Buongiorno a tutti,
annunciando che abbiamo caricato il nostro video sul Parkour sul canale YouTube come da accordo, volevamo approfittare dell'occasione per spendere un paio di parole sul progetto appena concluso.
L'esperienza del laboratorio è stata per entrambe le componenti del gruppo (Laura Floreani e Melissa Fiameni) molto positiva. Da zero abbiamo imparato non solo ad accendere ed utilizzare una telecamera, ma anche a montare un intero video; il risultato non era scontato e la soddisfazione finale è stata maggiore del previsto.
Rispetto all'idea iniziale, come è immaginabile, il progetto si è modificato ed adattato alla realtà che ci siamo trovate dinnanzi. Avendo scoperto nella palestra un luogo dove la dimensione dei corsi e dell'insegnamento della disciplina erano preponderanti rispetto alla dimensione spettacolare e della performance, almeno all'interno delle mura dell'edificio, abbiamo quindi deciso di orientare la ricerca, oltre che verso le esperienze personali dei giovani istruttori e performer, anche verso la dimensione della consapevolezza e della trasmissione dei valori del parkour attraverso l'insegnamento.
Il video comprende molte interviste parlate, e questo può essere anche visto come un punto debole, ma ha cercato anche di sottolineare, con la scelta di certe inquadrature, i tempi, ritmi e gesti che i piccoli e i giovani sperimentano e cercano di copiare ed interiorizzare.
La visione che si è voluta utilizzare è dal generale al particolare: dall'arrivo alla palestra, alla costruzione di questa e del gruppo intervistato, alle tipologie di corsi, agli esempi dei corsi, alle interviste sul rapporto soggetto-spazio-ostacoli, agli esempi del rapporto e dei gesti che si instaurano tra insegnanti e corsisti, per arrivare alle definizioni e ai significati veicolati.
Analizzandolo criticamente si può riscontrare la mancanza di alcune interviste ai corsisti e dell'azione sul campo vero e proprio dei performer-istruttori, che non si vedono entrare del tutto in azione. Questo è dovuto ai tempi e alle modalità della nostra ricerca: non abbiamo avuto moltissimo tempo a disposizione sia noi, sia i ragazzi per farci vedere acrobazie particolari; per quanto riguarda i clienti, visto il tempo limitato, abbiamo preferito cercare di non influenzare ulteriormente l'ambiente in cui ci trovavamo per lasciare spazio ai gesti e alle dinamiche che emergevano.
Certamente i miglioramenti possibili sono molti, ma per essere una produzione prima ci riteniamo più che soddisfatte del risultato. Le possibilità che questo video ci ha aperto sia nell'approfondimento della ricerca in questo campo specifico, sia nelle possibili migliorie tecniche ed artistiche, sia nell'utilizzo e nella consapevolezza del mezzo audiovisivo, aprono verso il futuro.
Grazie alla professoressa Bramani per la gentilezza e la disponibilità,
Laura Floreani
Melissa Fiameni
Il LAMA è uno spazio di riflessione e di sperimentazione nell'ambito delle pratiche audiovisive di rappresentazione dell'esperienza etnografica.
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20 giugno 2014
12 giugno 2014
fuorimano
FUORIMANO
Ex Conceria Sabatia di Via Boffalora n° 15/17
Milano
L'intento di
questa esperienza è quello di costruire un primo abbozzo di un idea più
completa e organica per una documentazione audio visiva relativa all'ex
conceria Sabatia, posizionata alle porte di Milano, all'inizio del parco sud, tra la Barona e il Grattosoglio, a 90
metri dal Naviglio Pavese. Chiudendo l'attività nel 1991 la struttura si
trasforma in contenitore di spazi sia lavorativi che abitativi, confermandosi
nel tempo in un luogo di residenza e integrazione di persone provenienti da
diverse nazionalità come Cina, Romania, Bulgaria, Marocco, Tunisia, Costa
d'Avorio, Stati Uniti d'America, Croazia, Polonia, ecc; persone in continuo
movimento verso direzioni obbiettivi e con velocità e ritmi diversi.
La maggior
parte delle volte sono le persone ad adattarsi al posto e agli spazi e non il
contrario, per cui uno degli aspetti più suggestivi e delicati è il degrado di elementi
di primaria necessita (impianti elettrici, fognature, raccolta della
pattumiera, infrastrutture). I
proprietari sono chiamati padroni per le modalità anacronistiche con cui sono
gestiti i rapporti. Nello stesso luogo sono praticati lavori tipicamente
artigianali quali fabbroferraio, meccanico, vetraio, falegname e professioni
più vicini all'ambito tipicamente creativo come registi, designer e scenografi.
