31 maggio 2011

post di Alfonso

Se si fosse chiamato Corso di Antropologia Visiva avrebbe avuto un altro significato ed altre finalità, il fatto , invece, che si sia chiamato Laboratorio di Antropologia Visiva rende chiaramente l’idea di aver partecipato in gruppo ad una serie di sperimentazioni sia teoriche che pratiche, vivificando l’immagine di un laboratorio “come luogo di ricerche”.
Il laboratorio che ho avuto modo di frequentare durante l’anno accademico 2010/2011, si colloca come una ramificazione della “strada principale” che è la disciplina antropologica, la quale dispone di un bagaglio storico da cui attingere strumenti per la lettura interpretativa della contemporaneità. Aggiungere il suffisso “visiva” a questa disciplina, comporta una doverosa riflessione metodologica ed epistemologica della stessa; l’introduzione di strumenti audio-visivi all’interno della ricerca antropologica costituisce una sorta di effetto “riflessivo” attraverso cui l’antropologia interroga, o sarebbe meglio dire, re-interroga sé stessa.
Francis Affergan affermava l’esigenza di concepire l’antropologia come un “sapere dello sguardo, anziché lo studio dell’oggetto”, credo sia una citazione quanto mai idonea per un laboratorio che aveva tra le sue finalità quella di riflettere, attraverso i mezzi audio-visivi, sulla rappresentazione dell’altro attraverso la sua strumentazione tecnica, ovvero, attraverso una sguardo mediato.
Sappiamo come negli ultimi decenni la disciplina abbia a lungo riflettuto sulla rappresentazione testuale dell’alterità, di come sia nata l’esigenza di mostrare, ma più ancora, di dimostrare la dialogicità e la polifonia nella costruzione di una visione dell’altro. Ebbene, l’antropologia visiva forse rivendica queste caratteristiche come qualcosa che gli appartiene in modo intrinseco, nel senso che la fruizione di una ricerca audio-visiva meglio si presta, grazie alle caratteristiche tecniche, a mostrare l’aspetto del dialogo e dell’interazione tra gli attori sociali in campo.
Tuttavia, per tutta una serie di discorsi e di riflessioni che sono nate durante gli incontri, credo, secondo un’opinione del tutto personale, che l’esperienza del progetto di Paul e Mike e l’interessantissima discussione sul “se e come mostrare” in video il ricercatore, offra un ottimo spunto per pensare alla disciplina audio visiva anche in altri termini. Sarebbe troppo semplicistico ridurre la rappresentazione audio-visiva alla stregua di quella testuale, ricalcando l’esigenza di voler mostrare come la ricerca sia stata effettuata, penso alle interviste ad esempio; il fatto di avere altri strumenti in mano, anziché una penna e un libro, esige una riflessione metodologica molto diversa. Con questo intendo dire seguendo Baresi, filmaker che ci ha accompagnato durante questo laboratorio, che non possiamo fare a meno di tralasciare il puro aspetto estetico che appartiene ad una rappresentazione audio-visiva. Una constatazione doverosa, che del resto appartiene all’ambito cinematografico fin dagli albori, è quella per cui già il decidere DOVE e COME volgere l’obiettivo della cinepresa rappresenta una scelta metodologica ma allo stesso tempo epistemologica di non indifferente portata, laddove abbiamo poi come finalità la rappresentazione dell’altro in quanto soggetto umano e per tale motivo ben visibile.
La riflessione, a questo punto, si sposta sul come far convivere l’esigenza estetica dello strumento in uso (audio e video), con i contenuti teorici e metodologici della tradizione antropologica.
Sembra, soprattutto dopo l’ultimo incontro, che il nocciolo della riflessione sia stato proprio questo, il vantaggio è che non si tratta di semplice speculazione, bensì di costruttivi scambi d’opinione e di vedute frutto di un concreto lavoro di campo, ovvero quello che ha avuto come protagonisti Paul e Mike e come co- protagonisti (perché sollecitati alla riflessione e all’auto riflessione) noi studenti.
Così come nella stesura di un libro l’ultima parola ce l’ha sempre lo scrittore, ovvero l’antropologo/ricercatore, carico di un aura di necessaria autorità, anche nel prodotto filmico finale l’ultima parola spetta al regista/ricercatore, il quale attraverso il sapiente uso dell’arte del montaggio, svolgerà l’opera di selezione necessaria dei filmati grezzi che ha a disposizione, col fine di rendere una rappresentazione visiva dell’altro che non potrà non essere una scelta oltre che soggettiva, anche infinitamente consapevole.
Diventa di vitale importanza una collaborazione multidisciplinare, nel nostro contesto ancor più che necessaria in quanto ha la possibilità di non fermarsi alla speculazione teorica, bensì di attestarne il lavoro attraverso il sempre fertile lavoro di campo. Con ciò inviterei, nei limiti del tempo e della disponibilità, a sperimentare attraverso il montaggio dei dati grezzi, entrambi i punti di vista emersi. Da una parte la propensione più specificatamente antropologica e dall’altra la non indifferente componente estetica indispensabile per un prodotto che verrà fruito attraverso lo sguardo, e che prima di esser sottoposto ad una critica intellettuale, deve per forza passare sotto l’autorità dello sguardo, il quale ha le sue necessità.

Aspetto con ansia di vedere il lavoro ultimato do Paul e Mike.
Buon lavoro!!

Alfonso R.

29 maggio 2011

L'11 marzo 2011 un terribile terremoto si scatena nel nord-est del Giappone creando non pochi disagi a quella che fino a questo momento era una delle Nazioni più potenti al mondo. Sono le 14.46, ora locale, quando viene avvertita una prima forte scossa di magnitudo 7.9, seguita dopo mezz'ora da una di 8.8 Richter; sono attimi di terrore, in quanto i giapponesi, pur essendo abituati ai continui moti della Terra che colpiscono queste zone, avvertono che non si tratta della quotidianità, ma di un evento raro e pericoloso. In particolar modo, il terremoto ha colpito fortemente la città di Tokyo, dove la gente è scesa in strada per cercare riparo; il tutto è avvenuto con la maggiore compostezza che contraddistingue questa popolazione: niente panico, solo qualche battuta e sorrisino di stupore per quanto stava accadendo mentre la polizia invitava la gente a radunarsi nelle zone del quartiere destinate alla raccolta della popolazione in caso di eventi catastrofali, onde evitare ingorghi.

L’epicentro del terremoto è stato individuato a 125 chilometri di distanza dalla costa, ad una profondità di 24,4 chilometri; alle scosse, di conseguenza, ha seguito uno violento tsunami che si è scatenato sulle coste della città di Sendai, dove le onde hanno raggiunto anche i 10 metri di altezza. Inoltre, a complicare la situazione, ci hanno pensato ben tre centrali nucleari che hanno arrecato non pochi danni a causa del terremoto/tsunami. "Tremendi" i danni materiali secondo il governo: il primo ministro ha invitato la popolazione a mantenere la calma, a seguire le istruzioni diramate attraverso radio e televisioni, e a contribuire alle operazioni di soccorso. Nella sola capitale nipponica si sono contati quattordici incendi, mentre uno di particolare ampiezza è divampato nella raffineria di Chiba, presso Tokyo. La corrente elettrica è venuta a mancare in quattro milioni di case del circondario.
Chiuso l'aeroporto internazionale di Narita, cancellati i voli, sgomberati i passeggeri; lo scalo di Sendei dal canto suo è stato allagato dalle ondate. Bloccati automaticamente diversi impianti nucleari: al riguardo il premier ha assicurato che non vi sono state fughe di radiazioni. Fermi i collegamenti mediante metropolitana, ferrovie sub-urbane e i treni-proiettile.

Questo è quanto succedette quel maledetto giorno, ma analizzando alcune fonti mediatiche, ci si rende conto che ognuno ha rappresentato le scene del terremoto giapponese a modo suo, scegliendo di dare più o meno importanza ad alcune tematiche piuttosto che ad altre.

Per quanto riguarda la stampa italiana, ho analizzato due quotidiani di fama nazionale e un blog interattivo:

1) “La Repubblica”: si sofferma molto più sull’aspetto pratico, oggettivo dell’accaduto, infatti riporta i fatti dettagliatamente (cos’è accaduto, quali sono i danni al momento della stesura dell’articolo e quali sono le prime mosse del Governo per affrontare la situazione d’emergenza).

2) “Il Corriere della Sera”: questo quotidiano sceglie una maniera differente per informare gli italiani dell’accaduto; dopo una breve introduzione riporta le parole di Mauro Politi, ricercatore italiano presso un’università di Tokyo, che racconta quali sono stati i danni del terremoto e il racconto di un corrispondente Ansa presente sul posto. Dunque, diciamo che il Corriere focalizza l’attenzione più sull’aspetto soggettivo dell’accaduto, ossia preferisce che siano delle persone che hanno vissuto la catastrofe dal vivo a raccontare emozioni, sensazioni e impressioni provate durante quegli attimi terribili.

3) In un blog, trovato in rete, invece, un italiano descrive puntigliosamente ciò che accadde quell’11 marzo in Giappone; l’autore del blog afferma: “spendo due parole anche sul motivo del ritardo con cui questo post è stato pubblicato: l'indecisione se scriverlo o meno è stata alta. Trattandosi di un tema delicato e completamente estraneo ai temi del blog, avevo il timore che potesse apparire come una sorta di "sciacallaggio" mediatico (in altre parole, un parlarne solo per guadagnarci dei click). Dall'altro lato, però, il non scrivere assolutamente nulla sarebbe stato un po' come far finta di nulla: da qui la decisione di attendere qualche giorno prima di scrivere un post a sostegno della popolazione giapponese colpita dal sisma”.

Per quanto riguarda la stampa estera, ho riscontrato che:

1) “El Pais” (quotidiano spagnolo): come per il Corriere della Sera, preferisce raccontare i momenti della catastrofe attraverso le parole di uno spagnolo che si trovava in Giappone; l’intervistato racconta di come furono colti dal terremoto mentre uscivano dalla stazione metropolitana e come si rifugiarono in un hotel lì vicino.

