtà circostante può agire come
paradigma personale di azione. Da questa prospettiva il racconto (i contenuti e
le forme degli scambi comunicativi ) crea un campo per l’azione e la
circolazione dei significati che lo producono e che, a loro volta, il racconto
produce. Ecco che aprire il discorso con il “Troppo” ( “Ci sono troppi
stranieri”), chiarisce immediatamente la prospettiva a partire dalla quale
si partecipa all’interazione: il “ Noi” come minoranza invasa e minacciata.
“ Qua è un po’ come una famiglia allargata tra i commercianti che ci sono
in zona. I commercianti stranieri non si sono inseriti tranne in qualche caso
raro.”
Quest’espressione
(famiglia allargata) utilizzata da uno degli intervistati per rendere conto del
tipo di solidarietà esistente tra i commercianti della via, è sintomatica della
prospettiva collettiva che, con energia, viene proposta come condizione di
ingresso nel gruppo. Il mancato inserimento dei commercianti stranieri è, in
questa luce, comprensibile.
Nel prendere in
considerazione i materiali di intervista raccolti tra i le attività commerciali
gestite da cittadini stranieri che possiedono attività in loco, è interessante
osservare come i racconti dello spazio non si discostino significativamente dal
canovaccio narrativo fino a qui analizzato.
La
contrapposizione sé/altro opera con forza laddove i soggetti stabilitisi in
Italia a prezzo di grandi investimenti emotivi ed economici temono di essere
confusi con la massa indistinta dei nuovi arrivati. Si tratta di un fenomeno
documentato nella letteratura che ha per oggetto il fenomeno migratorio:
“ Gli individui o i gruppi assimilati si dimostrano
sempre suscettibili di vedersi contestare la totale appartenenza fino a che
l’opera collettiva dell’oblio non sia intervenuta a loro favore e di coloro che
continuano a vederli come “assimilati”. Una delle ragioni delle ostilità degli
assimilati rispetto ai nuovi arrivati è rintracciabile nel fatto che la loro
presenza, riattivando la distinzione stranieri/nativi ricorda, o rischia di
ricordare, al gruppo di accoglienza di non essere neanche essi dei nativi”.
[ pag.132][26]
Nel suo studio
sull’etnicità e sulle opportunità nell’America del nord urbana U.Hannerz[27],
analizzando le questioni della solidarietà e della stratificazione sociale,
sottolinea come la posizione occupata nella struttura delle opportunità e le
norme di comportamento associate
alla mobilità sociale possano incidere sulla solidarietà manifestata verso il
gruppo sociale più ampio. Lo status sociale raggiunto può, da questa
prospettiva, spingere l’individuo a ritenere tale solidarietà se non
irrilevante comunque contraria ai propri interessi e, di conseguenza, ad accentuare
la differenza tra sé e gli strati sociali più bassi fatti oggetto di
esodefinizioni denigratorie e stigmatizzanti.
A circa dieci anni di distanza dalle
osservazioni e dalle analisi qui presentate la maggior parte dei commercianti
italiani ha venduto o affittato le proprie attività commerciali a cittadini
stranieri.
Gli abitanti che
possedevano risorse economiche sufficienti si sono spostati verso altre aree urbane
che godono di un maggiore prestigio sociale affittando e/o vendendo gli
appartamenti ai cittadini immigrati. Gli italiani privi di risorse economiche e
sociali non hanno avuto la possibilità di muoversi verso altre aree urbane e la
loro percezione di immobilità è un fatto reale.
Data la
vicinanza con il centro e la connessione agevole dei mezzi di trasporto con il
resto della città, questa zona rappresenta storicamente, come abbiamo visto,
una via di accesso alla mobilità economica e sociale nel territorio milanese.
Si potrebbe
definirla quale zona di transito se questa definizione non oscurasse le
relazioni sociali di vicinato che, in particolare intorno agli antichi
quartieri, si mantengono e si riproducono nel tempo e i nuovi vicinati che,
intorno alle attività economiche ed associative degli immigrati, sono andate
costituendosi negli anni.
A seguito dei
recenti episodi di violenza verificatesi dopo l’uccisione di un giovane
marocchino, le associazioni culturali che operano da anni sul territorio, e che
per questa ragione rappresentano un positivo elemento di continuità, hanno
promosso nel maggio di quest’anno un’iniziativa significativamente intitolata “
Via Padova è meglio di Milano”.
L’iniziativa dimostra
inequivocabilmente la presenza di un trait d’union tra il vecchio e il nuovo
sul quale varrebbe la pena indagare.
Fino a che la
storicità di quest’area urbana viene costantemente costruita e rappresentata
mediaticamente attraverso gli episodi di violenza, non certo assenti ma
senz’altro oggetto di proiezioni e amplificazioni indebite, non ci sarà da
stupirsi se importanti esempi e forme di convivenza e solidarietà sociale non
costituiranno argomento di discussione e analisi sociale.