Risiedo qui dall'agosto
del 2002 e il mio punto di osservazione è sicuramente
privilegiato. Essere in una zona di contatto mi ha permesso di
raccogliere molti episodi di trasformazione e visioni poetiche vivendoli
personalmente attraverso l'esperienza quotidiana. Sono sempre rimasta colpita e
affascinata, per come persone di habitus,
estrazione sociale, professione,
obbiettivi molto differenti riescano
a convivere e condividere questo luogo attraverso le mille contraddizioni,
contrasti, armonie e disarmonie, legami, amicizie e inimicizie che si avvicendano
alternandosi nello spazio e nel
tempo. Mi sono chiesta se questi attori sociali, al di la delle loro diversità
condividano una sorta di comune denominatore che va oltre al basso costo economico
degli affitti; se vige una sorta di equilibrata anarchia non dichiarata, che placa
la violenza la maggior parte delle volte e permette una fragile ma intensa
armonia, essa è sorretta dalla responsabilità di tutti.
Questa ex
fabbrica, che trattava pelli e che inizialmente ospitava circa 150 operai in
camerate comuni provenienti tutti dallo stesso paese, Solofra in provincia di
Avellino, indichi già diverse possibilità e diverse vie d'indagine. Questo
posto si presterebbe per un lavoro pluri tematico e necessariamente
ipertestuale, considerando che la posizione topografica risulta apparentemente
fuorimano rispetto al centro città ma in realtà velocemente raggiungibile
seguendo la linea retta del naviglio.
Non posso non
mettere in evidenza la mia posizione realmente inserita nel contesto, per cui
il mio punto di vista è condizionato fortemente dai luoghi e dai punti di
ripresa. Ottenere la fiducia delle persone che mi circondano, non avvertirle
ogni volta che le riprendo, nonostante siano a conoscenza delle mie intenzioni,
non è cosa proprio scontata. Come strategia metodologica per ottenere la loro
autorizzazione al completamento del lavoro organizzerò una proiezione
collettiva in uno spazio comune dove faro vedere a tutti il montaggio finale.
Ho registrato numerosi episodi su
diversi livelli attraverso la mia partecipazione attiva, spendendo diverso
tempo con i soggetti, integrandomi nel contesto del momento in modo da
condizionare il meno possibile l'azione, a volte riprendendo "a freddo",
provocando la reazione diretta del soggetto. La scelta "stilistica"
e' sicuramente di carattere poetico, cercando di oggettivare il più possibile il dato osservato,
senza nascondere una personale selezione che possa rappresentare in pochi
minuti la realtà che più persone condividono in questo luogo. Ho cercato col
montaggio di dar voce sia ad alcuni aspetti poetici ma non per questo meno
importanti, sia ad interviste più mirate, considerando che la maggior parte
degli episodi che accadono, non possono essere registrati tout court sia per l imprevedibilità con cui avvengono
sia per la delicatezza dei contenuti. Attraverso la visione di questa
microetnografia visiva mi auguro sia possibile farsi un idea di un luogo, che unisce paesaggio, ambiente e momenti aggregativi e
di scambio che sono comunque le riprese generalmente più autorizzate dai
residenti.
La prima parte
del progetto prende spunto da un
lavoro audio del 2003 dal titolo E
arrivarono... Costruire cioè una
sorta di carta d'identità di questo sito, attraverso la lettura da parte delle
persone coinvolte, di un testo contenente un elenco di sinonimi di volta in
volta liberamente scelti dai soggetti. Una direzione suggerita da questa
indagine potrebbe nascere proprio dal perchè della scelta, fino a ricostruire vite intere fatte di
spostamenti, soste e nuove nascite.
"La storia e' lunga" , molto
lunga soprattutto per le diverse e numerose persone, che attraverso le proprie venture
si e' trovata ad abitare in questo luogo per ragioni diverse.
2 giugno 2014
progetto "rappresentare il cambiamento culturale in azienda attraverso il teatro"
Buongiorno Professoressa,
allego il progetto di lavoro "Rappresentare il cambiamento culturale in azienda attraverso il teatro".
Stiamo lavorando sulle modifiche al video, che abbiamo concordato insieme la scorsa settimana. Innanzitutto, abbiamo unito alcuni spezzoni dei video, spiegandoli con un commento più chiaro. Non potendo intervistare i partecipanti, abbiamo aggiunto alcune pagine di "diario del cambiamento". Infine, abbiamo pensato di inserire una riflessione critica sull'utilizzo del teatro in azienda, sviluppata dalla collega. Contiamo di venire all'ultimo incontro del 19 maggio per mostrarle il video.