2) “Le Figaro” (quotidiano francese): qui, invece, ci si avvicina più al metodo de “La Repubblica”, in quanto le informazioni vengono trasmesse in modo dettagliato e, nel portale in linea del quotidiano, addirittura in tempo reale.

Da ciò ci si rende conto di come ogni mezzo di comunicazione abbia scelto il proprio modo di trasmettere le notizie riguardanti il terremoto/tsunami in Giappone, ma sarebbe interessante comprendere qual è realmente il livello di informazione della gente comune riguardo l’accaduto. A proposito di ciò, ho pensato a delle domande da porre:

  • Cosa sai sul terremoto in Giappone? E sullo tsunami?
  • Come pensi che i media abbiano affrontato l’argomento?
  • Come pensi che i media avrebbero dovuto affrontare l’argomento?

Fonti:
- La Repubblica; Il Corriere della Sera; Gaybuvg.blogspot.it; Le Figaro; El Pais

28 maggio 2011

Dimenticanze (Pardon!)

CHANNELNEWS ASIA (singapore )
http://www.channelnewsasia.com/cna/cgi-bin/search/search_7days.pl?status=&search=Japan&id=1126644
4 Maggio 2011 h 5:17
Martedì il Giappone ha annunciato che avrebbe distribuito coperte alle vittime dei tornado che hanno colpito la fascia meridionale degli Stati Uniti, provocando la morte di 350 persone.
E’ un gesto che vuole dimostrare, non più solo a parole ma con i fatti, la gratitudine del Giappone nei confronti della superpotenza americana che, a seguito dello tsunami dell’11 Marzo 2011, si è prontamente mobilitata per portare soccorso alle vittime di tale calamità naturale.
Il ministro degli esteri giapponese Takeaki Matsumoto, in una sua visita a Washington, Venerdì ha affermato che i danni subordinati ai tornado statunitensi gli hanno ricordato i disastri dello tsunami ed ha dichiarato al Segretario di Stato Hillary Clinton che Tojyo si sente pronta ad offrir loro il proprio aiuto.

CHANNELNEWS ASIA (Singapore)
Nel tentativo di rimediare i danni causati dalla centrale nucleare di Fukushima e compensare quantomeno i soggetti evacuati dalle proprie case, comprese aziende, industrie, e più in generale centri lavorativi, la TEPCO è costretta a sborsare circa 49 miliardi di dollari US. Una cifra talmente elevata da far rabbrividire.
Si è prevista già l’incapacità, da parte della TEPCO, di far fronte a tale spesa: pertanto, verrà istituito un ‘corpo finanziatore’ a cui prenderanno parte ben 8 aziende, in aggiunta alla TEPCO. Il governo provvederà a depositare soldi in questa nuovo organismo, i quali verranno restituiti nel corso del tempo al governo stesso.
Ovviamente, le tariffe della TEPCO aumenteranno del 16%.

25 maggio 2011

Mi Japan 2011 INTERVISTE

Buongiorno a tutti, dal 20 al 22 maggio a Milano si è tenuta la seconda edizione di Mi Japan, un incontro significativo alla riscoperta di una cultura ancora poco conosciuta in occidente. Oltre ad aver preso parte ad iniziative particolarmente rare come la dimostrazione di acconciatura tradizionale e vestizione del kimono, piuttosto che la "cerimonia" del the; siamo riuscite ad intervistare alcuni giapponesi residenti in Italia.

ecco che cosa è emerso:


INTERVISTA 1


1) Come ti chiami?


Akiko


2) Età e occupazione.


41 anni, operatrice Shiatsu


3) Cosa hai pensato quando hai saputo dello tsunami, due mesi fa?


Un episodio del genere era prevedibile, ma quando poi si è realizzato concretamente non ci potevo assolutamente credere; sono rimasta davvero molto impressionata.


4) come hai appreso questa notizia? Web, tv, radio?


La notizia mi è giunta via satellite attraverso il telegiornale giapponese.


5) Hai cercato di contattare i parenti in Giappone per comprendere al meglio la situazione? Cosa ti è stato detto?


Certo! Per prima cosa ho chiamato i miei famigliari , mia madre e mia sorella. Noi siamo di Kantō , per contattarli telefonicamente ho dovuto aspettare circa due ore.


6) Nei giorni successivi alla propagazione delle radiazioni, hai cercato di capire quali potessero essere gli effetti?


Tutta colpa del nucleare! se prima ero favorevole, adesso sono assolutamente contraria!.


Purtroppo il problema del nucleare è indiscutibilmente collegato alla produzione di energia elettrica; Il nucleare viene reputato lo strumento più appropriato per sopperire in parte agli ingenti consumi che la popolazione giapponese opera in questo frangente.


7) Eri preoccupato? E ora?


Inizialmente ero scioccata, sicuramente ora sono ancora scossa ma ho una consapevolezza in più. La consapevolezza deriva dalla filosofia scintoista. I fiori di ciliegio (sakura), sono una bellezza effimera, non durano che per poco. La malinconia che deriva da questa perdita dona in verità un barlume di speranza in noi, il fiore quando spunterà nuovamente sarà ancora più desiderabile e florido rispetto al precedente.


8) Trovi che ci siano rilevanti differenze su come le notizie siano state comunicate in Giappone e qua? Cosa hai notato?


Assolutamente si, il taglio giornalistico dato è stato totalmente diverso. I media asiatici, in particolare quelli coreani tendevano a dare notizie oggettive ed evitano di diffondere il panico tra la popolazione. Al contrario i media italiani.


9) Pensi che le notizie in Italia siano state fallaci? Gonfiate?


Quando ho letto le notizie dei media italiani ho provato un senso di fastidio, la visione italiana della vicenda è sostanzialmente catastrofica; inoltre i contenuti mi sono sembrati molto stringati e non finalizzati a una concreta oggettività dei fatti.


10) Un tuo pensiero libero sull'accaduto.


Andare avanti!... solo questo . Ciò che è avvenuto ha sicuramente un significato, spetta a noi cercare di modificare questa situazione per quanto possa essere possibile nel nostro piccolo.


Fortunatamente io non ho subito lutti , forse è per questo che ragiono così; alcuni miei conoscenti hanno perso tutto, dovremmo metterci nei loro panni per comprendere fino in fondo il dramma subito.



INTERVISTA 2


1) Come ti chiami?


Watanabe Kyota


2) occupazione.


Artista , commerciante di origami.


3) Cosa hai pensato quando hai saputo dello tsunami, due mesi fa?


Ero letteralmente sconcertato, non sapevo più cosa pensare, anche se queste situazioni di calamità si sono già riproposte anche in passato.


4) Come hai appreso questa notizia? Web, tv, radio?


Attraverso la televisione giapponese e successivamente tramite i media italiani.


5) Hai cercato di contattare i parenti in Giappone per comprendere al meglio la situazione? Cosa ti è stato detto?


Certamente, ho chiamato parenti e amici a Sendai . Ho altri conoscenti che abitano nel Nord Est, quest’ area è stata particolarmente martoriata dagli effetti del nucleare. Tokio rimane la zona con la quale si riesce a comunicare con più facilità, rispetto ad alcuni paesi limitrofi.


6) Eri preoccupato? E ora?


Ovviamente ero molto scosso dall’accaduto. Tuttora permane il dubbio di cosa accadrà successivamente al mio paese , anche se attualmente vivo in Italia.


7) Trovi che ci siano rilevanti differenze su come le notizie siano state comunicate in Giappone e qua? Cosa hai notato?


Si, i media giapponesi danno una visione realmente concreta di quanto accaduto. L’oggettività utilizzata dai giornalisti asiatici è sicuramente efficace , in quanto non intende creare panico tra i civili. I media italiani descrivono parzialmente i fatti, concentrano invece la loro attenzione sul la componente emotiva .


8) Pensi che le notizie in Italia siano state fallaci? Gonfiate?


Secondo il mio personale punto di vista i media italiani hanno una visione eccessivamente drammatica in merito e credo anche che questa vicenda abbia preso una piega “opportunistica” dal punto di vista mediatico.




INTERVISTA 3


1) Come ti chiami?


KYOKO


2) Età e professione.


43 anni, ristoratrice.


3) Cosa hai pensato quando hai saputo dello tsunami, due mesi fa?


Ero molto preoccupata, infatti ho contattato subito i miei parenti.


4) come hai appreso questa notizia? Web, tv, radio?


Attraverso i telegiornali italiani.


5) Hai cercato di contattare i parenti in Giappone per comprendere al meglio la situazione? Cosa ti è stato detto?


Certamente!. I miei genitori abitano in un piccolo paesino tra Osaka e Tokio, sono ancora in una situazione di calamità senza acqua, luce e al freddo; ma stanno bene e sono tranquilli.


6) Nei giorni successivi alla propagazione delle radiazioni, hai cercato di capire quali potessero essere gli effetti?


Sicuramente l’esplosione è stata causata dall’abuso di energia nucleare , tale energia è dannosa sia per l’ambiente che per l’uomo stesso. Però non dobbiamo dimenticarne l’utilità. Le norme di sicurezza sono state rispettate in parte ; fortunatamente alcune città non sono state contaminate. Credo inoltre che l’80% della popolazione giapponese sostenga questa fonte di energia in attesa di risorse alternative.


7) Eri preoccupato? E ora?


Certamente, lo sono tuttora poiché dopo la vicenda il settore ristorazione ha subito un calo a livello clientelare.


8) Trovi che ci siano rilevanti differenze su come le notizie siano state comunicate in Giappone e qua? Cosa hai notato?


Partendo dal presupposto che i giornalisti scrivono ciò che vogliono, credo che ci sia una sostanziale differenza a livello contenutistico: le testate orientali tendono a diffondere un clima di serenità al contrario di quelle italiane.


9) Pensi che le notizie in Italia siano state fallaci? Gonfiate?


Penso che le notizie Italiane abbiano un contenuto eccessivamente allarmistico; però vorrei anche sottolineare il supporto morale che non ha mai smesso di esistere da parte loro.


10) Un tuo pensiero libero sull'accaduto.


I giovani sono il nostro futuro, spero riescano a capire come salvaguardare il paese, sia dal punto di vista ecologico ma anche politico ed economico.


