Le fotografie devono registrare ma anche preservare
la realtà e perciò è importantissimo che lo scatto sia il più trasparente e
discreto possibile. Nel 1951 esce il manuale Notes and Queries on Anthropology che sconsigliava l’utilizzo di
macchine fotografiche che coprono il viso a favore di quelle invisibili. Molte
delle fotografie erano rovinate perché il soggetto stava guardando il
fotografo. Mettersi in posa era considerato innaturale. Si cercava di
riprendere gli indigeni nella loro quotidianità senza che si accorgessero delle
riprese in modo da avere un documento più naturale.
Mead e Bateson spiegano come, nel loro
soggiorno a Bali, a volte chiedevano ai balinesi di fare un’attività in un dato
momento della giornata per poter avere la luce giusta, ma sottolineano che
questo è ben diverso dal mettere in posa in soggetto. Mettere in posa i
soggetti prima dello scatto era utilizzato tra la fine del XIX e la metà del XX
secolo, come dimostrano i lavori di Malinowski ed Evans-Pritchard. Boas non
solo realizzava fotografie in posa, ma ha posato lui stesso riproducendo la
cerimonia Hamat’sa per l’American Museum
of Natural History.
La fotografia nel XIX riservava particolare
attenzione all’immagine coloniale del corpo, molto più che dopo il 1910. Le
fotografie sono sempre più presenti nel lavoro degli antropologi e non sono più
visti solo come materiale per l’antropologia visiva, ma per l’antropologia
generale. Le foto “registrano” quello che troviamo sul campo di ricerca e ci
permettono di analizzarle e studiarle.
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