Chapter 10 – Sharing Anthropology. Collaborative Video Experiences among Maya Film-makers in Post-war Guatemala
In questo capitolo, Carlos Y. Flores parla di implicazioni reciproche, sia da parte della popolazione locale, che di quella dell’antropologo, sottolineando le contraddizioni che si possono generare da un’interazione di questo tipo.
Inoltre all’inizio del suo saggio, l’autore evidenzia che possono presentarsi anche delle contraddizioni tra coloro che svolgono il lavoro sul campo. In questo caso specifico, Carlos Y. Flores mette in luce alcune divergenze che si sono create tra l’antropologo stesso e gli altri membri del team che ha girato i video. Questo clima si avverte nelle sue parole quando dice che “However, it high lightened the contradictions and complexities of collaborative or “shared” anthropological practice in the sphere of applied visual anthropology”.[1]
L’analisi dell’autore può essere forse confermata dalla discussione che c’è stata tra la ricercatrice e il regista, in cui era chiara la divergenza di opinioni riguardo alle modalità di ripresa.
Più avanti afferma però che questi processi di integrazione all’interno del team possono essere superati attraverso un avvicinamento di vedute.
Ho trovato interessante l’osservazione avanzata da Flores, quando afferma che possono sorgere dei problemi nell’intervenire troppo in quanto i confini tra la registrazione dei rituali e la partecipazione attiva possono sfumare.
Questa tesi sembra sostenere il punto di vista di Baresi, che sottolineava appunto l’importanza della contemplazione del soggetto, il ruolo giocato dai silenzi, dalle pause (un po’ come affermava Freire quanto diceva che “research should be involvement and not invasion”[2]) D’altro canto c’era Lei, che invece dava importanza al dialogo con il soggetto, che sembra quasi rispecchiare l’andamento generale dell’antropologia visuale, a cui accenna Flores nelle prime pagine del capitolo, secondo cui la disciplina tende ad un coinvolgimento sempre maggiore degli antropologi con i loro soggetti (greater engagement by anthropologists with their subjects[3]).
Altro punto da sottolineare è la dimensione temporale: mentre in antropologia si sottolinea l’importanza di un’immersione a lungo termine, in questi progetti c'è un limite temporale. Limite che però non incide sugli esiti, in quanto i profitti che se ne possono trarre sono molteplici.
Personalmente sono rimasta molto colpita dal tema dell’identità a cui ha accennato Mike nel corso dell’incontro preliminare. Egli infatti sosteneva di avere delle difficoltà sia a definirsi italiano, che filippino. La peculiarità di questa situazione mi fa venire in mente la mia personale ricerca di identità (metà italiana, metà polacca, cresciuta in Svizzera), che oserei riagganciare alla citazione di Clifford quando parla di ricostruzione del sé attraverso la ricostruzione dell’altro.
In altre parole, queste pratiche antropologiche condivise dovrebbero quindi mettere a disposizione degli spazi per scoprire sé stessi. La domanda che mi sono posta è se questo tipo di ricerca è stato utile per me, di quale utilità potrebbe essere eventualmente per una ricostruzione culturale e sociale più generica?
Io credo fermamente in un forte impatto dei media visivi, soprattutto se applicati in contesti specifici come quelli trattati in ambito antropologico. Ed è proprio questa specificità contestuale (sia essa di pace come quella trattata nel corso del laboratorio, che di guerra come quella citata all’inizio del saggio di Flores) ad abbracciare l’idea un po’ contrastante dell’antropologia come sapere cumulativo, dimostrata dal fatto che anche Flores stesso nel suo saggio afferma di avere consultato lavori etnografici svolti in precedenza da Jean Rouch.
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[1] Pink, S. 2007. “Sharing Anthropology. Collaborative Video Experiences among Maya Film-makers in Post-war Guatemala”, Visual Interventions. Applied Visual Anthropology, p. 209
[2] Ibid., p.222
[3] Ibid., p. 210
Capitolo 9- The Hunters Redux. Participatory and Applied Visual Anthropology with the Botswana San (Matthew Durington)
RispondiEliminaIl progetto descritto in questo capitolo "The Hunters Redux" affronta il problema di come rappresentare una comunità evitando di produrre un’immagine stereotipata ed essenzializzata, ma ponendo l’attenzione sul modo in cui la comunità rappresenta se stessa e le cose che fa.