2.3 Criminalità e instabilità
Durante il 1999
Milano è stata protagonista di una grossa mobilitazione di massa che ha
coinvolto i media, i rappresentanti politici, le associazioni di categoria
(prima tra tutte quella dei commercianti), i capi religiosi e l’opinione
pubblica intorno alla questione della sicurezza urbana. Coloro che erano
presenti in zona con attività commerciali sia prima che durante questo periodo
si riferivano spesso a questo per dare conferma alle loro versioni narrative
della situazione locale.
“ Ho aperto nell’87, avevo già un’attività del
genere e ho pensato che c’era più passaggio. Siamo a trecento metri dal Corso Buenos
Aires ma sembra che siamo a 10 Km. Chiudono i negozi italiani e aprono quelli
stranieri. C’è un pezzo in cui ci sono solo cinesi ed egiziani e la gente non
passa, pensa a quello che è successo al tabaccaio e al gioielliere. La gente ha
paura e perde l’abitudine di passeggiare.”
La formazione
discorsiva precedentemente analizzata riprende alcuni dei motivi dominanti di
questa mobilitazione, in particolare la richiesta di maggiore controllo e
tutela da parte delle forze dell’ordine e l’indebita associazione tra
stranieri, clandestini e criminali che ha prodotto un’immagine
dell’immigrazione come problema sociale e fonte di disordine e di degrado
ambientale.
All’inizio del
gennaio 1999 i media iniziarono a dare risalto ad alcuni omicidi e a diversi crimini
minori avvenuti in città. La circolarità allora istituitasi tra invasione,
richiesta di protezione e controllo del territorio fu il risultato di questa
campagna mediatica e dei contrastanti interessi in gioco. Una sorta di causa
comune che alla base si nutriva, come si nutre tuttora, di una sfiducia diffusa
nei confronti dello Stato e del governo.
Non a caso il
controllo del territorio fu il collante che tenne unite opinioni per altro
divergenti.
Il luogo in cui
si abita e/o si lavora esce dal frettoloso anonimato che caratterizza molte
delle relazioni interpersonali nell’ambiente urbano per diventare risorsa
identitaria. Questi vicinati sono nella maggior parte dei casi lo scenario
costruito attraverso le solidarietà reattive alla paura e alla minaccia poste
in risalto da un’informazione mediatica sommaria.
Alcune delle
tragedie avvenute durante il Gennaio 1999 interessarono dei commercianti
locali. Mi riferisco all’uccisione senza motivo apparente di un edicolante in
Piazza Esquilio, alla rapina e al ferimento di un tabaccaio in via Ponte Seveso
ed alla morte a seguito di una rapina a mano armata di un altro tabaccaio in
via Derna. Quando nel febbraio dello stesso anno un’altra rapina a mano armata
provocò la morte del gioielliere Bartocci in via Padova, quest’ultima divenne
il simbolo indiscusso del disordine e del degrado ambientale.
I commercianti
sono stati una forza molto attiva nella protesta spontanea sorta in clima di
emergenza. L’attenzione che questi sono riusciti a catalizzare intorno alla
questione definita con il termine “microcriminalità” ha ampliato la percezione
di paura e pericolo e contemporaneamente la riserva di notizie dalle quali
attingere per la creazione dei servizi giornalistici e televisivi che hanno
contribuito alla costruzione di uno spazio di rappresentazione allarmista.
In questo
panorama immaginario costruito ad arte la periferia urbana emerge come lo
scenario privilegiato della conflittualità sociale.
E’ infatti
soprattutto dalla periferia, dai margini della città, che emerge sulla scena il
cittadino/commerciante in quanto attore pubblico riconosciuto. Un’analisi
attenta degli articoli di giornale e dei servizi televisivi lo conferma e lo
specifica.
Sebbene non sia
qui possibile soffermarsi su questo aspetto, risulta comunque fondamentale
accennarvi per l’importanza che riveste nella periodica riproduzione di una
certa “cosmologia sociale” e per il trattamento di cui è stato oggetto, e
continua ad esserlo, il contesto
qui considerato nella rappresentazione mediatica[28].
Risulta infatti
fondamentale inserire le narrative di contatto precedentemente analizzate nella
congiuntura storica e politica in cui si è venuta a trovare l’Italia a partire
dagli anni ’90.
Come ha
osservato Dal Lago[29] la
strategia della legalità a tutti costi gode di un certo consenso
internazionale. In Italia il crollo del sistema dei partiti, che aveva
garantito l’equilibrio costituzionale dal dopoguerra agli anni ’90, ha aperto
una fase di ricerca di un nuovo ordine repubblicano che non si è ancora conclusa.
Non a caso, come ha osservato Schiavone[30],
la liquidazione del vecchio gruppo dirigente ha preso la forma di una decapitazione
giudiziaria condotta nel nome di una riscossa e di un riarmo morali.
La creazione di
minacce è divenuta una strategia ricorrente per creare coesione sociale laddove
i sistemi di appartenenza ed i riferimenti collettivi sono in crisi.
