29 maggio 2012

"Le ragioni dello sguardo" di Francesco Faeta


Capitolo 2 | A partire da un taglio. Immagini, allocronia, anacronismo.

Faeta introduce il capitolo prendendo in esame una fotografia, che fa parte di un’ampia sequenza archiviata,  de La terra del rimorso di Ernesto de Martino, scattata dal fotografo Franco Pinna. La fotografia raffigura un’anziana tarantata e riporta una didascalia che recita: “Filomena narra l’episodio del primo morso, e la parte che vi aveva avuto il ramo di ceci”. A chi si rivolge la donna, si chiede Faeta? Al lettore, al fotografo o all’etnografo? Un particolare di un altro fotogramma svela che la donna parla con de Martino che l’ascolta con attenzione. Ma quindi perché lasciare lo studioso fuori dal campo fotografico non mostrando la compresenza del nativo e dell’etnologo e la loro relazione dialogica? Faeta illustra le motivazioni che possono portare a tale scelta come, per esempio, l’importanza che i ricercatori di allora riservavano per il mondo contadino e il desiderio di porlo in primo piano, o l’atteggiamento secondo il quale la fotografia era uno strumento sussidiario di un costrutto teorico incentrato sulla scrittura. Ma Faeta si concentra su una prospettiva più vicina alla formazione del sapere antropologico: “l’immagine edita, con il suo taglio prescrittivo, e l’espunzione delle altre rimandano, a mio avviso, a quella dimensione allo cronica delle scritture etnografiche che, con diversi orizzonti, caratterizza (…) il lavoro antropologico” [pag. 52]. Questa scelta indica quindi la volontà di un allontanamento temporale in quanto la donna che narra rappresenta una donna del passato che racconta a osservatori contemporanei, la coevità tra nativi e ricercatori disturberebbe l’ordine del discorso antropologico così come è strutturato. De Martino ripreso mentre ascolta potrebbe significare il ritorno alla condizione isocronica della vicenda vissuta e di quella narrata. “La fotografia di Pinna e il suo impiego semplificato ci introducono, insomma, al problema della temporalizzazione delle rappresentazioni etnografiche, particolarmente quelle iconiche” [pag. 54].
Secondo Faeta, nel lavoro di de Martino questa allocronia è un dato costante che da vita a una situazione paradossale: “il paradosso cui l’etnografo e l’antropologo vanno incontro è che, mentre osservano, costruiscono la condizione di coevità che dovrebbe essere tratto distintivo della loro forma specifica di conoscenza, e mentre, invece, un attimo dopo, fotografano, cristallizzando tale osservazione in immagine, sprofondano ciò che osservano in un ineluttabile passato” [pag. 55].
La nozione temporale è stata a lungo problematizzata all’interno dell’antropologia contemporanea e grande contributo ne ha dato il lavoro di Fabian che ha teorizzato quella che lo studioso chiama prospettiva allocronica, ossia un processo di negazione della coevità, quella tendenza della disciplina antropologica di posizionare i referenti della stessa in un tempo diverso rispetto al presente di chi produce il discorso antropologico. Questo allontanamento produce una prospettiva classificatoria e gerarchizzante. Secondo Fabian, un elemento fondamentale nell’allocronia è lo sguardo: il porre la vista in posizione centrale nella ricerca e la geometria come modo più preciso per comunicare il sapere contribuisce a esercitare una funzione simile alla negazione della coevità e ne è strumento. L’analisi di Fabian, secondo l’autore, presenta dei limiti, in particolare quello di unificare la vista, l'esperienza visiva e le espressioni visive dell’esperienza, mettendo in concatenazione all’esercizio dell’occhio pratiche diverse tra loro.
A questo allontanamento si opposero Boas e Malinowski ponendo come rimedio l’osservazione diretta della realtà, la convivenza e l’esercizio diretto dello sguardo, superando il gap temporale portando il nativo nel tempo dell’osservatore in una relazione sincronica. Nel corso del tempo questa visione del rapporto spazio-tempo si è affermata stabilmente, “osservare significa distanziare; ma tale distanziamento non comporta in sé un allontanamento nel tempo; attiene alle pratiche spaziali (…) che necessita (…) di una precisa disposizione geometrica degli attori sociali” [pag. 58].
La fotografia, invece, scava fossati temporali tra osservati e osservatore per il suo carattere strutturale, per le logiche culturali proprie dell’antropologia e per la logica sociale della ricezione dell’immagine; il nativo raffigurato nelle fotografie appartiene sempre a un passato remoto e immoto, è icona di un passato lontano e affatto immobile in tensione allo cronica dal fotografo e dallo studioso.
Anche nei lavori di Lèvi-Strauss, nonostante l’esplicito avviso dell’antropologo di non guardare i nativi, rappresentati nelle fotografie da lui scattate, come primitivi, ma come l’esito di un futuro negato, essi appaiono decontestualizzati dal presente, lontani nel tempo, al contrario degli studi lèvistraussiani a loro relativi.
Faeta ricorda che vi sono casi in cui la fotografia nelle scienze sociali non sposa il paradigma allocronico come Martin Chambi, Saverio Marra, Giambattista Pinto, e altri. Il rapporto di sguardo di questi fotografi con i soggetti che rappresentavano si traduce in immagini isocroniche, in cui viene testimoniato il presente reale, una condizione in atto.
Fondamentale è, per chi si accosta a materiale fotografico in contesti antropologici, avere la consapevolezza di come esse tendano a restituire un’immagine del passato. Riflettere su questa consapevolezza può voler dire anche riflettere sul costrutto storiografico della disciplina nel suo insieme, così come si è consolidato.






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