L’autore si è concentrato sulla comunità San del Botswana. Nonostante l’attenzione da parte di alcuni antropologi su questo argomento, la principale rappresentazione dei San li dipinge come “uomini delle foreste”, uomini più vicini alla natura che alla cultura o addirittura parte della fauna naturale. La comunità San, attualmente coinvolta in una serie di lotte per vedere riconosciuti alcuni diritti (tra cui quello alla caccia e all’approvvigionamento dell’acqua), è descritta in modo stereotipato sia dal governo del Botswana, che dalle agenzie turistiche e dalle ONG impegnate nella loro tutela.
Anche gli antropologi secondo l’autore sono caduti nello stesso errore; in particolare John Marshall è criticato per un suo film del 1958, The Hunters.
Il progetto di Durington è di filmare i problemi che la comunità San affronta quotidianamente scegliendo un approccio partecipato alla realizzazione del film. Il progetto si è svolto tra il 2003 e 2004; ho trovato interessante leggere il modo in cui è stato condotto il lavoro che coinvolgeva direttamente i soggetti.
La scelta delle attività da filmare, la visione collettiva e il commento del girato una volta montato il documentario, sono a mio parere dei modi efficaci per fare antropologia visuale applicata, come è il caso di The Hunters Redux.
In questo senso la scelta mutuata da Jean Rouche di dare la telecamera ai soggetti intervistati,pur essendo solo uno degli aspetti partecipativi di questa modalità di ricerca, fonda tuttavia la natura applicata dell’antropolgia visuale e aiuta a fornire un’immagine più distante da quegli stereotipi che l’autore critica all’interno del capitolo.
La critica che viene fatta al progetti di Durington e quindi all’idea di far girare i video ai soggetti, è il rischio di far “sparire” l’antropologo dietro il punto di vista del nativo, ottenendo cosi un “indigenous media”. D’altro canto non ci si limita a dare la telecamera, ma si collabora lungo tutte le fasi di produzione del video. E’ nel montaggio che emerge il significato della ricerca dato dalla giustapposizione delle immagini.
Ai fini del progetto in corso sarebbe interessante adottare questa prospettiva nello studio delle geografie di mobilità urbana, ovvero lasciare la telecamera al soggetto seguendo il percorso dalla sua prospettiva.
Leggendo il testo di Durington (di cui vedo che sopra hanno fatto una dettagliata analisi) ho meglio capito il nostro ruolo all'interno di questa esperienza e i vantaggi che il mezzo audiovisivo comporta.Per prima cosa devo dire che il lavoro sulla riflessività è molto evidente:la possibilità di riprendere ed inserire nel lavoro i momenti di discussione collettiva, supportare le attività con uno strumento collaborativo come il blog in cui gli artisti sono parte integrante del lavoro o, come diceva Durington, mostrando il girato agli interlocutori e cercando di capire se si sentono rappresentati o meno. Proprio perché lavora su questo aspetto credo che il confine tra soggetto ed oggetto venga ancora più messo in discussione dato che al centro del lavoro si pone la pratica. Ciò che mi ha interessato è stata l'importanza che per l'antropologia visuale hanno non solo i media ma anche i PROCESSI con i quali questi si creano. Noi abbiamo preso parte a questo processo sia presenziando che discutendo le bozze dei girati o riflettendo sulle implicazioni temporli che il montaggio offre. Rispetto al lavoro in corso credo che andrebbero spese delle parole rispetto al binomio osservazione-partecipazione. Nei girati che abbiamo visto la presenza fisica dell'antropologo e di chi si trova dietro alla telecamera sono stati omessi. Personalmente, grazie allo spunto di Durington, ritengo che il video possa esplorare la molteplicità dei punti di vista e la polifonia. Forse un tentativo si potrebbe fare per vedere a livello dialogico cosa può cambire con questa scelta.
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