20 dicembre 2011

"Filmare le culture"

Durante questo percorso di studi antropologici mi è capitato diverse volte di imbattermi nelle discussioni riguardanti l’antropologia visuale e questo laboratorio anche se vissuto senza ricerca diretta sul campo, mi ha permesso di condensare le diverse informazioni e gli input ricevuti fino ad oggi e tradurli in una visione personale di quello che rappresenta, per me, il ruolo della visione (sia sottoforma di video e di documenti fotografici) nel contesto della ricerca antropologica.
La mia critica verso quest’area di ricerca parte dall’opera “Filmare le culture – Un’introduzione all’antropologia visiva” di Cecilia Pennacini edito da Carocci, che mi ha aiutato ad avere una panoramica generale sulla discussione riguardo al tema della visione partendo dall’uso della fotografia fino all’arrivo della produzione cinematografica destinata ad uso antropologico con le testimonianze di diversi ricercatori quali Flaherty, Rouch e Maya Deren.
Questo mio contributo verso la creazione di un apporto critico riguardo a questo tema verte principalmente su due aspetti: da un lato vorrei portare alla luce il valore da attribuire all’uso del colore all’interno delle analisi di fotografie e documenti audiovisivi, dall’altro vorrei promuovere una discussione su quale sia, da un punto di vista tecnico, la produzione cinematografica che riesca meglio a trasmettere l’alterità attraverso l’uso della telecamera, ovvero meglio produrre video dove la mano del regista-antropologo condiziona il filmato e c’è un montaggio delle scene oppure produrre video con ridotto intervento di montaggio e che lascia il più possibile liberi gli “attori” senza far sentire loro la presenza della telecamera?
In un manuale di Etnoscienza letto recentemente “La foresta di piume” di Giorgio Raimondo Cadorna, ed. Laterza, ho avuto modo di avvicinarmi per la prima volta al discorso sul colore. In particolare il capitolo X introduce l’idea di come ogni cultura abbia un campo di percezione dei colori ristretto basato sul suo background culturale e nell’ambiente in cui si è sviluppato. Cecilia Pennacini nel volume sopra citato riporta l’analisi che Rivers fece sulla percezione del colore durante la spedizione di Torres nel 1901. Già a quell’epoca Rivers si accorse che gli abitanti delle isole Murray fossero insensibili a certe gradazioni comatiche e come afferma Salhins “l’occhio che vede è sempre un organo della tradizione” (Pennacini, p.33), ovvero gli stimoli visivi vengono selezionati in base a una semantica culturale.
Quindi, nel momento in cui si ha la possibilità di poter visionare documenti dell’alterità dovremmo imparare a soffermarci sul perché certe culture prediligono determinati colori e come questi sono collegati alla cultura di appartenenza, cercando di trovare nell’uso del colore la possibilità di “entrare in contatto con ambienti diversi garantendo così dinamismo, oltre che realismo, al lavoro del pensiero” (Pennacini,p.34).
Dal mio punto di vista tralasciare o non approfondire il significato che l’utilizzo di un certo colore ha nella costruzione della comprensione dell’alterità, rende il nostro lavoro per certi aspetti incompleto.
Ad esempio, se analizziamo due foto uguali, raffiguranti un tipico matrimonio hindu pieno di colore e ornamenti, una in bianco e nero e l’altra a colori, sarà possibile capire nell’immediato, come il colore fa la differenza nell’interpretazione di ciò che stiamo guardando e come le nostre considerazioni finali possano cambiare in base alla foto che stiamo visionando.
Il secondo aspetto su cui vorrei riflettere è quale sia (e se possiamo arrivare a definirlo) il metodo di produzione cinematografica più efficace e che ci aiuti meglio a comprendere ed interpretare le altre culture.
Nel volume di Cecilia Pennacini ci sono diverse testimonianze di antropologi che nel corso del ‘900 si sono impegnati in riprese cinematografiche. Uno degli autori prese in considerazione è Maya Deren il cui metodo di lavoro puo’ venire condensato nelle seguenti parole “La tecnica di ripresa usata dalla Deren tende a non occultare mai il punto di vista dell’autrice, cercando invece di esplicitarlo tramite un uso evidente, talvolta esasperato, della macchina a mano e degli sguardi in macchina” (Pennacini, p.110).
Interessante è anche il contributo di Flaherty che nelle sue ricerche presso gli eschimesi utilizza la tecnica del découpage, che consente di “decostruire il testo filmico nelle sue varie componenti esplicitando il processo di costruzione nel senso messo in atto dall’autore” (Pennacini,p.87). Questa tecnica permette cosi di produrre una sorta di film che prevede un notevole intervento di montaggio e di rielaborazione dei dati raccolti.
In entrambi questi due esempi brevemente accennati, notiamo che la presenza dell’antropologo –regista ha una certa influenza sul risultato del filmato che verrà prodotto, si ha la percezione che entrambi gli studiosi entrino, con un grado di forza diversa, a indirizzare il film, a fargli seguire una strada in modo da metterci a disposizione un documento che ci porta su una determinata via di analisi.
Recentemente ho consultato diversi saggi contenuti in “Videoricerca nei contesti di apprendimento” (Goldman, 2009 ed. Cortina) e alcuni di essi richiamano l’attenzione sulla tematica di come possono essere utilizzati i video all’interno del contesto dell’apprendimento. Quello che puo’ essere interessante analizzare in relazione al tema della video analisi è che molti dei saggi presentati in questa raccolta ci fanno riflettere su quanto possano essere considerati più efficaci i filmati con un intervento ridotto di montaggio e in cui la presenza del ricercatore è in secondo piano. Diversi ricercatori tra cui Hall, sostengono che “la prospettiva da cui riprende la telecamera sia sempre influenzata dal ricercatore e, paradossalmente, spesso si tratta di una prospettiva in cui nessuno dei soggetti delle riprese si sarebbe mai trovato” (Videoricerca nei contesti di apprendimento, p.244). Quindi molti studiosi pensano che lasciare una telecamera fissa a tre piedi a riprendere le culture aiuti a cogliere meglio l’essenza dell’alterità, proprio perché in questi filmati le persone è come se non fossero condizionate dalla presenza della telecamera. Ovviamente optare per filmati in cui le scene non sono tagliate, montate e né guidate propone all’utilizzatore finale del filmato una mole di dati molto complessa da rielaborare, però permette allo stesso tempo di avere aperte possibilità di interpretazione delle immagini molto più ampio e diversificato.
Scegliere tra uno dei due metodi illustrati sopra non è facile, quello che a mio avviso si potrebbe tentare di fare è “riuscire a raggiungere il distacco dalla propria ricerca, ma non prendendone le distanze, ma mettendosi dentro, facendosi assorbire dalla realtà quotidiana ma tenendosi a una spanna da terra” ( A una spanna da terra, Marinella Sclavi, 1989). Marinella Sclavi propone ai ricercatori di immergersi nella cultura che stanno studiando, parteciparvi attivamente ma nello stesso tempo riuscire a mantenere quel giusto grado di distacco che permette di elaborare dati più “puri”. Il suggerimento quindi per tutti quelli che vogliono fare video ricerca è quello di produrre filmati in cui la mano del regista c’è ma è quasi velata, nascosta e non intralcia la vita quotidiana dei popoli coinvolti nei filmati.
Queste sono alcune delle mie considerazioni in merito a questo laboratorio e spero che questo post possa essere preso come spunto per nuove riflessioni e considerazioni sul tema della ricerca audiovisiva.

Paola

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