23 maggio 2011

Domande per l'intervista

Partendo dai temi principali abbiamo formulato delle domande, una per tema.

Le domande sono state pensate in modo da lasciare agli intervistati la libertà di spaziare da un aspetto all’ altro dei vari temi, senza cercare in alcun modo di indirizzarli.


1- Quali sono i mezzi attraverso cui hai seguito la vicenda? A tuo parere come sono state gestite le informazioni dai diversi media (giornali, televisione, ecc) in Italia?

2- Secondo te il web ha avuto importanza nella diffusione delle informazioni sulla "rivoluzione"?

3- Guardando queste immagini, cosa ti viene in mente?

4- Secondo te esistono dei preconcetti o delle paure occidentali nei confronti del mondo arabo? Se si, può dipendere dalla differenza di religione?


La domanda numero 3 riguarda il tema dell'efficacia comunicativa delle immagini sui giornali e sul web.

La domanda numero 4 è rilevante perchè il modo in cui i media hanno affontato il tema può essere legato a un'immagine che l'Occidente ha del mondo arabo. (Ci scusiamo per la generalizzazione)

21 maggio 2011

Intervista a Jun Hashimoto

Ecco la mia intervista a Jun Hashimoto , studente Giapponese in Italia:


"Noi alunni del corso di Etnografia dei Media siamo interessati a scoprire cosa si cela dietro l'informazione in Italia e nel mondo. Se cortesemente vorreste dirci la vostra:

1) Come ti chiami?
2) Età?
3) Cosa hai pensato quando hai saputo dello tsunami, due mesi fa?
4) come hai appreso questa notizia? Web, tv, radio?
5) Hai cercato di contattare i parenti in Giappone per comprendere al meglio la situazione? Cosa ti è stato detto?
6) Nei giorni successivi alla propagazione delle radiazioni, hai cercato di capire quali potessero essere gli effetti?
7) Eri preoccupato? E ora?
8) Trovi che ci siano rilevanti differenze su come le notizie siano state comunicate in Giappone e qua? Cosa hai notato?
9) Pensi che le notizie in Italia siano state fallaci? Gonfiate?
10) Un tuo pensiero libero sull'accaduto.

Grazie ancora infinitamente, mi inchino per la cortesia!



Giuseppe Jun Hashimoto 19 maggio alle ore 22.43


1) Hashimoto Giuseppe Jun
2) 19, quasi 20
3) Depressione e preoccupazione totale, visto che ho tutti i parenti là!!
4) Inizialmente in TV, noi a casa abbiamo un canale giapponese (NHK) e da lì abbiamo saputo della notizia
5) Si, ho contattato, prima di tutto, erano tutti sani e salvi per fortuna, visto che erano tutti al sud, i parenti che stavano più al nord abitano a Yokohama, e hanno sentito qualche terremoto, ma niente di grave per fortuna! Invece gli altri che erano più al sud, non hanno sentito proprio niente, quindi nessun pericolo!
6) Mmm, ho cercato di capire, ma penso che la causa forse è per via dell’esplosione a Fukushima, in quella centrale, l’acqua all’interno di questa centrale, è salito troppo + del dovuto e questo a causato l’esplosione, almeno quello che hanno detto sulla TV giapponese, poi non so la vera causa!
7) SI, ero molto preoccupato e tutt’ora lo sono. Ora che il problema fondamentali sono le radiazioni, non parlano altro che quello, ma prima c’è stato uno tsunami, molto terribile, e mi domando, la gente di Miyagi? Visto che tutta o quasi tutta Miyagi è stata spazzata via, e i pochi sopravvissuti, sono al riparo in una palestra di una scuola! Saranno tutti sani e salvi? Già con le strade distrutte, sempre a causa del terremoto e dello tsunami è difficile avvicinarsi per portargli il cibo o altre cose, e adesso che c’è il problema delle radiazioni, non sarà peggio? Non è che quella gente venga dimenticato? Perché alla TV fanno le notizie fondamentali e le cose problematiche in questo periodo, e di quella gente, non se ne parla più, prima ne parlavano sempre, ma ora che parlano sempre di radiazioni, di cose passate niente…
8) Guarda… io sinceramente, qualche volta guardo, Studio Aperto, ma non spesse volte, quindi, non saprei proprio se sono giuste o meno, almeno quello che sono sicuro è che di notizie sul Giappone, ne parlano due secondi, giusto per far vedere alla gente, che c’era uno tsunami in Giappone ed è finità, cioè fanno una breve trama come dire… e quindi magari sulla TV italiana, fanno i problemi fondamentali che ci sono là, poi il periodo dello Tsunami e il periodo di guerra della Libia più o meno erano nello stesso momento e credo che parlano di più sulla guerra, visto che è molto più vicino all’Italia, poi come ho detto in precedenza, non guardo molto il telegiornale italiano, quindi magari ne avranno parlato anche di più quello non lo so… sicuramente non ne parlano come nella TV giapponese, cosa che mi sembra ovvio
9) è collegato alla 8, non guardando molto il telegiornale italiana, mi son perse molte notizie di come lo parlano, ma siccome ne parlano poco, almeno quel poco che dicono, spero che siano giusti…
10) non dico che per fortuna hanno attaccato il Giappone, però il Giappone, già da decenni, da quando sono arrivati dei terremoto e dei tsunami terribili, hanno rinforzato tutto, anche le case antisismiche, che ad una determinata vibrazione le case non crollano, poi anche nel mare hanno installato un muro di sostegno alto più o meno 15 metri, contro lo tsunami e facendo tutto questo c’è stato questo disastro.. e dico.. e se questo tsunami fosse arrivato ad altri paesi, in più anche in paese poco sviluppati? Tipo l’Asia del Sud dove l’economia e lo sviluppo scarseggia molto, la Nazione magari non ci sarà stato, anche in Europa e tutto, se fosse arrivato in mezzo all’Europa, metà Europa, magari non ci sarà stato, visto che le case così, li costruiscono con le spese economiche. Anche il terremoto che c’è stato ad Aquila, se fosse stato in Giappone non sarebbe accaduto niente… qualche caduta di libri dalle librerie, piatti e tazze dagli armadi, ma niente di che, che case sicuramente non si sarebbero mossi di 1mm. Il Giappone ha la sfortuna di trovarsi in mezzo al mare, confinante con nessun stato, e da quello che mi sento dire dai parenti, i terremoti o il Typhoon anche piccoli vengono spesse volte, quindi da una parte loro ci sono anche abituati, ma questa che è venuto a marzo, è la più forte che è venuto in Giappone. Per concludere, spero che il Giappone si rimetta presto in sesto, poi che anche gli altri Stati imparino qualcosa dal Giappone!! Spero di esserti stato utile, se no scusami tanto, è che non sono tanto informato!! Ciao!!^^"

Federica Nobile

Testate giornalistiche vietnamite

Ciao a tutti,
Ecco dunque il mio ultimo lavoro di “analisi, filtro e traduzione” di una testata giornalistica vietnamita, ovvero la Thanhniennews. Stando a quanto ho avuto modo di leggere, pare che i Vietnamiti si siano molto impegnati nella raccolta di fondi destinati alle vittime del terremoto e tsunami dell’11 Marzo. Lo stile giornalistico è analogo alle testate di Singapore e dello stesso Giappone: neutro, oggettivo; niente frasi ad effetto o interventi che lascino trasparire un coinvolgimento emotivo da parte dell’autore.

VIETNAMESE STILL MISSING AFTER JAPANESE QUAKE
http://www.thanhniennews.com/2010/Pages/20110517150841.aspx
17/5/2011 h14:55

Le News dal Giappone hanno recentemente informato che tra i dipersi del terremoto e tsunami dell’11 Marzo vi sono anche dei cittadini Vietnamiti.
La morte di ben 24 stranieri (tra americani,canadesi, cinesi, coreani, pakistani e filippini) è stata finora accertata.
Proseguono le indagini di ritrovamento dei corpi dei dispersi di nazionalità straniera (cinese, sud coreana, vietnamita e filippino): si tratterebbe di qualche dozzina.

JAPAN TO SHUT NUCLEAR PLANT ON QUAKE FEARS
http://www.thanhniennews.com/2010/Pages/20110509185633.aspx
9/5/2011 h15:00
Il Giappone ha deciso di chiudere una delle sue centrali nuclear, a seguito del disastro creatosi l’11 Marzo 2011. Si tratta della central di Chubu Electric Power Co, ubicata ad Hamaoka, a circa 200km da Tokyo.
Le attività potranno essere riavviate soltanto quando le dovute precauzioni saranno state prese: tra queste la costruzione di un “muro para-tsunami” e altre importanti .
L’operazione potrebbe richiedere un paio d’anni, con il rischio di una riduzione delle risorse elettriche messe a disposizione per il Paese del Sol Levante, già minacciate dalla chiusura della centrale di Fukushima.
La centrale Chubu Electric Power Co di Hamaoka distribuisce energia a metà dei 18 centri di produzione dei veicoli della Toyota Motor Corp, e ai 4 centri di produzione delle automobili/moto della Suzuki Motor Corp. L’area di distribuzione include anche grandi nomi quali Honda Motor Corp e Mitsubishi Motor Corp. Inutile a dirsi, la Toyota sarà l’azienda più colpita dalla chiusura di questa centrale, per via dell’elevato numero di macchine prodotte.
Il governo giapponese è sotto pressione per riconsiderare la propria politica energetica, di cui l’energia atomica costituisce la parte più consistente, a fronte della calamità dell’11 Marzo 2011.

VIETNAM’S TRAVEL AGENCIES LOOK TO RESUME TOURS TO JAPAN
http://www.thanhniennews.com/2010/Pages/20110506150824.aspx
6/5/2011 h15:00
I rappresentanti delle agenize turistiche vietnamite partiranno in Vietnam per valutare se le condizioni del Paese sono favorevoli ai flussi turistici.
Da Marzo, le agenzie turistiche HCMC hanno sospeso i viaggi previsti in Giappone, a seguito dei due cataclismi e della minaccia nucleare.
A questo viaggio perlustrativo parteciperanno da 12 a 15 rappresentanti delle compagnie turistiche vietnamite.

