Capitolo 3 | “Creare un nuovo oggetto, che non appartenga a
nessuno”. Campo artistico, antropologia, neuroscienze.
Faeta parte da alcune riflessioni di David Freedberg che
sosteneva il bisogno di creare un nuovo oggetto per la conoscenza che sfugga alle
discipline come l’antropologia e la storia dell’arte, ma che sia un oggetto
transdisciplinare. Faeta espone la sua prospettiva, diversa da quella di
Freedberg, per interpretare il campo artistico. Da sempre la definizione di
antropologia dell’arte ha privilegiato il criterio estetico che prende in considerazione
le sole arti colte. È necessario, dunque, sciogliere la nozione di antropologia
dell’arte in molti punti di vista antropologici che tengano conto della
peculiarità di ogni forma espressiva e di tutti i contenti etnici. Per fare ciò
è indispensabile che le antropologie (dei suoni, della musica, del cinema,
eccetera) “prendano avvio dalla riflessione intorno ai fondamenti sensoriali
che presiedono alla formazione dei prodotti” [pag. 73].
Tale criterio estetico può costituire il banco di prova per una revisione metodologica ed epistemologica. L'antropologia dell'arte ha utilizzato gli stessi schemi che provenivano dalla storia dell'arte, estendendoli ai prodotti delle culture popolari o primitive a cui sono stati applicati con pochi accorgimenti.
Tale criterio estetico può costituire il banco di prova per una revisione metodologica ed epistemologica. L'antropologia dell'arte ha utilizzato gli stessi schemi che provenivano dalla storia dell'arte, estendendoli ai prodotti delle culture popolari o primitive a cui sono stati applicati con pochi accorgimenti.
Una delle critiche al criterio estetico viene da Goodman, l’dea
che la valenza estetica di ciò che noi definiamo artistico per le società altre
è assente, “prospettiva per la quale ciò che qualifichiamo come elemento
estetico, in realtà è l’elemento in cui si sedimenta il processo di messa in
relazione tra pensiero e attività formale, e tra elaborazione concettuale e
pratica sociale” [pag. 75].
Anche la nozione di agency necessita di un ampliamento che
tenga maggiormente conto delle strutture sociali, della realtà degli attori, la
loro capacità di elaborazione simbolica e la loro memoria rituale.
Anche qui un rilievo centrale viene dato allo sguardo in
quanto strumento che permette la “relazione del pensiero e della forma, dell’elaborazione
concettuale e della pratica sociale”[pag. 78]. Anche nelle pratiche di
produzione di archetipi formali studiati dall’autore, il fulcro dell’apprendimento e dell’apprendistato
dei giovani avviati al mestiere, avvengono mediante l’esercizio della parola
orale, dell’occhio e della memoria visiva. Secondo Faeta un’antropologia
visuale deve essere interpretata come un’antropologia sociale che pone l’attenzione
sullo studio delle immagini come prodotto dello sguardo e sulle tecniche di
espressione.
L’approccio antropologico che propone Faeta “deve poggiare
su una consapevole sospensione ermeneutica e praticarla coraggiosamente, si
dove essa si rivela percorribile. Questa mi sembra la soluzione possibile per
un rapporto non obsoleto (…) con il campo e l’oggetto artistici, non quella
sostenuta da Freedberg, poggiata sull’orientamento neuroscientifico” [pag. 81].
Con questo Faeta non intende delegittimare la neuroscienza, ma puntare l’attenzione
sulla pretesa errata dell’indagine neuroscientifica, di spiegare il campo
artistico nei termini della neuroestetica. Per Faeta la soluzione che può
venire dalla disciplina antropologica e dalle scienze sociali, dunque, non è
quella di delegare a una prospettiva esterna i problemi che tali discipline non
riescono a spiegare, ma attraverso la revisione profonda delle discipline
stesse.
un primo stimolo alla riflessione proviene dalla distinzione che Faeta propone in nota piè di pagina tra antropologia visuale da un lato ed etnografia visiva dall’altro. La primaviene definita come studio delle immagini e dei sistemi di relazione culturale e comunicativa da esse generati in specifici contesti sociali sia in prospettiva locale che globale. La seconda caratterizzata dall’impiego dei mezzi audiovisivi nella ricerca e nella rappresentazione delle conoscenze antropologiche. [pag.69]
RispondiEliminanel ridefinire il campo dell’antropologia dell’arte Faeta suggerisce, oltre all’accento sulla dimensione sensoriale che presiede alla formazione dei diversi prodotti culturali ( udito, vista, tatto, olfatto, gusto, pensiero…) metodologie di ricerca e di analisi nell’ambito della cultura materiale. Un oggetto, un prodotto artistico e culturale, pùo essere esplorato secondo diverse direzione di indagine:
- il punto di vista dei suoi creatori e utenti
- il rapporto tra oggetto e contesto/i
- gli ambiti di circolazione dell’oggetto
- le sue condizioni di produzione, di scambio e d’uso
- il suo ciclo vitale (spazio/i – tempo/i)
- l’elaborazione simbolica dell’oggetto
un’approfondimento visivo della traccia di indagine in relazione ad un oggetto d’arte specifico, come quella appena abbozzata a partire dalle suggestioni di Faeta, lo possiamo iniziare a trovare in due documentari: In and out Africa di I. Barbash, L. Taylor e Diya di Judith MacDougall sui quali mi propongo di postare appena possibile dei sample e delle riflessioni.
L’utilizzo della telecamera come strumento costruttivo di un percorso di approfondimento e di analisi mi sembra che, in tale prospettiva , possa aprire e ampliare la riflessione sulla possibilità di un utilizzo dello strumento che possa implicare direttamente l’esperienza e la dimensione sensoriale ad essa inerente.
Di interesse anche le considerazioni di Faeta circa le modalità attraverso le quali lo sguardo struttura la memoria e il bellissimo ed efficace esempio dei dolci figurati usati in un contesto devozionale, votivo, cerimoniale e rituale del sud Italia, con il suo repertorio ideale di tipi intesi come tradizionali che viene evocato e rappresentato oralmente e l’esecuzione di varianti su base sia individuale che temporale che permette di indagare la dialettica tra adesione al modello tradizionale e innovazione ( le dinamiche di cambiamento e continuità) attraverso l’esercizio della parola orale, l’addestramento dell’occhio e la plasmazione della memoria visiva.
L’invito di Faeta è quello di anteporre la ricognizione etnografica alla definizione del campo di appartenenza dell’oggetto – a praticare una sospensione ermeneutica che consenta di superare un’approccio di tipo continuista ed estetizzante .