In questo capitolo Arnd Schneider analizza il confine tra
discipline come l’arte, l’antropologia e la storia dell’arte. Ci
propone tre esempi di personificazione, travestimento e performance della fine
del XIX secolo: l’interpretazione di Franz Boas della danza Kwakiutl Hamatsa
nel 1895; la maschera Hemis kachina indossata da Aby Warburg tra gli Hopi nel
1896; l’interpretazione di Alfred Court Haddon di un mito delle isole dello Stretto
di Torres.
Boas ha ricreato il rituale Hamatsa per l’America Museum
of National History. Ha posato anche vestito da Eskimo. Ha voluto interpretare
lui stesso due scene invece che fare gli schizzi oppure prendere dei veri
attori al posto suo. Il risultato non è la copia di quello che sono le realtà
dei due popoli studiati, ma di come Boas li ha visti.
Lo storico Aby Warburg ha descritto il rituale del
serpente degli Hopi e ha posato per un fotografo con una maschera Hemis
Kachina. E’ stato criticato per questa foto in quanto la maschera non fu
indossata in modo corretto. Questo gesto testimonia, secondo Freedberg, che
Warburg non ha capito il vero senso del rituale. Con la maschera indossata
correttamente avrebbe visto con occhi diversi la danza. Altri però si chiedono
se Warburg non avesse spostato la maschera solo per la foto. L’esempio dimostra
come la foto riproduce fedelmente un momento, ma non ci dà spiegazioni sul
perché il quel particolare momento il protagonista si comporta in un modo o
nell’altro.
L’ultimo esempio di Alfred Courd Haddon riguarda i suoi
studi sulle isole dello Stretto di Torres. Il suo scritto è accompagnato da
schizzi e brevi film che vedono attori del posto interpretare la morte dell’eroe
locale Kwoiam.
I giornali Documents
e Mexican Folkways sono due esempi di
collaborazione tra l’antropologia e l’arte. Il primo fu pubblicato a Parigi nel
1929/30: tantissime pubblicazioni di artisti che consideravano l’arte dal punto
di vista antropologico e antropologi che rielaboravano “artisticamente”
soggetti antropologici ed etnologici. Anche in Germania e Austria, in quell’epoca,
gli espressionisti visitavano i musei etnografici, ma non si arrivò mai a un vero
abbattimento del confine tra le due discipline. La stessa cosa si può dire
anche della Gran Bretagna, dove scambi transdisciplinari non erano frequenti.
Anche il giornale Mexican
Folkways fu testimone della collaborazione tra l’arte, l’antropologia e la
storia dell’arte negli anni 1920-1930. Fu pubblicato nella Città di Mexico da
un americano, Frances Toor, laureato in antropologia presso l’Università di
California. Gli autori furono spesso artisti, antropologi, scrittori che si
dividevano tra gli Stati Uniti e Messico e i loro articoli riguardavano l’arte locale,
l’arte creata per i turisti americani. Il giornale fu anche una sorta di
pubblicità per il commercio di articoli prodotti per gli americani. Il Mexican Folkways era molto meno radicale,
dal punto di vista formale e teorico, del Documents.
Maya Deren, una regista che studiò il movimento del corpo
e la danza, è stata un esempio della collaborazione tra arte e antropologia.
Nel 1946 ottenne una borsa di studio Guggenheim con l’aiuto di Gregory Bateson
e usò i soldi per compiere un viaggio a Haiti per studiare sul campo la cultura
Vodun e i suoi riti. Raccolse numerose ore di materiale filmato sui riti locali
e in particolare quelli legati alle performance di possessione. L'interesse per
il Vodun fu così grande che si trasformò infine in una vera e propria adesione
ai principi spirituali di questa religione.
L’iniziale intenzione della Duren era di produrre un film
documentario sui riti Vodun ma dopo aver provato personalmente la possessione,
decise che un libro era il modo migliore per testimoniare questa esperienza. L’esperienza
della possessione consisteva nel sentire la presenza degli Dei che entravano in
contatto con il posseduto. Essendo invisibili, questi Dei possono essere
raccontati da chi ha sentito la loro presenza, ma non visti dagli spettatori.
Questo è un esempio dove il film come mezzo visivo non può essere utilizzato.
Per molto tempo l’antropologia dell’arte faceva
distinzione tra l’arte occidentale, quella che ha fatto la storia dell’arte, e
l’arte non-occidentale, quella dei primitivi, dei popoli esotici. Il primo che
ha preso seriamente in considerazione l’arte africana è stato Carl Einstein nel
1915. Ha riconosciuto il valore artistico dell’arte sub-Sahariana e la sua
importanza per artisti “moderni” come Picasso e Braque.
L’antropologia dell’arte del XX secolo cerca di mantenere
una divisione tra l’arte occidentale e non-occidentale per studiare meglio
quest’ultima e l’influenza che gli Europei hanno avuto su di essa.
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