Le scelte sia
individuali che collettive sono sempre più condizionate da fattori che il
proprio bagaglio di conoscenze e di esperienze non sono spesso in grado di
comprendere. Si colgono frammenti di mondo ma è sempre più difficile
organizzare l’informazione in un’unità dotate di senso. Come ha sostenuto M.
Augè, dare un senso al presente è una necessità emergente dovuta alla
riconfigurazione su scala globale di cui siamo localmente protagonisti.
“ Ciò che è nuovo non consiste nel fatto che il mondo
abbia poco senso, meno senso o non ne abbia affatto. Il punto è che noi
proviamo esplicitamente e intensamente il bisogno di dargliene uno: di dare senso
al mondo (…). Questo bisogno di dare un
senso al presente, se non al passato, costituisce il riscatto di questa
sovrabbondanza di avvenimenti, corrispondente a una situazione che potremmo
definire di “surmodernità” per rendere conto della sua modalità essenziale:
l’eccesso.” [pag.][31]
Le
trasformazioni che investono le modalità del pensare e dell’abitare nello
spazio e nel tempo non possono non avere effetti a livello individuale e
collettivo, in particolare sui sistemi di rappresentazione attraverso i quali
prendono forma le categorie di identità e di alterità collettive.
Se il bisogno di
dare un senso al presente è, per riprendere le parole di Augè, una necessità
impellente e positiva del nostro presente, il suo rovescio in termini
psicologici sembra essere l’ansia. Minacce e paure di ogni sorta segnano il
presente come se il consenso, venuto meno a livello ideologico, si fondasse su
un modello gestionale che fa della minaccia la sua principale istanza di
legittimazione. Uno dei ruoli della “ minaccia” è infatti quello di rinforzare
la coesione di gruppo. Una volta materializzata questa acquisisce una sua
realtà fisica, diventa informazione e in questa veste circola acquisendo
credibilità. Nella maggior parte dei casi non si tratta di verificare
l’informazione quanto piuttosto di credere ad una certa interpretazione dei
fatti, ad una certa costruzione degli stessi. I “ fatti” di per sé non hanno
significato, ma siamo noi ad attribuirglielo. La forza di una certa narrazione
deriva dall’effetto strutturante che questa esercita sulle nostre percezioni.
Il mantenimento di un clima d’insicurezza risponde inoltre agli interessi
congiunturali in materia di politica elettorale.
Analizzando e
commentando il canovaccio narrativo che circola tra i commercianti e tra gli
abitanti italiani in loco ho cercato di porre in primo piano come, attraverso
la sua produzione e la sua riproduzione, fosse possibile al gruppo comunicare
il significato da attribuire alla visibilità del “corpo estraneo”.
Il tentativo di
stabilizzare una certa versione della realtà sociale e di giungere a questa
attraverso un processo di scambio e d’interazione collettiva rivela non solo
ciò che bisogna pensare per appartenere a quel gruppo specifico ma soprattutto
che la simbologia di tale discorso è indissociabile dalla storia del gruppo all’interno
del quale tale immaginario circola. La composizione sociale del gruppo è qui
rilevante quanto lo è il contrassegno territoriale.[32]
La presenza di
cittadini stranieri e la costruzione del clandestino quale soggetto criminale
agiscono come superfici di proiezione per la frustrazione e il risentimento
accumulati dai commercianti nel constatare le modificazioni che investono il
settore.
Il termine “invasione”
rivela in questo caso un profondo senso di disagio e d’insicurezza nei
confronti dei cambiamenti che interessano l’ambiente familiare e la società nel
suo complesso. La sensazione di “non sentirsi in nessun luogo a casa propria”[33]
corrisponde alle difficoltà effettive incontrate da molti abitanti della zona,
in particolare gli anziani, nel dare un senso e un valore positivo alle discontinuità
linguistiche, culturali e religiose che riconfigurano lo spazio sostituendo e/o
modificando i riferimenti materiali, valoriali e simbolici che fanno di questo
uno spazio vissuto.
Se osserviamo da
vicino la via Padova è facile constatare la ricchezza e l’eterogeneità dei
punti di riferimento locali, soprattutto per quanto concerne la presenza dei
nuovi vicinati che si sono formati a seguito della presenza delle diverse
attività commerciali gestite da cittadini stranieri.
Uno sguardo e
una breve analisi di questi nodi nevralgici disseminati lungo la via costituirà
l’argomento del prossimo paragrafo.
3. Zone di contatto
Analizzando le biografie
di migrazione raccolte durante il percorso di ricerca ritengo che la precarietà
sia uno degli elementi che maggiormente accomuna il vissuto dei cittadini
stranieri presenti nella via. La precarietà, soprattutto rispetto all’alloggio
e all’occupazione, richiede loro a una mobilità estrema intesa come
bisogno/necessità di spostarsi continuamente nel e sul territorio per
garantirsi l’accesso, anche in termini relazionali, alle risorse disponibili
nel territorio milanese. Le
difficoltà da loro incontrare spesso si equivalgono sia perché esiste una
regolamentazione dei flussi che incide in misura variabile sulla biografia di
ognuno, sia perché esistono delle necessità primarie che vanno soddisfatte, mi
riferisco in particolare all’alloggio, al lavoro e agli affetti.