VIETNAM SENDS FIRST RELIEF BATCH TO JAPAN
http://www.thanhniennews.com/2010/Pages/20110428142732.aspx
28/4/2011 h 14:00
Il Vietnam si è impegnato a sostenere il Giappone, colpito da un grave terremoto e tsunami l’11 Marzo 2011. I beni inviati al Giappone hanno un valore di ben 150,000 US dollari. Essi perverranno in primo luogo all’ambasciata vietnamita, per poi essere distribuiti alle vittime.
Il governo vietnamita aveva già contribuito a soccorrere il Giappone, dapprima con 200,00$ e poi, il 14 Marzo 2011, con 50,000$ offerti dalla croce rossa vietnamita.
Successivamente la Croce Rossa Vietnamita ha organizzato una campagna nazionale volta a raccogliere fondi in favore dei terremotati e vittime giapponesi. Si stima siano stati raccolti 5,7 milioni di US $.

17 maggio 2011

Applied visual Anthropology, Sarah Pink

Sarah Pink: Visual intervensions, applied visual anthropology
• Sviluppo delle rappresentazioni visuali informate dalla teroia antropologica
• Analisi degli aspetti visivi della cultura
• Utilizzo di metodi di ricerca di etnografia visuale
L’autrice non si sofferma tanto sulla produzione filmica ma piuttosto sull’utilizzo delle metodologie dell’antropologia visiva per comprendere l’esperienza sociale delle persone.
si riferisce alla produzione della conoscenza antropologica in progetti che non hanno il documentario etnografico come obbiettivo finale.
Gli articoli inseriti propongono diversi approcci collaborativi alla produzione di conoscenza ed analisi. Il processo riflessivo e collaborativo inerente alla produzione/costruzione filmica può infatti produrre un tipo di intervento sociale.
Definizione “antropologia visuale applicata” ( implicazioni epistemologiche ed innovazioni metodologiche):
definizione processuale estesa: utilizzo della teoria, metodologia e pratiche dell’ antropologia visiva per raggiungere obbiettivi non accademici e che in genere chiamano in causa il problem solving e il brokerage.
- Problem solving che richiede la collaborazione con i partecipanti e ha l’obbiettivo di apportare cambiamento.
- Creare una piattaforma sulla quale le diverse esperienze ( valori) possono divenire ovvie e comprensibili . può coinvolgere processi generativi di coscienza e creativi nel mentre che individui e gruppi esprimono le proprie identità e le ricostituiscono.
altro punto interessante è la connessione storica tra AVA(antropologia visiva applicata)e documentario etnografico:
rapporto tra la proposta dell’autrice e il documentario Rouche e MacDougall ( antropologia condivisa - partecipata/intertestuale ):
per Rouche la prima audience era costiuita dagli stesso soggetti del film, ruolo giocato dal film nella raprresentazione dei soggetti a se stessi e anche come forme di antropologia pubblica.
per MacDougall i ricercatori si mettono a disposizione dei soggetti e insieme a loro inventano il film.
La definizione AVA è quindi contingente e in farsi. Nesso tra antropologia applicata e accademica:
- Contribuire a processi di intervento sociale
- A sostantivare la conoscenza di una particolare area di interesse atropologico e di sviluppo metodologico
- Contribuire alla costruzione teorica
La Pink ha sottolineato come sia importante superare la definizione dell’antropologia attraverso il metodo ( immersione a lungo termine) in favore di una visione della dimensione applicativa come una via di comprensione di realtà e fenomeni sociali informata teoricamente e di approccio a questioni e problemi sociali.

ricerca sulla e nella via Padova

Ciao a tutti,
vi invio via mail due allegati:
1. liberatoria per le riprese audiovisive (ricoradatevi che se dimenticate di far filmare ai vostri interlocutori la liberatoria, non potrete utilizzare i materiali registrati in fase di montaggio per quanto interessanti e/o efficaci siano)
2. un foglio esplicativo dell'attività di ricerca che state conducendo

In sintesi:
Abbiamo deciso di svolgere un'esercitazione con la telcamera allo scopo di utilizzarla come mezzo di esplorazione del contesto ad oggetto. A coppie vi recherete in un'area da voi scelta e, a turno, filmerete le vostre esplorazioni/osservazioni partecipate ( alias lo sguardo del ricercatore nella scoperta/osservazione del contesto urbano ad oggetto)
Vi recherete alla festa organizzata presso il parco trotter tenendo presente la dialettica tra definizioni endogene ed esogene inerente alla rappresentazione positiva che anima l'evento (via Padova è meglio di Milano) esplorando la rete di relazioni a livello associativo che ne hanno consentito la realizzazione. Lo scopo è quello di scegliere un ambito associativo tra i tanti, di vostro interesse, ed espolarlo coinvolgendo i soggetti che ne fanno parte per cogliere la specificità del loro sguardo ( percezioni e vissuti) sul contesto in questione.
Come per altro suggerriva il vostro collega a lezione sarebbe stimolante riuscire ad elaborare/realizzare con i vostri interlocutori privilegiati un piccolo lavoro di ripresa/esplorazione condiviso e concordato. questo equivale a porsi/porre la domanda su ciò che per loro è significativo in riferimento al contesto (focus group) e tentare di utilizzare i mezzi audio-visivi come strumenti che facilitino un dialogo riflessivo tra le parti. (molto in sintesi chiaramente,vi posto a seguito una sintesi dell'introduzione del testo di Sarah Pink che può esservi utile)
Date anche un'occhiata ai post dei colleghi del laboratorio precedente che si sono soffermati criticamente sul testo di Sarah Pink, Applied visual anthropology, che fornisce utili strumenti per un lavoro di questo tipo.
vi posto a seguito una sintesi dell'introduzione del testo di Sarah Pink che può esservi utile.
in ultimo: la prox lezione in aula è stata fissata per lunedì 6/06 alle 14.30 nel lab LAMA (U6/4°piano)
Buon lavoro
sara