Cordiali saluti
Simona
In altri casi emerge che i valori non esistono o non rispecchiano la cultura ufficiale e gli intenti dell’azienda. In questo caso si procede con un lavoro di revisione dei valori fino alla loro validazione e condivisione.
Infine, può accadere che, attraverso l’incontro con la cultura implicita, la cultura ufficiale venga arricchita di altri nuovi valori. In questo caso l’obiettivo del lavoro è favorire la compenetrazione dei valori.
Da parecchi anni utilizziamo come strumento di lavoro le tecniche teatrali. Riteniamo che, attraverso il teatro, le persone riescano a ragionare in modo molto efficace sulla rappresentazione che hanno della propria cultura e questo è possibile proprio grazie alle qualità del teatro stesso.
Abbiamo notato che, utilizzando le tecniche teatrali, le persone parlano più volentieri e più liberamente di sé, lavorano più efficacemente in gruppo, superano più facilmente imbarazzi o pregiudizi verso gli altri, si aprono maggiormente ad una conoscenza reciproca, riflettono meglio su tematiche astratte come la cultura.
allego il progetto di lavoro "Rappresentare il cambiamento culturale in azienda attraverso il teatro".
Stiamo lavorando sulle modifiche al video, che abbiamo concordato insieme la scorsa settimana. Innanzitutto, abbiamo unito alcuni spezzoni dei video, spiegandoli con un commento più chiaro. Non potendo intervistare i partecipanti, abbiamo aggiunto alcune pagine di "diario del cambiamento". Infine, abbiamo pensato di inserire una riflessione critica sull'utilizzo del teatro in azienda, sviluppata dalla collega. Contiamo di venire all'ultimo incontro del 19 maggio per mostrarle il video.
Cordiali saluti
Simona
RAPPRESENTARE IL CAMBIAMENTO
CULTURALE IN AZIENDA ATTRAVERSO IL TEATRO
Questo
lavoro nasce da una riflessione sulla cultura aziendale e sul nostro ruolo di
consulenti e facilitatori del cambiamento culturale nelle organizzazioni.
La
cultura esercita una forte influenza sul comportamento e gli individui
all’interno dell’organizzazione imparano a seguire delle modalità di condotta,
che rispecchiano la cultura aziendale di riferimento.
In
una azienda spesso convivono due culture, che si articolano su due livelli e
che, attraverso la loro intersezione ed interdipendenza, danno origine a
molteplici scenari. Ad un primo livello di analisi si incontra la cultura
esplicita, manifesta, che si concretizza nelle dichiarazioni formali
dell’organizzazione (vision, mission e valori) e nelle norme di comportamento (regole
di condotta, direttive).
Ad
un livello più profondo si trova un tipo di cultura latente. Tale cultura il
più delle volte è implicita e, né gli individui, né l’organizzazione ne hanno
piena consapevolezza. Essa, però, si rivela spontaneamente nei gesti
quotidiani, nel modo in cui gli individui si rapportano al loro lavoro,
costruiscono interazioni, elaborano modelli di comportamento e rappresentano,
rappresentandosi, il mondo aziendale.
Un
osservatore esterno può cogliere questo mondo sommerso fatto di quotidianità e
di rappresentazioni attraverso i comportamenti manifesti delle persone:
-
il
modo di svolgere l’attività (la professionalità, l’impegno, il coinvolgimento
nei gruppi di lavoro, il modo di parlare del proprio ruolo);
-
le
conversazioni (le pause alla macchinetta del caffè, i termini condivisi, le
esperienze comuni che entrano nella memoria collettiva, i miti);
-
l’interazione
con gli altri (il grado di collaborazione, le alleanze, i conflitti, i pregiudizi);
-
la
visione di sé (il senso di appartenenza, la motivazione, la partecipazione).
Studiare
la cultura presente all’interno di una azienda è determinante per comprenderne
le logiche di funzionamento ed in particolare consente di portare alla luce i
gap spesso esistenti fra la cultura esplicita e quella implicita. L’intervento
di consulenza, allora, ha l’obiettivo di promuovere un allineamento, che si
sviluppa attraverso delle connessioni fra i due tipi di cultura ed una presa di
consapevolezza dei significati.
Le
implicazioni sono molteplici.
Innanzitutto,
un primo oggetto di studio può essere indirizzato alla comprensione della
cultura latente, quella che spesso diventa la cultura dominante, perché
condivisa dalla maggior parte delle persone nella quotidianità, anche a scapito
della cultura ufficiale, quella voluta dall’azienda, ma non compresa o
assimilata da chi ci lavora. L’obiettivo, allora, diventa promuovere un
cambiamento culturale, che abbia un impatto sia sulle persone e sul loro modo di
vivere e condividere la cultura, che sull’organizzazione e sul modo in cui essa
assimila le necessità dei suoi membri, pur mantenendo la sua identità. Si
tratta di favorire un allineamento fra due culture, che richiede alle persone
un notevole impegno cognitivo ed affettivo, di elaborazione o rielaborazione di
significati.