Ultimamente il
termine “precarietà” è utilizzato comunemente per definire le condizioni contrattuali dei lavoratori sorte in seguito a ciò che Harvey ha
utilmente definito nei termini di regime dell’ accumulazione flessibile[34].
Si tratta di un
fenomeno in espansione che riguarda tutti i cittadini, sia autoctoni sia
stranieri, ma è comunque innegabile che la vita di questi ultimi sia segnata,
più di altre, dall’esperienza della discontinuità e dalla dislocazione.
Secondo
l’antropologo M. Augè, lo spazio è vissuto quando si traduce nella pratica di
un luogo al quale si assegna significato e valore, quando un certo numero di
soggetti si riconoscono e si definiscono attraverso di esso e sono in grado di
leggervi la relazione che li unisce e quando la memoria, in quanto costruzione
collettiva del gruppo, produce una storia che si traduce nel sentimento di
appartenenza dei membri al gruppo[35].
Se assumiamo che
il luogo, così inteso, assolva necessità umane imprescindibili, riveste
un’importanza fondamentale l’analisi delle forme di scambio e di interazione
che le minoranze sono in grado di organizzare nel quadro di una crescente
disgiuntura tra territorio, soggettività e movimenti sociali collettivi.
Se il valore e
il significato attribuiti dal soggetto al domicilio e alla tipologia di lavoro
(si tratta il più delle volte di occupazioni poco gratificanti e faticose )
possiedono un carattere che si potrebbe definire prettamente strumentale, è
spesso il ritorno a casa a costituirsi come punto di riferimento centrale capace
di connettere tra loro le diverse temporalità( passato, presente e futuro) di
cui è composta l’esperienza di emigrazione.
Nelle storie di
vita raccolte la casa e la famiglia sono presentate spesso come il desiderio
che ha motivato la partenza dal proprio paese di origine: il racconto si muove
circolarmente intorno a questo tema centrale della costruzione della casa
configurandola come un luogo il cui valore e significato non è riducibile alla
presenza materiale della stessa.
Il riferimento
all’altrove permette di trascendere le difficoltà pratiche e concrete della
realtà immediata e di dare a queste un senso e un significato condivisibili con
altri e un riconoscimento del loro valore sul piano sociale.
La
trasformazione dello spazio pubblico in luogo d’incontro è spesso vissuta come
atto di forza esercitato dai nuovi abitanti nei confronti dell’ambiente e dei
vicinati preesistenti.
Le minoranze che
danno forma e contenuto a specifici spazi e luoghi creano vicinati entro cui si
realizza in misura variabile la produzione di soggetti locali. Ma la
localizzazione dei soggetti nel contesto di emigrazione, che caratterizza la
presenza di questi nuovi vicinati, non ha nulla di semplice.
Analizzando
alcuni dei contesti prodottisi tra la nuova popolazione urbana, in particolare
quella costituita dai cittadini peruviani, ciò che mi pare significativo
segnalare è la relazione specifica che si viene a costituire tra il proprio
essere qui e il paese d’origine. Se il riferimento all’altrove (reale ed
immaginario) è il collante che tiene insieme questi siti di interpretazione
multiformi, è altresì importante segnalare che il valore e il significato che
rivestono nella biografia individuale dei soggetti in emigrazione è
indissociabile dalla temporaneità attribuita al proprio essere qua. Poco
importa se durante il percorso il ritorno non si realizza nei tempi stabiliti
alla partenza. Istituendo l’altrove (casa, famiglia, affetti) quale punto di
riferimento i soggetti cercano, attraverso le relazioni con i propri concittadini,
di mantenere questa continuità. Si
tratta di una questione centrale per la comprensione delle modalità attraverso
le quali la località viene prodotta e riprodotta nel quadro di una crescente
deterritorializzazione. In un testo recente Appadurai parlando della località
da lui intesa quale struttura di sentimento, fa notare come questa sia sempre e
comunque una conquista sociale in pericolo in quanto intrinsecamente fragile.[36]
L’autore si
sofferma sul simbolismo spaziale dei riti di passaggio per rilevare come questi
possano essere interpretati “quali tecniche di produzione di soggetti locali,
attori sociali che imparano ad appartenere in modo adeguato ad una comunità
situata di parenti,vicini, amici e nemici.”[pag.233][37]
M. Augè,
parlando del luogo antropologico, osserva come i termini di questo discorso
siano spesso spaziali.
Le coordinate
spazio temporali, quali dimensioni costitutive dell’identità individuale e
collettiva, offrono un’immagine di permanenza e di stabilità ad individui e
gruppi e contribuiscono al mantenimento della coesione interna e della
continuità temporale[38]. Il
linguaggio dell’identità quando la continuità temporale è minacciata, si
spazializza[39].
