12 dicembre 2012

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 5. Interagire e collaborare

Se, come già sottolineato, nei lavori di MacDougall mancava un’interazione profonda e consapevole con i soggetti filmati, chi invece è riuscito ad esplorare in profondità l’Altro è stato Jean Rouch, cineasta francese che nei suoi lavori ha coinvolto realmente i soggetti da lui filmati in una intima e diretta collaborazione; realmente perché, a differenza di altri, per Rouch la partecipazione non è uno stratagemma per riuscire ad osservare meglio.
Convinto che la presenza della macchina da presa avrebbe condizionato il comportamento degli “attori”, il cineasta francese non cercava di limitare questi comportamenti dettati dal disagio, al contrario li considerava come rivelazioni più profonde di una parte nascosta ma più reale di noi stessi.
È facile notare come Rouch decostruisse, così facendo, alcuni dei punti che erano stati considerati dall’etnografia visualista fondamentali fino a quel momento, rappresentare la realtà in modo oggettivo infatti non è più possibile, non esiste più una realtà che va scoperta a disposizione del ricercatore, il soggetto ripreso e il filmmaker sono coinvolti in un processo dialogico dettato da piena collaborazione e complicità.
Il film diventa una relazione: «Tutti i film che ho fatto hanno sempre lo stesso soggetto: una scoperta dell’Altro, una esplorazione della differenza, una differenza che non è una restrizione ma un’aggiunta» (Rouch, 2003).
Quella di Rouch si può definire come antropologia condivisa: il più importante aspetto è quello che l’autore chiama controdono audiovisivo, tecnica che consiste nel mostrare ai soggetti filmati il film una volta terminato, come se immagini e suoni fossero restituite a coloro senza i quali non sarebbe stato possibile realizzare il lavoro.
Grazie a questa pratica, mutuata da Flaherty, non solo i nativi possono “controllare” come siano state rappresentate la loro cultura e la loro società ma anche l’antropologo può ricevere nuovi suggerimenti.
Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento di collaborazione che, a partire dalla fase preparatoria, si estende oltre la fase di postproduzione del film, fino alla sala di proiezione.
Jean Rouch infatti chiude il montaggio solo dopo aver richiesto l’autorizzazione all’intera tribù attraverso la proiezione pubblica del suo film.
Un altro aspetto dell’antropologia condivisa consiste nell’avvalersi dei nativi come collaboratori, dai tecnici del suono agli attori; il cinema allora diventa un’opera condivisa e distribuita con la complicità dei soggetti-attori che sono sempre coautori delle immagini che si registrano.
Alla base del modo di riprendere di Rouch quindi si trova un’interattività tra l’autore, il quale mette in gioco il proprio corpo e partecipa così a quello che possiamo definire il rituale filmico, e i soggetti filmati che agiscono e re-agiscono alle riprese.
Chi è davanti all’obiettivo intraprende un cammino comune con chi sta dietro.
Il concetto di collaborazione critica supera quindi contemporaneamente l’epistemologia della distanza propria del positivismo, il cinema d’osservazione (modello fly on the wall) ma anche il cinema d’interazione di MacDougall dove collaborare era solo una strategia del filmmaker per riuscire a vedere più aspetti della realtà filmata e raggiungere più facilmente i propri scopi.
Il cinema di Rouch non cerca una realtà già data, la produce, per proprio conto inoltre la macchina da presa non mostra significati che la realtà detiene, bensì è uno strumento per crearne una.
Una volta analizzata a grandi linee la visione del cinema di Rouch è facile capire quanto questa si discosti da quella di MacDougall: senza ribadire quanto è stato già detto del cinema di quest’ultimo mi limiterò a precisare che per Rouch si può parlare di cinema di ripresa, mentre per MacDougall di un cinema di montaggio. In altre parole l’improvvisazione si oppone alla precisione tecnica e artificiosa del montaggio.
Nel 1957 Rouch inaugura un nuovo filone della sua produzione cinematografica, quello
dell’etnofiction, in cui il filmmaker decide di ricostruire assieme ad alcuni amici songhai le loro migrazioni stagionali dal Mali verso il Ghana per cercare lavoro.
Il film, inizialmente senza sonoro, fu post-sonorizzato con i commenti degli attori e l’introduzione dei sottotitoli, consentendo di dar voce ai soggetti filmati che si esprimevano direttamente nella propria lingua, grazie alla traduzione delle loro parole rese così comprensibili al pubblico.
Nasce così Jaguar che apre il cinema ad un nuovo modo di fare fiction, girando senza screenplay, con soltanto un percorso di viaggio da seguire deciso di comune accordo con i tre attori protagonisti, con lo scopo di raccontare una realtà che altrimenti sarebbe stata impossibile da ridurre ai tempi filmici.
La finzione o etno-finzione, come Rouch la definisce, diventa qui il mezzo per affrontare e raccontare il reale.
Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere se è davvero possibile una vera collaborazione fra soggetti che stanno comunque vivendo una relazione asimmetrica, dato che nonostante tutto Rouch è sempre stato un bianco colonizzatore mentre i suoi attori i colonizzati.
In seconda istanza, è lecito porsi il problema di quanto gli attori “guadagnassero” da un rapporto così stretto con un bianco, almeno da un punto di vista sociale e simbolico.
In effetti, nei lavori di Jean Rouch i soggetti filmati hanno acquisito ruoli sempre più importanti fino ad arrivare, negli anni settanta, ad essere veri e propri autori di film etnografici.
La globalizzazione ha comportato una spinta al dialogo, rendendo sempre più necessario lo sviluppo di linguaggi che consentano il confronto tra culture e aiutino nello stesso tempo a ridefinire la propria identità.
Anche coloro che un tempo erano relegati al solo ruolo di soggetti filmati o addirittura di spettatori divengono produttori, registi ed operatori.
Lo sviluppo delle nuove strumentazioni audiovisive si è trovato a coincidere con il movimento di decolonizzazione degli anni sessanta, quando antropologi/filmmakers hanno in parte ceduto i loro strumenti a coloro che avevano fino ad allora filmato.
I modelli della comunicazione utilizzati dai nativi vanno dalle produzioni documentarie, fino alle sortite nel campo della ricostruzione storica e del giornalismo televisivo.
Le produzioni spesso espongono problemi di carattere sociale, il film diventa quasi un elemento di lotta nei confronti del potere dominante, uno strumento utilizzato per rivolgersi ad un pubblico il più vasto possibile. La videocamera offre alle culture native un potente mezzo espressivo, svincolato dai poteri dominanti dei media e delle istituzioni governative.
Le comunità native, attraverso le produzioni cinematografiche cercano di preservare la propria cultura, sempre più contaminata, usano il film come forma di autopromozione rivolta ad un pubblico occidentale, cercando contemporaneamente di catalizzare l’attenzione delle società nazionali ed internazionali verso la situazione dei diritti delle minoranze.
Inoltre possono usufruire dei filmati come mezzo di scambio di informazioni tra diversi gruppi indigeni.
Attraverso i media si cerca, quindi, di difendere un’identità culturale a rischio; ma, se questo è vero, è indiscutibile che dal lato opposto la diffusione delle nuove tecnologie potrebbe paradossalmente aprire la strada ad un assalto finale alla cultura e alle conoscenze tradizionali.
Da un punto di vista eurocentrico, la problematica è intesa nei termini di un timore per la perdita dell’autenticità culturale, quasi un auspicio ad una chiusura piuttosto che ad un mutamento culturale.
Il nativo che utilizza i media è quello che “perde” la sua “vera” identità.
Da un punto di vista oggettivista il “nativo tecnologizzato” potrebbe risultare meno interessante perché ormai in tutto e per tutto moderno, come se non si potesse più destoricizzare la cultura “Altra”. Al contrario, credo che tutto ciò non voglia dire che ci sia necessariamente stata una perdita di identità etnica, bensì forse un rafforzamento, dovuto all’imposizione da parte del nativo del suo diritto ad essere “visto” e compreso da più culture.
Inoltre il materiale audiovisuale sulle tematiche indigene ha avuto una grande diffusione nelle scuole. Ha aiutato a far rispettare internazionalmente il riconoscimento dei diritti ad un’educazione differenziata ed è diventato parte del materiale di insegnamento. Per i bambini indigeni l’accesso a questi materiali è fondamentale per combattere l’invasione culturale.
Ha potuto rivitalizzare molti rituali, registrarli, conservarli e riproporli anche alle future generazioni.
È cosi che le popolazioni indigene smettono di configurarsi e rappresentarsi come l’Occidente, inizialmente dei colonizzatori e dei missionari ed oggi dei media, ha inscenato per loro, riuscendo così ad uscire da questa realtà tanto imposta quanto fittizia.
Mi trovo perfettamente d’accordo con antropologi come Jay Ruby e Sol Worth che hanno preso atto dello spostamento dall’antropologia visuale all’antropologia della comunicazione visuale, dal film come registrazione delle culture “Altre” al film come fatto culturale e quindi come oggetto da studiare esso stesso.
Abbiamo visto come nel corso della storia dell’antropologia visiva, le immagini etnografiche si siano trasformate pian piano da documenti “segnaletici” a rappresentazioni dell’incontro tra tre mondi, quello del filmmaker, quello dell’“attore” e quello dello spettatore.
In realtà, a ben guardare, ripensando al mondo terzo di cui parla Geertz, che nasce dall’incontro tra il mondo dell’antropologo e il mondo del nativo, credo che in questo caso possa entrare in gioco un quarto mondo, scaturito dall’incontro degli altri tre, in un gioco di interpretazioni e re-interpretazioni continue o, come direbbe Geertz, di interpretazioni di interpretazioni.

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