Post di Chiara Moscatelli

RIFLESSIONI CONCLUSIVE
LABORATORIO ANTROPOLOGIA VISIVA 2011

Il laboratorio che ho frequentato a partire da gennaio 2011 mi ha permesso di avvicinarmi in particolare alla prospettiva di studio della antropologia visuale.
L’articolo che ho scelto per dialogare con il testo al fine di trarne spunti teorici e di parallelismo per la riflessione sulla brevissima collaborazione svolta durante le prime riprese del lavoro del progetto “Culturalmente”, è stato “Sharing Anthropology. Collaborative Video Experience among Maya Film-makers in Post- war Guatemala” di Carlos Y. Flores contenuto nel testo “Visual Interventions. Applied visual Anthropology” di Sarah Pink.
Nel testo di Sarah Pink “Visual Intervensions. Applied visual Anthropology” si esamina le pratiche e il valore dell’”antropologia visuale applicata”. L’autrice presenta una serie di casi studiati, i cui autori hanno riconosciuto il potenziale dell’antropologia visuale.
Le pratiche visuali di matrice antropologica sono state usate per creare interventi sociali. Questi studi non sono presentati solo come una serie di esercizi pratici ma sono rilevanti in campo accademico per il contributo etnografico, le implicazioni teoriche e l’innovazione metodologica. Le applicazioni inserite nel libro possono essere applicate sia all’”antropologia visuale” sia all’”antropologia applicata” sia all’antropologia sociale nel suo complesso.
L’ “antropologia visuale applicata” include lo studio degli aspetti visuali della cultura e i metodi etnografici così come della rappresentazione visuale. I documentari etnografici presenti utilizzano i mezzi audio-visivi nel contesto della sanità, le politiche di turismo e di patrimonio culturale, il lavoro in comunità.
Il termine “antropologia visuale applicata” non si riferisce a un campo circoscritto e predeterminato di pratica, la sua definizione è un processo continuo. A testimonianza di ciò,in questo libro vengono riportati dei progetti, attraverso le relazioni dei partecipanti, da cui emergono i legami con le sotto-discipline antropologiche e non solo. Qualsiasi definizione deve rendere conto di sviluppi contemporanei sia nella pratica sia nella teoria e in contesto sia globale sia locale in cui viene applicata questa definizione ampia di “antropologia visuale applicata” mette in evidenza la teoria, la metodologia e la pratica per realizzarla.
Nel capitolo 10 Carlos Y. Flores discute un progetto di film- documentario etnografico, sul suo progetto accademico, per valutare "gli usi, le possibilità e gli effetti dei media audiovisivi tra i gruppi indigeni in un paese da una prospettiva antropologica". Lo scopo della ricerca credo che fosse quello di esaminare le varie relazioni storiche e contemporanee nell’”antropologia visuale applicata” quindi riflettere sullo stato di applicazione dell'antropologia visuale come un campo di pratica a sé stante. Di particolare interesse sono i lavori di Rouch e di D. e J. Mac Dougall, i cui film etnografici hanno spinto la pratica ai confini dell'antropologia visuale attraverso lo sviluppo di collaborazioni con soggetti “protagonisti” coinvolti, spesso con il vantaggio politico che è stato criticato delle relazioni di potere in cui i film- documentario sono stati implicati.
Rouch conia la nozione di "antropologia condivisa" collegata al ruolo che il video può svolgere per la produzione collaborativa della conoscenza etnografica.
Per Rouch, la prima fase del suo film era il video degli stessi soggetti. Egli ha visto che questa forma produceva un effetto di "feedback" basilare per un’”antropologia condivisa”. Si potrebbe teorizzare l’uso del video come portatore di un gioco di ruolo non solo nella rappresentazione di sé stesse, ma anche come una forma di un fare un’"antropologia pubblica ".
D. Mac Dougall definì l’idea di "video partecipativo" come "un video di collaborazione e di paternità tra film-makers e i soggetti " solo successivamente ridefinì questo come "cinema intertestuale"che sarebbe "un principio di autorialità multipla".
Le idee di Rouch e Mac Dougall sono state estremamente influenti nella successiva pratica etnografica di film-making, questa influenza è evidente anche nelle metodologie dell’antropologia visuale .
CarlosY. Flores illustra come personalmente ha sviluppato una versione di "antropologia condivisa” di Rouch , nel suo documentario collaborativo del progetto con i Q'eqchi' nel dopoguerra, in Guatemala.
Attraverso questo studio Flores esplora dei limiti, della potenzialità e la complessità della realtà di produrre effettivamente una “antropologia condivisa” che sia favorevole alla creazione di auto-identità e autorizzi reciprocamente sia l’antropologo sia il soggetto.
L’applicazione dell’ “antropologia visuale applicata” nei diversi progetti potrebbe rilevare dei potenziali nel contribuire ai processi di intervento sociale, di conoscenza, di merito su una particolare area di interesse antropologico e di sviluppi metodologici, così come alla costruzione di una teoria accademica.
Non credo che il sapere antropologico accademico e l’antropologia visiva devono essere visti come due campi separati.
Si dovrebbe mettere in evidenza il potenziale di una “antropologia visiva” che partecipa alla produzione degli interventi sociali ed è realizzato in materia e si impegna ad essere applicata in contesti istituzionali al di fuori del ristretto mondo accademico.
Nei libri di antropologia applicata viene descritto il metodo utilizzato che comprende non solo l'osservazione partecipata e il contatto con l’informatore attraverso l’intervista, i sondaggi, i questionari,la ricerca-azione, la rapida valutazione etnografica, la valutazione delle necessità, la valutazione sull’impatto sociale, il gruppo di ricerca, la messa a fuoco e l'analisi delle reti sociali.
L'idea che con i metodi collaborativi e partecipativi la ricerca visuale possa produrre risultati utili per la conoscenza etnografica, anche in un arco di tempo breve, è stato suggerito anche dallo stesso J. Rouch nel 1973.
Rouch scrisse che attraverso l’uso del processo di "feedback" aveva osservato che rivisionando i video con gli informatori, l’etnografo aveva potuto raccogliere maggiori informazioni in due settimane rispetto a quelle che avrebbe potuto ottenere in tre mesi di osservazione diretta e di intervista.
L'idea di un’ “antropologia visuale applicata” invita a discostarsi dalla insistenza nei confronti di un immersione a lungo termine come per il metodo sociale della ricerca visiva e della rappresentazione che può anche produrre conoscenze di valore antropologico.
Gli aspetti di auto-rappresentazione e la rappresentazione antropologica che si incarnano e che si esprimono nel settore audiovisivo, vengono proposti con l’uso della metafora e della comunicazione empatica di conoscenza ed esperienza che non possono essere espressi utilizzando solo le parole.
Nel suo saggio Carlo Y. Flores, affronta il ruolo che un film- documentario etnografico di produzione ibrida e di regia di collaborazione con i Maya-Q'eqchi'communities in Alta Verapaz, in Guatemala.
Le condizioni soggettive e storiche che ha fornito il contesto per la produzione video in collaborazione tra cineasti locali, comunità e antropologo visuale vengono analizzati, fornendo importanti intuizioni etnografiche su una popolazione indigena e le sue trasformazioni. Promuovendo nella comunità nuovi meccanismi per la ricostruzione socio-culturali e la consapevolezza, dopo un traumatico e violento periodo di guerra civile.
In questo contesto, i documenti video prodotti forniscono uno spazio all'interno di una pratica più ampia di antropologia condivisa in cui ciascuna delle parti potrebbe avanzare i propri obiettivi attraverso i prodotti ibridi. Il progetto ha rappresentato un'opportunità per esplorare i modi in cui l'antropologia e cinema etnografico potrebbero, contemporaneamente, essere utili sia per il ricercatore sia per la comunità studiata. Ha, inoltre, evidenziato le contraddizioni e le complessità di collaborazione e condivisione di “antropologia visuale applicata”.
Questo film non parla di una popolazione indigena minoritaria e isolata rispetto alla nazione ma vuole raccontare di un gruppo di persone appartenenti a una tribù integrata nel sistema nazionale, anche se svantaggiata nella vita socio-economica e segnata dal conflitto armato.
La ricerca si è rivelata non solo antropologica ma anche personale e comunitaria. Personale perché aiutò l’antropologo,un guatemalteca non indigeno,che durante il conflitto scappò dal suo Paese. Ritornato per svolgere il progetto, durante la ricerca sul campo riscoprì e approfondì la propria identità, condividendo alcuni aspetti con i soggetti e tentando di ricostruire la propria identità in rapporto con gli altri. Fu anche una ricerca comunitaria perché rese visibile il processo di guarigione dalle violenze della guerra attuate dai soggetti coinvolti.
Prendendo spunto teorico da Clifford, l’autore ritiene che questa peculiare situazione lo abbia reso consapevole che ogni versione di “Altro”, ovunque si trova, è anche la costruzione di un “sé”. Al momento, quindi egli stava guardando la società guatemalteca da un punto di vista confuso, sia di un nativo sia di uno straniero al tempo stesso. Quindi l’antropologo era in difficoltà non riusciva a trovare la linea di confine tra i due sguardi e non riusciva a separarli come invece richiedeva l’antropologia occidentale. Così al posto del paradigma occidentale l’autore si trovava a condividere l’idea di M. Jackson che proponeva di scrivere ed esplorare i modi in cui le nostre esperienze si congiungono o si collegano con altri piuttosto che il modo in cui ci distingue. Quindi si proponeva una prospettiva orizzontale, di condivisione dell’interazione e personale che successivamente si suddivideva in più esperienze, composta da voci multiple diverse dalla sola dell’antropologo.
Avviene in questo modo un cambio di prospettiva, dall’oggettivo ci si sposta al soggettivo. Gli sviluppi teorici dell’antropologia nella loro dimensione testuale , seguendo i nuovi e sofisticati metodi, avevano la finalità di dare voce agli indigeni sembrava quindi di occuparsi dei problemi di “cultural translation” .
La discussione occidentale sulle domande fondamentali, una di queste se l’antropologia \ etnografia era diventata un insieme di più voci e quale parte della ricerca ne beneficiava di più, aiutano l’antropologo a trovare le metodologie per interagire con gli indigeni.
Prima di lui la Chiesa cattolica aveva già fatto un progetto di video con film-makers locali in lingua locale, questo primo tentativo fu visionato dall’antropologo prima di iniziare la nuova ricerca così da collaborare con questi film-makers.
Inizialmente adottò il metodo antropologico classico di “osservazione partecipante”, durante le prime riprese video nella città di Coban e nei loro villaggi. Questo significava essenzialmente seguire i film-makers e osservare come interagivano con gli altri membri della loro comunità, anche se nello sviluppo di un rapporto, l’antropologo chiedeva spiegazioni, annotando poi tutto nel diario di campo.
Le riprese dovevano essere quasi naturali, l’antropologo non doveva quasi intervenire. Durante il primo periodo di lavorazione però aveva notato che i film-makers controllavano più le pratiche igieniche o le tipologie di costruzioni, che aspetti più legati alle pratiche esistenziali e religiose; nessuno sembrava interessato alla guerra civile, alle ferite che essa aveva lasciato o alla situazione politica contemporanea.
Dopo poco tempo, dall’inizio delle riprese, l’antropologo iniziò ad assumere un ruolo chiaro anche se continuava ad avere la paura di contaminare il materiale con la sua presenza e le sue conoscenze; però l’antropologo decise di farsi guidare da un intervento coscienzioso.
L’intervento attivo dell’antropologo cambiò l’orientamento e lo scopo della ricerca, si puntò maggiormente sui costumi Maya, sull’impatto della guerra civile e sulla tradizione, il film sarebbe diventato un patrimonio culturale comune e fruibile da tutti.
Le difficoltà maggiori emersero nella fase di montaggio quando fu compito dell’antropologo mantenere alto l’entusiasmo dei film-makers perché le logiche e le aspettative messe in campo dai diversi soggetti erano differenti. Per i nativi era più importante il processo del prodotto (in questo la società rispecchiava la logica Maya) invece per l’antropologo anche il prodotto assumeva la sua importanza. Un alto fattore che determinava il calo di entusiasmo era la presenza decisionale e invasiva dell’antropologo, che finalizzava l’intero lavoro al raggiungimento del proprio scopo.
Fu prodotto un film molto distante dai parametri occidentali a partire dal ritmo filmico ma fu molto apprezzato dal pubblico guatemalteca.
A Carlos Y. Flores gli fu commissionato un secondo documentario sulla violenza militare durante la guerra. Questo secondo documentario ebbe un uso terapeutico per superare il trauma della guerra civile e aiutare il riscatto sociale delle persone oltre a razionalizzare il passato traumatico e renderlo più controllato e canalizzato nel presente.
La conclusione fu rendere la comunità più consapevole della loro specificità politica e culturale per un maggior controllo su cosa volessero preservare, distruggere e modificare.
L’antropologo attraverso la creazione di un film- documentario etnografico ha accesso a informazioni privilegiate sugli eventi locali.
Carlos Y. Flores rimase colpito dagli sforzi iniziali del regista Rouch, dalla sua idea di “antropologia condivisa”, un termine coniato dopo che egli riuscì a realizzare documentari con il coinvolgimento attivo dei soggetti africani.
Con un approccio più olistico che coinvolge, in un esercizio di cooperazione tra soggetti e antropologo, egli ha cercato di combinare elementi diversi di esperienza globale e locale. Ad un livello quasi teorico con pratiche che beneficiano da diverse varianti e dalle correnti antropologiche revisioniste e postmoderne, in particolare nei settori di “antropologia visiva applicata” e politica, queste varianti hanno facilitato la costruzione polifonica del testo antropologico. Questa apertura ha indubbiamente spostato i modi in cui l'antropologia, in generale e l’antropologia visuale, in particolare, è stata praticata e rende possibile concepire delle diverse forme di interazione con i soggetti in campo e più modi di fare etnografia sperimentale.
La qualità di essere un’impresa condivisa e collaborativa dipende più dalla capacità dei progetti di stabilire un terreno comune dove gli operatori possono perseguire diversi interessi di negoziare, di combinare e materializzare collettivamente gli aspetti.
Piuttosto che i progetti in cerca di regole fisse o di orientamenti, ci sarebbe bisogni di esperienze interpretative, in cerca di senso e di ricerca-azione collettiva. Nonostante le buone intenzioni la costruzione collettiva di un testo con caratteristiche a più voci potrebbe facilmente finire per mascherare forme nuove e sofisticate di appropriazione culturale in cui la finalità della condivisione è solo un'illusione.
Come afferma Paulo Freire, la ricerca deve essere un coinvolgimento, non un invasione. Chi ha condiviso le imprese antropologiche dovrebbero fornire spazi per sé, la scoperta e la costruzione creativa di identità: prima di tutto dovrebbe essere un processo in cui sia l’antropologo sia il soggetto abilitato possano esserci reciprocamente.
La produzione di conoscenza antropologica attraverso la videocamera consente di costruire un mondo terzo, delle immagini ritenute necessarie ma ambigue. Foto che mostrano qualcosa che l’antropologo ha visto ma che si presentano come già scritte, rielaborate e associate a una immagine - concetto.
La fisicità, l’incontro con l’Altro nell’esperienza sul campo permette di creare il significato antropologico costruendolo insieme ai soggetti che entrano in relazione e parte attiva della ricerca.
L’etnografo deve riflettere su come acquisire le conoscenze e come comunicarle al pubblico. Guardare è diverso da vedere, anche l’investimento intenzionale di senso selettivo implica uno scopo prima di filmare. Rendersi consapevoli del livello d’intenzionalità soffermandosi e riflettendo, è parte integrante e deve essere presente nel lavoro dell’etnografo –film-maker per rendere visibile l’intenzionalità e facendola emergere anche dal prodotto audiovisivo conclusivo.
Secondo Mac Douglall tra produzione visiva e produzione scritta c’è un’enorme differenza, non c’è la necessità di usare il mezzo audiovisivo al posto, o in sostituzione, del mezzo scritto ma si potrebbero sfruttare entrambi; le loro diversità saranno utili per formare un sapere antropologico più complementare. L’uso della scrittura possiede numerose potenzialità e consente una maggior astrazione che invece non permette il materiale audio-visivo perché l’utilizzo delle immagini fornisce una continuità fisica di corrispondenza con il mondo. Il mezzo audiovisivo ha la potenzialità di usare termini produttivi, e simultaneamente utilizzare una molteplicità di volti e voci, svolgendo così un lavoro di dialettica all’interno del video stesso e presentando differenti posizioni, permettendo così un accesso diretto alla soggettività e intersoggettività dei soggetti coinvolti.
La scrittura è una descrizione astratta con esempi per rendere esplicito il concetto conclusivo. La parte video, invece, è più ristretta e dettagliata per la forma ma non può esplicitare concetti.
Lo scritto segue una posizione logocentrica (spiegazione, descrizione e esperienza) mentre le riprese audiovisive seguono una logica inversa (esperienza,descrizione spiegazione), quindi unendo queste due differenti metodologie l’etnografo utilizza due differenti punti di vista sull’oggetto da indagare.
La memoria e la costruzione del sé sono elementi di interesse ed esplorazione possibili anche attraverso l’uso della telecamera e della produzione filmica. La produzione audiovisiva può attuare la messa in atto dell’antropologia performativa. Non vengono prodotti oggetti da comprensioni ricavate dal vedere dei soggetti e dei filmati ma emerge il sapere antropologico incorporato come riflessione sull’esperienza e la riflessione sull’esperienza stessa.
Il pezzo di pellicola che viene impressionato è molto più limitato rispetto alla realtà che osserviamo. Rifacendoci alla teoria di James, egli ipotizza una prospettiva ristretta. Ogni racconto implica uno sguardo che è legato a un punto di vista che non va oltre a dove noi guardiamo e fa emergere il nostro punto di vista e la nostra intenzione. Lo sguardo non è assoluto ma posizionato e incorporato, esso opera parziali prelievi e agisce in quel momento, in quello spazio e in quel tempo.
La soggettività è rappresentata diversamente se c’è drammatizzazione esteriore, drammatizzazione interiore o drammatizzazione descrittiva.
Come prodotto della visione umana, il fare immagini potrebbe essere considerato solo surrogato. Le immagini sono specchi dei nostri corpi, replicano tutte le attività del corpo nei loro movimenti fisici, nei loro slittamenti di attenzione nei loro impulsi conflittuali fra ordine e disordine. Le immagini corporali non sono solo immagini di altri corpi ma sono anche immagini del corpo dietro la macchina da presa e le sue relazioni con il mondo. Inquadrare è un modo per evidenziare descrivere o giudicare. Ciò addomestica e organizza la visione, allarga e restringe, togliendo quei collegamenti con la vita verso cui il film-makers è cieco, come quando richiede spiegazioni su eventi che sappiamo essere più complessi. L’atto di inquadrare è fatto dunque di due impulsi intrecciati: inquadrare ma anche mostrare cosa c’è oltre e nonostante l’inquadratura. Il film riflette il gioco fra il significato e l’essere. I suoi significati si fanno carichi dell’autonomia del saper essere quando è il caso di fermarsi nelle nostre interpretazioni è così importante per permettere a questi momenti di connettersi e di entrare in risonanza. La mia o le mie immagini dell’Altro formano il grosso di quello che io so di te, l’apparenza è conoscenza in un certo senso, il mostrare diventa un modo per dire l’indicibile, la conoscenza visiva ci dà uno dei mezzi primari di comprensione dell’esperienza di altre persone. Diversamente dalla conoscenza che si trasmette con le parole quello che mostriamo con le immagini non ha né trasparenza né volizione si tratta di un altro genere di conoscenza dura e opaca ma capace di restituire i più fini dettagli. Il video mette l’essere contro il significato.
La persona è data dalla soggettività che uno si situa; la nostra lettura sul video sono dati negoziati dalla nostra soggettività. Le diverse modalità di rappresentare la narrazione soggettiva, il discorso, la prospettiva, la testimonianza, l’implicazione ed l’esplicazione, è indicatore narrativo di locus primario di espressione questa diversa comunità tematica declina la soggettività e le diversità di percezione.
In conclusione, per la limitata partecipazione al progetto “Culturalmente” posso solo affermare, basandomi sulla visione delle riprese (note di campo), che il progetto sta cercando di seguire le basi teoriche di Rouch e Mac Dougall facendo partecipare attivamente film –makers, antropologa e soggetti quindi mettendo le diverse soggettività in dialogo tra loro e arricchendo il documentario di più voci e di più punti di vista. Questa attiva partecipazione e “contaminazione” oltre ad arricchire il prodotto sta favorendo, a mio parere, un incontro “oltre i confini” tra persone.