Se prendiamo in
esame i luoghi d’incontro e scambio presenti nella via Padova possiamo
utilmente applicarvi gli spunti teorici e concettuali qui brevemente esposti.
La produzione e
riproduzione di un sentimento di appartenenza è possibile attraverso la
condivisione di questi spazi nei quali, attraverso la concretezza delle
pratiche quotidiane (linguaggi e gesti), i soggetti vivono l’esperienza del
ritorno nell’immediatezza del presente.
La via Padova è
disseminata di questi centri di incontro e di aggregazione periodica. Tali
spazi risultano eterogenei
rispetto alla loro composizione, alle modalità dell’aggregazione ed ai
tempi di quest’ultima. Queste “zone di contatto” rappresentano per i soggetti
dei punti stabili al centro di traiettorie discontinue e mutevoli, una
possibilità di mantenersi al centro del proprio vissuto attraverso ancoraggi
relazionali che garantiscono una continuità altrimenti difficile da mantenere.
Si tratta il più
delle volte di sistemi informali di relazioni che si sviluppano e possono
coincidere con luoghi identificabili (per esempio l’alimentari peruviano o il
bar gestito dai cinesi) senza però essere riducibili a questi. Possono altresì
configurare una serie di riferimenti associativi, più o meno formalizzati, in
grado di assicurare una socializzazione dello spazio e del tempo attraverso
pratiche consapevoli di rappresentazione, esecuzione ed azione (per esempio il
centro culturale islamico). Spostandosi e sostando da un luogo all’altro i
soggetti seminano vita sociale riconfigurando lo spazio urbano.
A livello locale
i raggruppamenti che si formano sul marciapiede, davanti ai bar e ai negozi,
sono spesso percepiti dagli abitanti italiani come appropriazioni indebite
dello spazio pubblico.
Il sentimento d’immediatezza
e “intimità” sociale che si crea tra gli appartenenti a queste reti di
relazioni non è facilmente condivisibile per coloro che non possiedono le
coordinate culturali e i codici comunicativi (non solo linguistici) di
riconoscimento reciproco. Questo non significa che i gruppi siano impermeabili
ma che l’acquisizione di una familiarità – a vari gradi e livelli - è possibile
solo attraverso un investimento personale di tempo.
L’effetto di
spaesamento che questo può produrre, in particolare per la popolazione anziana
residente, è un aspetto poco trattato nella letteratura che ha per oggetto il
fenomeno immigratorio ma che ci consente spesso di comprendere le percezioni
negative e le corrispondenti definizioni degli spazi e dei soggetti.
Le minoranze che
danno forma e contenuto a specifici spazi esperiscono quotidianamente sia la
riduzione delle distanze che la difficoltà di fare del tempo un principio di
intelligibilità e ad iscrivervi un principio di identità. Le solidarietà
linguistiche, culturali, religiose ed economiche che si costituiscono segnalano
la presenza di principi non territoriali di appartenenza. La continuità con il
passato non è né semplice né lineare, piuttosto implica continui processi di
traduzione che, spesso inconsapevolmente, rimettono in discussione l’idea
stessa di omogeneità e linearità.
Nella
costruzione e nel mantenimento di ancoraggi relazionali i soggetti rimettono in
scena il passato ma lo fanno con uno spirito di revisione, a volte di
contestazione, legato direttamente al proprio essere qui e all’apertura verso
un futuro possibile che tale presenza comporta.
Scrive Bhabha a
questo proposito:
“ Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale,
è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a
soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi su quei momenti e processi
che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali.
Questi spazi inter-medi costituiscono il terreno per l’elaborazione di
strategie del sé – come singoli o come gruppo – che danno vita a nuovi segni di
identità e a luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la
contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società” [pag.12][40]
Le esperienze e
i vissuti di emigrazione esemplificano molto bene l’istanza di mediazione che
tali luoghi operano nell’articolazione sociale delle differenze.
Parlando della
posizione intermedia di Chamcha, il protagonista del libro di S. Rushdie “I
versi satanici”, Bhabha interpreta in questo modo il problema posta dall’autore
del testo rispetto alla condizione marginale dei migranti ( postcoloniali):
“Attraversare le frontiere culturali consente di
essere liberi dall’essenza del sé ( Lucrezio) oppure, proprio come la cera, la
migrazione non muta che la superficie dell’animo, mantenendo intatta l’identità
sotto la molteplicità delle forme ( Ovidio)?” [pag.310][41]
Secondo Bhabha l’esperienza del
migrante non consente di risolvere quest’ alternativa in quanto entrambe le
condizioni (istanze del passato/ bisogni del presente) si ricongiungono in
forma ambivalente nella “sopravvivenza” della vita del migrante.
Con
l’espressione “zona di contatto”
l’antropologo J. Clifford ha recentemente definito quegli spazi in cui
avviene la compresenza spaziale e temporale di soggetti precedentemente
separati da distanze storiche e geografiche e le cui traiettorie ora si
intersecano[42].
