Capitolo 2 | A partire da un taglio. Immagini, allocronia,
anacronismo.
Faeta introduce il capitolo prendendo in esame una
fotografia, che fa parte di un’ampia sequenza archiviata, de La terra del rimorso di Ernesto de Martino,
scattata dal fotografo Franco Pinna. La fotografia raffigura un’anziana
tarantata e riporta una didascalia che recita: “Filomena narra l’episodio del
primo morso, e la parte che vi aveva avuto il ramo di ceci”. A chi si rivolge
la donna, si chiede Faeta? Al lettore, al fotografo o all’etnografo? Un
particolare di un altro fotogramma svela che la donna parla con de Martino che
l’ascolta con attenzione. Ma quindi perché lasciare lo studioso fuori dal campo
fotografico non mostrando la compresenza del nativo e dell’etnologo e la loro
relazione dialogica? Faeta illustra le motivazioni che possono portare a tale
scelta come, per esempio, l’importanza che i ricercatori di allora riservavano per il
mondo contadino e il desiderio di porlo in primo piano, o l’atteggiamento
secondo il quale la fotografia era uno strumento sussidiario di un costrutto
teorico incentrato sulla scrittura. Ma Faeta si concentra su una prospettiva
più vicina alla formazione del sapere antropologico: “l’immagine edita, con il
suo taglio prescrittivo, e l’espunzione delle altre rimandano, a mio avviso, a
quella dimensione allo cronica delle scritture etnografiche che, con diversi
orizzonti, caratterizza (…) il lavoro antropologico” [pag. 52]. Questa scelta
indica quindi la volontà di un allontanamento temporale in quanto la donna che
narra rappresenta una donna del passato che racconta a osservatori contemporanei,
la coevità tra nativi e ricercatori disturberebbe l’ordine del discorso
antropologico così come è strutturato. De Martino ripreso mentre ascolta
potrebbe significare il ritorno alla condizione isocronica della vicenda
vissuta e di quella narrata. “La fotografia di Pinna e il suo impiego
semplificato ci introducono, insomma, al problema della temporalizzazione delle
rappresentazioni etnografiche, particolarmente quelle iconiche” [pag. 54].
Secondo Faeta, nel lavoro di de Martino questa allocronia è
un dato costante che da vita a una situazione paradossale: “il paradosso cui l’etnografo
e l’antropologo vanno incontro è che, mentre osservano, costruiscono la
condizione di coevità che dovrebbe essere tratto distintivo della loro forma
specifica di conoscenza, e mentre, invece, un attimo dopo, fotografano,
cristallizzando tale osservazione in immagine, sprofondano ciò che osservano in
un ineluttabile passato” [pag. 55].
La nozione temporale è stata a lungo problematizzata all’interno
dell’antropologia contemporanea e grande contributo ne ha dato il lavoro di Fabian
che ha teorizzato quella che lo studioso chiama prospettiva allocronica, ossia
un processo di negazione della coevità, quella tendenza della disciplina antropologica
di posizionare i referenti della stessa in un tempo diverso rispetto al
presente di chi produce il discorso antropologico. Questo allontanamento
produce una prospettiva classificatoria e gerarchizzante. Secondo Fabian, un elemento
fondamentale nell’allocronia è lo sguardo: il porre la vista in posizione
centrale nella ricerca e la geometria come modo più preciso per comunicare il
sapere contribuisce a esercitare una funzione simile alla negazione della
coevità e ne è strumento. L’analisi di Fabian, secondo l’autore, presenta dei
limiti, in particolare quello di unificare la vista, l'esperienza visiva e le espressioni visive dell’esperienza, mettendo in concatenazione all’esercizio
dell’occhio pratiche diverse tra loro.
A questo allontanamento si opposero Boas e Malinowski
ponendo come rimedio l’osservazione diretta della realtà, la convivenza e l’esercizio
diretto dello sguardo, superando il gap temporale portando il nativo nel tempo
dell’osservatore in una relazione sincronica. Nel corso del tempo questa
visione del rapporto spazio-tempo si è affermata stabilmente, “osservare
significa distanziare; ma tale distanziamento non comporta in sé un
allontanamento nel tempo; attiene alle pratiche spaziali (…) che necessita (…)
di una precisa disposizione geometrica degli attori sociali” [pag. 58].
La fotografia, invece, scava fossati temporali tra osservati
e osservatore per il suo carattere strutturale, per le logiche culturali
proprie dell’antropologia e per la logica sociale della ricezione dell’immagine;
il nativo raffigurato nelle fotografie appartiene sempre a un passato remoto e
immoto, è icona di un passato lontano e affatto immobile in tensione allo
cronica dal fotografo e dallo studioso.
Anche nei lavori di Lèvi-Strauss, nonostante l’esplicito
avviso dell’antropologo di non guardare i nativi, rappresentati nelle
fotografie da lui scattate, come primitivi, ma come l’esito di un futuro
negato, essi appaiono decontestualizzati dal presente, lontani nel tempo, al
contrario degli studi lèvistraussiani a loro relativi.
Faeta ricorda che vi sono casi in cui la fotografia nelle
scienze sociali non sposa il paradigma allocronico come Martin Chambi, Saverio
Marra, Giambattista Pinto, e altri. Il rapporto di sguardo di questi fotografi
con i soggetti che rappresentavano si traduce in immagini isocroniche, in cui
viene testimoniato il presente reale, una condizione in atto.
Fondamentale è, per chi si accosta a materiale fotografico
in contesti antropologici, avere la consapevolezza di come esse tendano a
restituire un’immagine del passato. Riflettere su questa consapevolezza può
voler dire anche riflettere sul costrutto storiografico della disciplina nel
suo insieme, così come si è consolidato.
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