16 maggio 2011

Post Marta Canidio

RELAZIONE LABORATORIO ANTROPOLOGIA VISUALE

Osservazioni relative alla visione dei video girati con Mike e Paul.

La visione dei girati, non ancora montati, ha assunto il significato di lettura dei dati grezzi, non ancora rielaborati. Il compito relativo alla scelta e alla selezione delle parti da montare risulterà decisivo rispetto al taglio del prodotto finale. Si valorizzernno necessariamente solo alcuni aspetti emersi dalle ore di girato in cui gli artisti hanno raccontato diversi aspetti della loro vita, della loro arte e della loro visione del mondo.
I mezzi audiovisuali, come ricordato nel testo di Sarah Pink “Applied Visual Anthropology”, hanno comunque la potenzialità di restituire una rappresentazione polifonica dei soggetti, attraversando diversi ambiti, dalle storie di vita, alle opere artistiche, alle esperienze, alla quotidianità ad a i sogni.
In questo lavoro di scelta e di selezione entrerà in gioco la soggettività del ricercatore, i suoi obiettivi e l'intenzione che guida la ricerca.
In questa fase, come già nella conduzione delle interviste, sarà necessario inoltre far dialogare gli stessi ricercatori che hanno una formazione ed un'esperienza di studio e lavoro differenti, nello specifico si tratta di un'antropologa e un documentarista. Anche nel saggio di Ana Martinez Perez si sottolinea l'approccio multidisciplinare e la collaborazione di diversi professionisti impegnati nella realizzazione del documentario etnografico, la necessità di mettere in sinergia competenze e approcci teorici differenti.

Nel saggio “Rhythm of our dreams” di Perez emerge chiaramente l'obiettivo di dare visibilità ai soggetti che vivono in una zona povera di Cordoba, in Andalusia, un contesto di grande emarginazione ed esclusione sociale.
Anche tra gli obiettivi del progetto Itinerari artistici verso l'interculturalità troviamo quello di rendere visibile aun pubblico più vasto i lavori e le esperienze di questi giovani artisti, rimuovendo le eventuali barriere (economiche, sociali, culturali...) che possano impedire la loro diffusione e conoscenza.

Nelle interviste a Mike e Paul emerge chiaramente l'aspetto della discriminazione che ostacola qualsiasi giovane immigrato nel realizzare i propri sogni o nello sviluppare le proprie potenzialità, artistici e non. Una sorta di razzismo sottile che crea pregiudizio, determinando diverse condizioni e possibilità di partenza. Un altro aspetto toccato con estrema precisione da entrambi riguarda le condizioni di classe. Esistono immigrati di serie A, figli di diplomatci, di manager, in generale di ricchi, e immigrati di serie B, figli di lavoratori più umili e più poveri. I primi non conosceranno maiterribili realtà come quelle dei CIE, i secondi sì.
Mike afferma che lui non si colloca né tra i privilegiati, né tra i diseredati. Ha avuto la possibilità di studiare e lavora, questo lo porta a stare in una posizione intermedia.
In particolare nell'intervista a Paul l'arte assume una funzione di riscatto, non esplicitamente politico, ma forse più esistenziale, contro il malessere e l'alienazione prodotti dalla nostra società. Paul individua chiaramente i responsabili delle ingiustizie di questo mondo, accusando le banche,le mltinazionali e i poteri forti. Definisce il sistema una gabbia, la sua arte diventa un modo per sopravvivere,per resistere, per affrontare questo malessere indotto. Parla della volontà di fare qualcosa, di voler studiare per cambiare quello che ha intorno. Si riconosce nelle storie e nelle sofferenze di chi incontra sulla sua strada e cerca a suo modo di valorizzare e dare visibilità a queste storie attraverso la sua arte. Una frase mi ha estremamente colpito, facendomi forse anche un po' male, perchè è terribilmente vera. Paul definisce l'essere adulti come l'essere sconfitti. Il giovane sogna, l'adulto si rassegna, si arrende. Se è così spero di non diventare mai adulta.