Le distanze precedenti ai contatti
quotidiani che avvengono nella via Padova non sono solo di tipo storico e geografico
ma anche sociali, economiche e culturali.
Sulla via Padova
s’incrociano quotidianamente le vite di soggetti che molto difficilmente si
sarebbero trovate a condividere lo stesso spazio solo pochi decenni fa.
Trascorrere una
giornata intera, dall’orario di apertura ( 9.00) a quello di chiusura ( 23.00)
presso uno qualsiasi dei negozi, consente di cogliere la forma fluida e
irregolare dei flussi culturali globali che l’antropologo Appadurai ha proposto
di rappresentare attraverso l’utilizzo del termine “panorama”.
A livello
mediatico la “cultura” attribuita a formazioni sociali e comunità spesso
definite attraverso il solo criterio della nazionalità “etnica” (i filippini, i
cinesi, i marocchini, etc.) appare come una sostanza immutabile utile per spiegare
i comportamenti e le attitudini dei soggetti, non come qualcosa che deve essere
compresa, interpretata e spiegata.
Solo un’analisi
attenta può contribuire alla comprensione e al riconoscimento sociale delle
dinamiche contemporanee in gioco nella riconfigurazione dei contesti locali.
Conclusioni
Ci troviamo
spesso ai margini di una globalità ancora tutta da definire e, simultaneamente,
al centro di territori urbani interessati da una profonda riconfigurazione
locale, dove l’articolazione sociale della differenza, come dimostrano i
recenti avvenimenti che hanno interessato Via Padova, dà luogo a conflitti che
assumono forme violente.
Come ha
osservato Miguel Mellino[43],
il confronto tra le affermazioni di molti autori contemporanei sulle identità
deboli, a confronto con situazioni ed eventi sociali come quelli verificatisi
recentemente in Via Padova, ci invitano a problematizzare certi assunti e certi
presupposti teorici sulle dinamiche delle identità culturali. Se la teoria non
deve diventare una forma rinnovata d’ideologia, per quanto eticamente auspicabile,
è necessario mettersi in relazione con l’esperienza sociale di soggetti
concreti. Scrive Mellino:
“(…)
credo che solo la ricerca etnografica possa dirci qualcosa di più sui modi in
cui i gruppi e i soggetti vivono le proprie realtà, i propri conflitti, le
proprie contraddizioni e il rapporto con gli altri. Solo un contatto
ravvicinato può rivelarci qualcosa sull’utopia postcoloniale e sul suo quesito
fondamentale: quando e come diventa possibile un’identità culturale che non si
tramuti in habitus ?” [ pag. 149 ][44].
La via Padova,
come reticolo di percorsi o sentieri spesso alternativi tra loro e convergenti
in punti strategici di riferimento, è stata per lungo tempo una strada postale
che congiungeva Milano a Venezia passando per Bergamo. Era una via che
connetteva Milano al mare.
Nel periodo
della dominazione austriaca il percorso acquisì un’importanza congiunturale
spingendosi fino a Vienna. Lungo l’itinerario si trovavano le poste per il
ristoro dei viaggiatori e dei cavalli. Un grande scalo terrestre dove mercanti,
messaggeri, artisti e avventurieri si scambiavano notizie e informazioni sullo
stato delle strade, sui governi, i pericoli possibili o immaginari e sugli
affari.
Dalle stesse
strade potevano giungere in città anche gli eserciti nemici ed è per questo che
ad ogni strada principale corrispondeva una porta e un muro difensivo che ne
segnava il confine. Nasce forse da questa doppia anima del movimento (interno
/esterno ) una certa rappresentazione delle periferie considerate da un lato
indicatrici di sviluppo urbano e dall’altro quali fonti di pericolo.
Le porte sono
scomparse o trasformate in monumenti ma la funzione di confine tra l’interno e
l’esterno che queste rappresentavano ha assunto nuove forme.
Le locande e le
trattorie sono state quasi del tutto sostituite da altre attività commerciali
che ne hanno assunto la funzione di crocevia – di zone di contatto – dando vita
ad un traffico culturale senza precedenti per ciò che attiene alla velocità e
all’intensità dello stesso.
Dal 2000 - 2001
alla fine della via Padova, presso Cascina Gobba, che da antico luogo di posta,
osteria e locanda insieme, è divenuta l’ultima stazione milanese della linea
metropolitana verde, una nuova tipologia di viaggiatori sosta ai margini della
città. Si tratta degli immigrati marocchini e dell’est europeo che a bordo di
pullman climatizzati partono da Milano e vi giungono.
Scritto da Sara Bramani, Università Milano
– Bicocca
sara.bramani@unimib.it
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[1] M. De
Certeau, L’invenzione del quotidiano,
Edizioni lavoro, Roma, 2001.
[2] Il termine
“località” è qui utilizzato nell’accezione attribuitagli dall’autore A.
