Ciao a tutti,
qualche traccia sintetica del capitolo sopraindicato del testo di F. Faeta, Strategie dell'occhio, Saggi di etnografia visiva, FrancoAngeli, 2003.
il testo è ricco di spunti e di indicazioni sia per quanto riguarda la riflessione sulla produzione del sapere antropologico attraverso l'utilizzo dei mezzi visivi, sia sulle diverse metodologie /strategie dell'occhio che possono orientativamente contribuire alla produzione della conoscenza antropologico ed etnografica.
alcuni di voi stanno facendo un uso intensivo di materiale fotografico nel quadro analitico del trattamento di archivi fotografici esistenti.
Prendiamo il caso di Francesca che sta lavorando individualmente sul progetto "Sonvico" ( vedi post sotto l'etichetta "interstizi") e che sta utilizzando foto d'archivio al fine di rendere conto dei cambiamenti che sono intercorsi dal 900 a oggi nel contesto ad oggetto: tracce di eventi, di soggetti, di relazioni e di oggetti verso i quali l'autore invita ad assumere una prospettiva critica e consapevole in rapporto alla testimonianza iconografica sia per la sua polivalenza significativa sia per la sua ridondanza fenomenica. Detto in altri termini, tali foto sono il risultato di un processo interpretativo operato da un autore per scopi e con presupposti spesso distanti da quelli dell'utilizzo/sguardo di Francesca. Dal documento fotografico, dice Faeta, si può desumere che un'evento sia avvenuto e che l'autore si trovava là.
Altra cosa è poi il quadro analitico che soggiace all'utilizzo del mezzo fotografico ai fini della ricerca e della produzione di conoscenza antropologica. In questa direzione, che l'autore specifica come "creativa", la fase di creazione e quella dell'utilizzo del documento sono interrelate (esperienza/interpretazione). La peculiarità del mezzo - a differenza della videocamera - è quella di una registrazione nn continua della realtà.
la fotografia - se realizzata con chiare intenzionalità conoscitive e relative strategie/modalità di osservazione - può essere pensata come una descrizione "densa" (Geertz) attraverso un documento ibrido che, per la sua capacità indicale, conserva un elevato potere documentale con il reale con cui ha avuto contatto.
Da un lato quindi l'aderenza analogica della fotografia e dall'altro la sua vocazione interpretativa. La contraddizione apparente tra queste due dimensioni si pone solo se abbiamo un'idea dell'immagine come semplice analogon del reale.
La registrazione di eventi/oggetti/soggetti/ relazioni e contesti avviene contemporaneamente all'interpretazione che l'autore offre degli stessi. Se la foto è pensata come un costrutto autoriale la questione della veridicità o meno, dice Faeta, spesso posta in riferimento al suo valore euristico/ermeneutico, è mal posta in quanto "le immagini non sono a posteriori nei confronti del reale ma esistono insieme, prima, in quanto archetipi che si concretano in rappresentazioni mentali. e a lato, come classi di oggetti ausiliari, dotati di una loro autonomia, da usare comparativamente nell'attività interpretativa". [pag. 106]
Pensare quindi alla fotografia come pratica significante, come "invenzione seria" (Fabietti) di significati culturali soggettivamente connotati.
L'antropologo che lavora con la macchina fotografica deve quindi, secondo Faeta, avere chiaro questo doppio carattere di invenzione: da un lato il faticoso lavoro di eidesis e dall'altro la descrizione che ne compie.
La foto testimonierà del suo autore e della situazione che ha creato: "di un campo di tensione, di un modulo conoscitivo, che sono quelli dell'osservazione e della sua messa in codice"[ pag 107], e più avanti aggiunge: "la logica dell'osservazione e la ricezione di tale logica nell'ambito della cultura osservata".
L'impiego della fotografia come mezzo di ricerca ha quindi una valenza riflessiva e critica importante rispetto alle logiche e ai criteri che presiedono all'osservazione/ una pratica del vedere culturalmente, socialmente e storicamente determinata. In questa direzione Faeta riflette intorno al carattere culturale della visione. Come prolungamento dell'occhio la macchina fotografica ne intensifica il funzionamento.
se un oggetto è visto all'interno di un campo di relazioni significative, dice Faeta citando Lévi-Strauss, l'atto del vedere - il vedere come pratica culturale - è un processo che implica la memoria, il corpo nel processo di conoscenza in fieri. Istituisce relazioni all'interno di un campo, un riconoscimento. In questo senso la fotografia, materializzata in un oggetto e in un'icona, è testimonianza dell'attività selettiva dell'occhio: si sceglie di includere alcune cose e di escluderne altre. queste ultime ( omissioni,che siano latenti o consapevoli, le determinazioni extrareferenziali e iperreferenziali) non devono essere considerate in termini semplicemente negativi ma devono divenire, dice Faeta, essenziali per l'antropologo.
a proseguire
sara
Nessun commento:
Posta un commento