Nel video di Mike mi sarebbe piaciuto che venissero approfonditi di più i temi delle sue canzoni, proprio perchè il rap è una musica che parla che ha in sèl'urgenza di comunicare qualcosa. La sua arte si sviluppa per la primavolta all'interno dell'occupazione della scuola superiore che lui frequentava, in una dimensione che sovverte la normale routine scolastica. Questa dimensione sovversiva la ritroviamo anche nella crew che vuole riappropiarsi simbolicamente della città attraverso il bombing, le tag; una città estranea, dove si è outsiders, senza spazi né luoghi propri, dove esprimersi e partecipare. Una città che sa essere anche repressiva, quando la polizia lo arresta mentre dipinge su un treno. Penso a Milano, a tutte le campagne anti-writers portata avanti dalla giunta di De Corato. Chissà quanti potenzialità artistiche avrà stroncato!
Anche Paul ci ricorda come in adolescenza fosse un outsiders, un bullo mezzo punk, che sicuramente nella miopia di molti adulti impegnati a criminalizzare comportamenti di bullismo “non prometteva nulla di buono”.

Entrambe le esperienze di Paul e Mike, nascono e si sviluppano in antagonismo alla normalità e alla conformità,come strumento di sopravvivenza e resistenza all'oppressione e alla mortificazione generata dal sistema sociale. Nascono ai margini di quelli che sono i confini tra inclusione ed esclusione sociale, assumono un valore di risppropriazione di strumenti per esprimere il proprio vissuto, le proprie idee, le proprie esperienze, comunicarle e valorizzarle. Ed è forse tanto la loro condizione di immigrati di seconda generazione, quanto il fatto di non essere figli di ricchi e benestanti, ma di lavoratori umili che li colloca in quella posizione. Infatti i loro genitori prima di diventare infermieri, come ha detto Paul, erano filippini che facevano i filippini.

Certamente avrei dovuto soffermarmi maggiormente sul testo della Pink, per creare connessioni più opportune. Il mio limite è stato il poco tempo a disposizione, tra lavoro e preparazione del progetto di tesi, ho quindi raccolto una parte delle riflessioni scaturite dalla visione dei video, per integrare questa mia breve relazione.

post di Marta

RIFLESSIONI CONCLUSIVE
LABORATORIO ANTROPOLOGIA VISIVA 2011


Il laboratorio frequentato a partire da gennaio 2011 mi ha permesso di avvicinare la particolare prospettiva di studio della antropologia visuale che si inserisce nel quadro delle discipline demo-etno- antropologiche.
Dalle prime lezioni, oltre al tentativo di dare una definizione scientifica dell'antropologia visuale, è emersa l’intenzione di discutere e di approfondire il concetto di visuale legato ad un "vedere" che pur essendo un procedimento di natura fisiologica e neurologica, non è estraneo ad influenze di carattere culturale. Compito dell'antropologia visuale, da questo punto di vista, è comprendere quali fattori di natura culturale possono incidere sulla decodifica delle immagini il cui procedimento fisiologico non è immune da condizionamenti di carattere socio-culturale.
Appunto il "vedere" è una funzione cognitiva essenziale per l'uomo.
Fra i vari obiettivi conoscitivi perseguiti dall'antropologia visuale vi è quello di risalire al complesso sistema di credenze, di pratiche rituali, di attribuzioni simboliche associate nei diversi contesti storico-culturali ma più in generale alla facoltà di vedere e al concetto di sguardi.
Quindi, da ciò che ho potuto comprendere durante le lezioni, l’antropologia visuale può essere considerata come una ricerca con le immagini e sulle immagini di una realtà “altra” ovvero, “dell’altro da sé”.
Ma comunque mi pare di aver compreso che l’antropologia visuale non disponga di una definizione univoca. Ed è come se si trovasse in una situazione pre- paradigmatica, poiché la comunità scientifica non ha ancora maturato un parere unanime riguardo agli obiettivi conoscitivi rispetto all'oggetto di studio, al quadro teorico di riferimento, alla metodologia di ricerca riguardo questa disciplina.
A mio avviso questa condizione può rivelarsi come punto di forza dal momento in cui l’antropologia visiva può apparire come onnicomprensiva - perchè vi possono trovare asilo vari filoni teorici, dunque non può privilegiare un aspetto rispetto ad altri e nel contempo positivamente provvisoria- perchè disposta a continui ripensamenti e riformulazioni, sia dei propri obiettivi conoscitivi, che del proprio apparato teorico-metodologico. Considerando la definizione formulata nel 1997 da Fabietti e da Remotti si sottolinea che “l'antropologia visuale mira a sviluppare una teoria generale del visivo, cioè di quel livello di cultura che si offre direttamente agli occhi dell'osservatore e che della cultura costituisce una chiave di accesso, emerge un oggetto di studio che si individua in ciò che si esprime visivamente, che si può cogliere e che si può registrare e fissare mediante l’impiego di strumenti audiovisuali”.
Inoltre, l'antropologia visuale si prefigge come obiettivo conoscitivo: quello di giungere ad una vera e propria teoria del visivo, volta ad analizzare e a decodificare, le forme visibili che le culture variamente assumono. Proprio per questa caratteristica, è costretta ad un continuo confronto con altre discipline anch'esse coinvolte nell'analisi del visuale. Proprio la definizione di antropologia visuale, fino ad ora considerata, invita a riflettere sulle continue trasformazioni che ha subito il suo oggetto di studio in una situazione di mutamento dove si configurano nuove problematiche di studio.
Con l’avvicinamento al progetto Culturalmente: itinerari artistici verso l’interculturalità ho approfondire l’importanza dell’aspetto tecnico ovvero di quegli strumenti con cui abbiamo cercato di documentare l'espressione visiva di una cultura di riferimento. Soprattutto nelle prime lezioni non sono mancate riflessioni sul fronte strettamente metodologico, legate alla validità e alle potenzialità degli strumenti di comunicazione, espressione e registrazione delle immagini. L’approfondimento del carattere teorico-tecnico dell'antropologia visuale è avvenuto con il nostro graduale coinvolgimento nel progetto con Paul e Mike. Qui ci siamo concentrati sulle modalità attraverso le quali la documentazione visuale prodotta debba essere archiviata e conservata affinché le informazioni siano sempre reperibili e potranno poi, essere successivamente divulgate.
E’ stato interessante osservare come la moltitudine di informazioni raccolte siano rientrate in specifiche note di campo costituite dalle riprese, una modalità particolare per fare conoscenza in maniera diversa. A tal proposito mi pare opportuno far riferimento ad alcune considerazioni di MacDougall sulle risorse e sulle potenzialità dei mezzi audiovisivi. David MacDougall ha sottolineato che la nostra percezione ordinaria dell’esistenza, del sé e dell’altro, passa attraverso la percezione di una immagine. Ed è proprio questa percezione che colloca la visione su di un piano di adesione alla vita, ad un esserci-nel-mondo, qualificandola come un’esperienza di partecipazione. Pertanto l’azione del filmare può essere interpretata come atto che precede il pensiero in cui una osservazione di un certo interesse, di una certa intenzione e lascia una traccia persistente. Ed è proprio con la finalità di mettere in luce questa traccia che si è sviluppato il progetto Culturalmente che ha visto coinvolti me e i miei compagni dal primo incontro conoscitivo con i due artisti coinvolti. Proprio dal primo momento con Paul e Mike è emersa la reale possibilità di creare un terreno di incontro fra sguardi convergenti. Infatti, dall’insegnamento di Rouch, ho potuto osservare l’importanza dell’esperienza di vita nel lavoro che abbiamo avviato considerando la centralità del filmato come momento di condivisione, come luogo di un gioco che caratterizza fortemente il farsi delle immagini in cui diventa decisivo il modo in cui la cinepresa agisce, in cui si muove e in cui esplora lo spazio, perché in questa dinamica si riflettono presenze e sguardi che possono condurre ad una comprensione multisituata e polifonica.
Dopo iniziali preoccupazioni sull’adozioni di adeguate modalità con cui avvicinare Paul e Mike, si è potuto osservare una crescente empatia creatasi anche grazie alla modalità partecipatoria e collaborativa utilizzata per condurre il nostro lavoro pur con il breve tempo a disposizione.
Questa viene ad essere una questione importante verso la quale si sono espressi vari autori tra i quali Sarah Pink che nel suo testo “Visual Intervensions. Applied Visual Anthropology” dove ha esaminato il valore e le pratiche dell’antropologia visuale applicata. Nel libro, sono riportate le esperienze su una serie di casi studiati da diversi autori che hanno prodotto degli interessanti documentari etnografici creati con l’utilizzo di mezzi audio visivi andando a sondare il contesto della sanità, le politiche sociali, la dimensione del turismo nella valenza di patrimonio culturale.
Di questo libro, rispettando quanto richiesto dalla docente, ho proceduto all’attenta lettura dell’articolo di Carlos Y Flores (capitolo 10) dal titolo “Sharing Anthropology. Collaborative Video Experience among Maya Film- makers in post-war Guatemala”.
L’autore presenta un progetto di film- documento etnografico al fine di valutare “gli usi, le possibilità e gli effetti dei media audiovisivi tra i gruppi indigeni in un paese da una prospettiva antropologica”. Emerge lo scopo ultimo di riflettere sullo stato di applicazione dell’antropologia visuale come specifico campo di pratica. Flores dichiara di aver voluto sviluppare una versione di Rouch di “antropologia condivisa” nel suo documentario collaborativo nel progetto con i Q’eqchi’ in Guatemala al termine della guerra civile che, dopo il colpo di stato appoggiato dagli Stati Uniti nel 1954, ha visto instaurarsi una dittatura che ha combattuto con metodi spietati la guerriglia armata, composta prevalentemente da indigeni. Solo nel 1985 i militari hanno ceduto il potere ai civili ed è stato avviato un processo di democratizzazione. I protagonisti della ricerca sono un gruppo di persone appartenenti ad una tribù non minoritaria, integrata nel sistema nazionale anche se svantaggiata da un punto di vista socio economico e segnata dal conflitto armato. Inoltre l’autore aggiunge che i soggetti del Guatemala sono diversi dagli indigeni studiati in Brasile o in Australia in quanto non hanno dovuto difendere il riconoscimento della loro etnia.
Il lavoro dell’autore si colloca nella seconda metà degli anni 90 quando la popolazione ancora aveva mantenuto un ricordo molto vivo della militarizzazione e della dislocazione sociale ma nel contempo si stava impegnando a potenziare nuovi meccanismi di ricostruzione sociale. Questa esperienza ha permesso di considerare i films etnografici come utili strumenti di ricerca e di studio di comunità. Infatti, lo studio seguito ha innescato un meccanismo virtuoso per portare alla luce la nuova realtà formatasi dopo il conflitto civile. La ricerca effettuata dall’autore si è rivelata non solo antropologica ma anche personale e comunitaria. In effetti, Flores è un guatemalteco non indigeno e tale progetto gli ha permesso di riscoprire la propria identità dopo aver abbandono il paese d’origine durante il conflitto. Dall’altra parte, anche l’intera comunità ha potuto avviare un cammino ricostituivo dopo la tragica esperienza del conflitto. Ed è per questo che l’autore sottolinea non solo un interesse accademico ma anche personale in un’analisi dell’impatto politico sulla popolazione indigena. Questo spiccato interesse personale ha condotto Flores di fronte a dubbi personali da guatemalteco che si percepisce in una “mezza appartenenza guatemalteca” che lo ha proiettato a vivere l’esperienza in prima persona pur mantenendo una prospettiva esterna in una specie di doppia visione del contesto senza riuscire a trovare una linea di confine tra i due sguardi. A tal proposito menziona Clifford rispetto alla modalità di divenire consapevoli che ogni versione di “altro” possa essere orientata anche alla costruzione di un sé. Flores sottolinea una prospettiva soggettiva di profonda condivisione con la presenza di voci multiple e ciò è stato reso possibile avvicinando nuovi paradigmi al di fuori del modello accademico.
Inizialmente Flores si è concentrato sul metodo dell’osservazione partecipante in un lavoro di integrazione con il video team durante le riprese video nella città di Coban e nei villaggi circostanti. Flores riprendeva i film –makers mentre gli stessi interagivano con gli altri membri della comunità annotando tutto nel diario di campo. Questo punto di osservazione esterno pare non abbia condizionato il normale fluire delle attività quotidiane registrate. Flore notò che nel primo periodo di lavorazione si erano registrati degli aspetti che lo stesso autore non pensava rilevanti, ad esempio non vi era alcun rimando alla guerra civile e all’attuale posizione socio politica.
Dopo un calcolato distacco dalla scena, Flores si è inserito con un intervento attivo orientando la ricerca sull’impatto della guerra in termini culturali al fine di creare un prodotto destinato a divenire patrimonio comune in grado di raggiungere il maggior numero di portatori di interesse.
Flores ebbe varie difficoltà nel momento del montaggio del materiale reperito in quanto assistette ad un calo di interesse da parte dei film makers maggiormente attratti dal processo costruttivo piuttosto che dal prodotto finito. Il film prodotto risultò molto distante dai parametri occidentali ma venne apprezzato dai guatemaltechi. Ma comunque la conclusione più apprezzabile fu rendere la comunità locale più consapevole della loro specificità politica e culturale in vista di un maggior controllo sull’intenzione di quali elementi preservare, distruggere e modificare.
La ricerca di Flores ci illustra un’impresa condivisa e collaborativa che conduce ad una produzione di conoscenza antropologica che l’esperienza sul campo riesce a racchiudere un significato costruendolo insieme ai soggetti che entrano in relazione.
Ed è proprio all’interno del video che possiamo dare spazio ad una molteplicità di voci in un continuo gioco di dialettica di definizione all’interno di una rappresentazione dove vi sono diversi livelli di condivisione. Con il film dell’esperienza etnografica si riesce a costruire l’immagine dell’altro dato che il mezzo audio visivo ci permette di esplorare il punto di vista dei soggetti nell’iscrizione nei loro corpi. Il visivo, per non essere chiuso, può essere utilizzato per evocare esperienze sensoriali nell’audience. Ci permette quindi di riflettere in termini di risonanza che comprende gli stati emotivi relativi agli enunciati dei soggetti ovvero è la comprensione dello stato emotivo altrui senza sostituzione. Ed è proprio la costruzione del sé che può essere elemento osservabile attraverso l’utilizzo di un mezzo audio visivo come la telecamera. L’antropologia ha quindi un ruolo performativo in quanto produce significato che emerge, si svela e non esiste a priori. Si attua un’apertura al cambiamento dove il film si manifesta come antropologia performativa mettendo in scena il processo di conoscenza antropologica . Quindi i films producono una sorte di comprensione dei soggetti che vengono rappresentati. Il film include l’esperienza e non è solo l’oggetto che viene presentato in modo astratto ma è conoscenza sulle relazioni che ne nascono. Fare la conoscenza di……..diceva MacDougall e con questa significativa citazione concludo le mie riflessioni sul percorso effettuato durante il Laboratorio.