Appadurai. Secondo questo autore tale
nozione definisce una forma sociale effettivamente esistente in cui la
“località” , in quanto qualità fenomenologica costituita da una serie di legami
tra la sensazione di immediatezza sociale, le tecnologie dell’interattività e
la relatività dei contesti, si realizza in maniera variabile. A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma,
2001.
[3]M.
De Certeau, L’invenzione del quotidiano,
Edizioni lavoro, Roma, 2001.
[4] Ibid
[5] Ibid
[6]
“Qui c’era il
mattatoio con annesso il mattatoio dei vitelli, nel retro ammazzavano e
squartavano le bestie. Io ho vissuto qui sempre. Passavo sempre lì davanti
perché dalla drogheria saliva un misto di odori, aromi, profumi mischiati.
C’erano i sacchi delle spezie sulla strada che mandavano tutti gli aromi dei
prodotti. Quando camminavo lì davanti tornavo indietro a quando ero bambina,
erano i profumi della mia gioventù. Ora non si sente più niente. E’ tutto
chiuso e sigillato, non ci sono più quegli odori.” [6]
[7]
Testimonianze raccolte tra gli abitanti locali. Le parti di interviste,
colloqui ed osservazioni che verranno inseriti ai fini dell’analisi qui
presentata verranno individuati con il corsivo. I nomi non verranno specificati
per esplicita richiesta dei soggetti interessati
[8] De Finetti, Milano: costruzione di una città, Etas
Kompass, Milano,1969. E’
interessante osservare come l’autore definisca il processo di annessione dei
borghi ( Corpi Santi ) nei termini di un progressivo controllo e dominio
esercitato dall’amministrazione cittadina sui territori limitrofi.
[9] Secondo C.
Cantù il circondario esterno era considerato come facente parte della città ma
l’accordo su questo tema non è unanime, come non lo è sul significato da
attribuire al termine “Corpi Santi”. Secondo alcuni il termine deriva dalla
presenza dei cimiteri nei quali venivano collocate le spoglie dei santi, per
altri dalle processioni che venivano svolte intorno alle mura cittadine e, per
altri ancora, il termine sarebbe la traduzione di Lomoreum che significa “lo
spazio dopo il muro”.
[10] G. P.
Semino, Zona 10: trame della costruzione
metropolitana, 1986.
[11] La sezione
fu dedicata a Mantovani Venerino, uno dei cinque partigiani che vennero
fucilati il 2 Febbraio del 1945 nel campo del Giuriati a Milano.
[11]
Via Padova 61, Scoppia la pace, interviste di Fiorella Cosmi e Matilde
Lucchini.
[13] M.
Foucault, L’archeologia del sapere,
BUR, Milano, 1999.
[14] Ibid
[15] Elenco qui
di seguito alcune frasi estratte dalle interviste somministrate ad alcuni abitanti della zona che esemplificano
chiaramente questa percezione:“Fino a
qualche anno fa eravamo tra noi. Ora non è più così, basta guardarsi in giro
per rendersi conto che siamo diventati una minoranza”. “ Noi ci sentiamo un po’ come mosche bianche”.
Gli stranieri sono in continuo aumento,
tra un po’ gli italiani saranno asserragliati nel centro.” Siamo noi che ci sentiamo all’estero”.
[16] “ Andavo alla scuola serale e sull’autobus mi
sono sentita estranea nella mia città, io lo vivo come un problema. Noi stiamo
diventano una minoranza. Quando ci sono incroci noi perdiamo qualcosa di nostro
con il tempo. Io sono convinta che ci sarà un mutamento fisiologico. Mi ricordo
negli anni ’70 quando giravo con un mio amico giapponese e si giravano tutti a
guardarlo perché era una rarità. Ora non se ne accorgerebbe nessuno della sua
presenza. “
[17] W.I.Thomas,
On social organization and social
personality, a cura di, J. Janowitz, The University of Chicago Press,
Chicago, 1966.
[18] “ Parlano nella
loro lingua, ti guardano e tu non sai cosa stanno dicendosi e ti viene il
pensiero che ti stanno dicendo qualcosa alle spalle”.
[19] K.H.Bhabha,
I luoghi della cultura, Meltemi,
Roma, 2001.
[20] “Auguriamoci solo che non arrivino i cileni.
Quella è un’altra razza che beve e basta, come i peruviani. Perché se arrivano
quelli lì siamo al completo. Ce ne sono già troppi. Adesso ci sono i cinesi, i
negri, i marocchini e i peruviani. E’ proprio una brutta razza quella degli
immigrati che non lavorano perché non hanno voglia di lavorare. Questi li
toglierei tutti. Avevamo anche musulmani. Ne avevamo tanti anche di quelli ma
adesso la moschea se ne è andata e loro anche.”
[21] “ Tu prendi i filippini e gli egiziani, sono
gente che lavora. I cinesi sono una razza a parte, è un’ottima razza, si dà da
fare. Sono laboriosi, gente che paga sempre nei tempi ”.
[22] “Se uno vuole fare una passeggiata qui non la
fa. Diciamo che dal ponte a Piazzale Loreto non c’è più vita. Dalle sette di
sera in poi c’è il coprifuoco.”