Marta Barella
Laboratorio Antropologia Visiva gennaio-maggio 2011

post di Falzetta

Relazione laboratorio di antropologia visiva


Francesco Falzetta



L’esperienza del laboratorio di antropologia visiva svoltosi in questo secondo semestre è stato luogo di costruzione di uno spazio/tempo per la rappresentazione di molteplici soggettività, sia implicite che esplicite.
Fra le soggettività esplicite possiamo elencare Paul e Mike, i due artisti coinvolti nel progetto di ricerca, gli studenti che hanno partecipato al corso, la docente che teneva il corso, il regista che effettuava le riprese. Tra quelle implicite elenchiamo i soggetti che hanno finanziato il progetto e il docente supervisore del progetto stesso.
La presenza e il posizionamento di Paul e Mike, soggetti/oggetti della ricerca, ha scaturito in me una riflessione su quali e quanti fossero gli sguardi esplorativi presenti nella ricerca: quelli di Paul e Mike che si chiedevano “come mi vedi io” “come mi vedono gli altri” “come invece vorrei che mi vedessero”, due soggettività che hanno costruito su un terreno comune di condivisione il loro dialogo con gli interlocutori.
Poi gli sguardi degli studenti, soggetti esterni alla ricerca, che hanno posizionato la loro soggettività in un ambito quasi di straniamento. A questo proposito posso portare la mia personale esperienza di sguardo al contempo di famigliarità e di spaesamento.
Durante un uscita in cui si doveva riprendere Paul mentre interagiva con alcuni luoghi della città da cui trarre ispirazione per le sue opere, il mio essere là ha creato in me differenti sensazioni e vari livelli di comprensione.
Il fatto di aver già visto Paul molte volte in luoghi e situazioni differenti attraverso le note di campo, ha creato in me una sorte di senso di famigliarità ma al contempo di spaesamento e straniamento.
Questo mi ha portato a riflettere sul fatto che quando si fa etnografia visiva l’etnografo agisce attraverso gli altri performer coinvolti nell’azione. Tutto ciò implica la costruzione di ruoli interpersonali complessi e stratificati.
Come sostiene l’antropologa An van Dienderen, che ha condotto una ricerca attraverso il mezzo audiovisivo in un area marginale di Bruxelles chiedendo agli abitanti di quest’area il loro fattivo contributo alla realizzazione del video, non è importante i progetto finale del lavoro che si sta svolgendo quanto il grado di partecipazione alla performance dei soggetti coinvolti.
Lo stesso MacDougall parla di far la conoscenza di per indicare il grado di reciproco coinvolgimento emotivo e corporeo nell’azione di performance.
Far partecipare i vari soggetti della ricerca all’esperienza di reciproca pre-comprensione emotiva può voler dire portare lo spettatore finale ad un grado di coinvolgimento e di partecipazione significativo. Rouche dice che i soggetti visti attraverso l’esperienza del ricercatore non sono solo soggetti di ricerca ma direttamente partecipi della ricerca stessa.
Inoltre il mio essere presente alle riprese mi ha posizionato come un terzo occhio osservatore/esploratore insieme a quelli già presenti della videocamera e del regista.
Per concludere ritengo che l’intenzione di esplorare le soggettività degli artisti attraverso il multi posizionamento e la simultaneità di differenti sguardi sia la strada ottimale per un giusto percorso di ricerca in antropologia visiva.
Inoltre se consideriamo le note di campo come testo culturale, la prospettiva interpretativa può essere rafforzata dal modello metodologico e dal livello di significazione che Roland Barthes individua quando parla di denotazione e connotazione, dove la prima indica il significato letterale del testo mentre la seconda quello culturale. In fondo cos’è la comprensione del significato dei testi culturali se non un modo nuovo di narrare la storia delle persone dal punto di vista del ricercatore. Parafrasando Hans-Georg Gadamer: “La comprensione appartiene all’essere che viene compreso”.

15 maggio 2011

The Atomic Cafe

Notes from the documentary:
THE ATOMIC CAFE

President Truman said: “ We have spent more than 2 billion dollars on the greatest scientific gamble in history and we have won”.

“Having found the atomic bomb, we have used it”.

Nuclear test in Bikini: evacuation is needed to proceed with the experiment.

The Cold War: East vs. West

“Could the A-Bomb (atomic bomb) be used as a weapon in the Korean War? Is it necessary?”

Should we embrace diplomacy or pragmatism (then fight)?

“(A nuclear ) War would be world’ suicide”

President Eisenhower: “America should create the H bomb and then keep it safe, without using it. Americans must be vigilant to lead this world to a peaceful and security distance. And I assure you, WE CAN DO IT”.

H bomb (Hydrogen bomb) use =Third World War = catastrophe for all mankind.

Use of an atomic weapon -> Effects:
· Blast
· Heat
· Radiation -> you can’t see it, feel it nor smell it.