[23] “ La via ha perso il 50% del suo valore. Gli
italiani vendono le case e le comprano albanesi, negri, cinese. Loro si mettono
in dieci ha comprare le case e vanno dentro in dieci.”
[24] “Una zona di affitti bassi è una zona
funzionale, povera dal punto di vista culturale. Sta diventando una strada
multietnica. Loro aprono tanti negozi e spendono tra di loro, è logico che
devono trovare una forma di sopravvivenza. Si sono creati dei clan”.
[25] Vedi, Ulf
Hannerz, La complessità culturale, Il
Mulino, Bologna, 1998.
[26] Poutignate,
Streiff, Fenart, Teorie dell’etnicità,
Mursia, Milano, 2000.
[27] Ulf Hannerz, Ethnicity and opportunity in Urban America, a cura di, A. Cohen,
Urban ethnicity, Tavistock Publication, London, 1974.
[28] Inserisco a
titolo esemplificativo alcuni titoli di giornale del gennaio e febbraio ’99
raccolti dal quotidiano “ Il corriere della sera” e “ Il giornale”: “Terra di frontiera”, “Terra di nessuno”, “ Bronx nostrano” ,
“Ancora sangue nella zona di Via Padova”, “ Via Padova, i delinquenti non
cedono”, “Altra sparatoria a due passi da Via Padova”, “ Come il bronx. Anzi,
no via Padova basta e avanza”, “ Esplode la rabbia in via Padova: ci promettono
sicurezza e continuiamo a morire”.
[29] Dal Lago, Non – Persone, Feltrinelli, Milano,
1999.
[30] Ibid
[31] M. Augè, Nonluoghi, Eleuthera,Milano, 2000.
[32] Vedi Dal
Lago, Nonpersone, Feltrinelli,
Milano, 1999.
[33] Brano di intervista raccolto.
[34] D.
Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.
[35] M. Augè, Nonluoghi, Eleuthera, Milano, 2000.
[36] A.
Appadurai, Modernità in polvere,
Meltemi, Roma, 2001.
[37] Ibid
[38] Vedi M.
Halbwachs, La memoria collettiva,
Edizioni Unicopli, Milano, 1987.
[39] Risulta
molto interessante a questo proposito una rilettura del testo di De Martino, “Angoscia territoriale e riscatto culturale
nel mito Achilpa delle origini” in, Il
mondo magico, Bollati Boringhieri,Torino, 1973 e 1977.
[40] K.H.Bhabha,
I luoghi della cultura, Meltemi,
Roma, 2001.
[41] Ibid
[42] J.
Clifford, Strade, Bollati e Boringhieri,Torino,1999.
[43] M. Mellino,
La critica Postcoloniale, Meltemi,
Roma, 2005.
[44] Ibid
Trovo molto interessanti le riflessioni sui luoghi di incontro e scambio, il tema della condivisione degli spazi espresso nelle pratiche quotidiane. Partire da queste "zone di contatto", questi centri di aggregazione periodica per indagare le nuove sintesi,come si realizza la condivisione, appunto, di esperienze di pratiche e storie di vita; rappresentare il meticciato che si sviluppa in questi luoghi di incontro. Penso ad esempio alla clientela di un ristorante etnico, di un kebab, di un negozio , ai momenti di condivisione che nella festa "Via Padova è meglio di Milano" si realizzano negli eventi "danza"; "Arte", "Pranzo dal mondo" ecc..cercando di rappresentare il significato che queste esperienze di incontro, di socializzazione rivestono per coloro che le vivono in prima persona e gli effeti sul contesto.
RispondiEliminaSilvia Riva
Leggendo l’articolo, più volte mi sono soffermata a riflettere sulla dimensione del movimento o, più precisamente , sul continuum che va dalla staticità più radicata al movimento estremo.
RispondiEliminaStaticità che per alcuni versi può essere sinonimo di rigidità di pensiero, di paura del cambiamento, di ansia per il non certo e non conosciuto e a cui si trova riparo o conforto nella chiusura, nella delineazione di confini e nella ricerca di ciò che ci è familiare ( abitudini, luoghi e ricordi di cose già vissute e che vorremmo sempre uguali).
Movimento che può divenire caotico, non controllabile, ma che sempre è indice di cambiamento, di incontri, di volontà di mettersi in gioco e mettere in campo le proprie risorse e che può portare alla creazione di qualcosa di nuovo, più grande ed importante della somma delle singole componenti.
Un altro spunto di riflessione fornitomi dall’articolo è quello relativo al bisogno maslowniano di sentirsi parte di un gruppo e, dopo la fatica per farvi parte ed essere riconosciuto da esso, la pericolosità che uno straniero può rimandare nel sottolineare la non natività di una grande parte dei residenti. Il pensare che “siamo tutti stranieri, siamo tutti di passaggio” sembra difficile da considerare e sembra che evochi e ricordi difficoltà e tempi bui che è meglio cancellare.
Alessandra Pozzi