In
un secondo momento si può cercare di cogliere come la dissonanza cognitiva ed
affettiva legata a due culture spesso contrapposte, possa avere impatti molto
pesanti sul benessere sia delle persone, che dell’organizzazione nel suo
insieme ed intervenire, di conseguenza, sugli stati di malessere e sul senso di
straniamento, aumentando di contro il senso di appartenenza, la motivazione ed
il coinvolgimento.
Infine
lo studio può essere indirizzato alla scoperta (o riscoperta) dei valori
aziendali che appartengono alla cultura ufficiale, con l’intento di renderli
visibili e condivisibili, aiutando le persone ad interiorizzarli.
Lavorare
sulla condivisione dei valori aziendali definiti dalla cultura ufficiale è un
aspetto fondamentale dell’intervento di consulenza volto a promuovere un
cambiamento culturale.
Il
primo passo è fare in modo che sia le persone che l’azienda portino alla luce i
valori esistenti, li discutano e li condividano. Questo tipo di intervento può portare
a tre diversi risultati.
Talvolta,
emerge che i valori ufficiali non sono condivisi dalle persone, che, però, in
linea di principio ne riconoscono la validità. In questo caso l’intervento sarà
incentrato su come imparare a condividere i valori aziendali, aiutando le
persone a rivedere il proprio modo di rappresentarsi l’organizzazione e di
rapportarsi ad essa.In altri casi emerge che i valori non esistono o non rispecchiano la cultura ufficiale e gli intenti dell’azienda. In questo caso si procede con un lavoro di revisione dei valori fino alla loro validazione e condivisione.
Infine, può accadere che, attraverso l’incontro con la cultura implicita, la cultura ufficiale venga arricchita di altri nuovi valori. In questo caso l’obiettivo del lavoro è favorire la compenetrazione dei valori.
Da parecchi anni utilizziamo come strumento di lavoro le tecniche teatrali. Riteniamo che, attraverso il teatro, le persone riescano a ragionare in modo molto efficace sulla rappresentazione che hanno della propria cultura e questo è possibile proprio grazie alle qualità del teatro stesso.
Abbiamo notato che, utilizzando le tecniche teatrali, le persone parlano più volentieri e più liberamente di sé, lavorano più efficacemente in gruppo, superano più facilmente imbarazzi o pregiudizi verso gli altri, si aprono maggiormente ad una conoscenza reciproca, riflettono meglio su tematiche astratte come la cultura.
Per
realizzare il video abbiamo pensato di raccontare in prima persona la nostra
esperienza di facilitatori del cambiamento culturale in azienda. Abbiamo
pensato di intervistarci, ponendoci delle domande sul metodo per individuare la
cultura in azienda, sulle tecniche di intervento e sui risultati attesi. Riteniamo
che sia utile arricchire il nostro racconto con dei video, che mostrino dei
gruppi durante il lavoro di riconoscimento dei valori aziendali. Infine,
pensiamo che sia interessante mostrare un caso particolarmente esplicativo, dove
chiediamo al gruppo di negoziare i valori che secondo loro rappresentano
l’azienda e, in un secondo tempo, di realizzare una performance teatrale che
mostri tali valori.
Tuttavia,
il video, realizzato in questo modo, ha parecchi limiti. Primo fra tutti, la
difficoltà di mostrare il cambiamento culturale in atto all’interno
dell’azienda. Nel nostro lavoro di consulenza esiste un prima (ciò che accadeva
in azienda prima del nostro intervento), un durante (il percorso che le persone
fanno quotidianamente per cambiare la propria rappresentazione della cultura
aziendale) ed un dopo (il risultato che le persone e l’organizzazione hanno
ottenuto attraverso un lavoro congiunto di negoziazione, revisione e messa in
discussione, durato almeno un anno). Solitamente, lo strumento di misura del
nostro lavoro consiste in interviste, workshop di gruppo e questionari. Ma
anche di un lavoro costante di osservazione dell’attività quotidiana e di
partecipazione alla vita dell’organizzazione. Pensiamo che sia proprio in
questa quotidianità, fatta anche (e soprattutto) di piccoli gesti e di mezze
parole, che risieda il cambiamento culturale. Una quotidianità che rappresenta
un mondo denso, vivo, dinamico e complesso, che è molto difficile racchiudere
in un’intervista o in un video.
Team
di lavoro:
Simona
Raimondi
Rosa
Pantaleo
15 maggio 2014
Sguardi sul nudo - Ripresa
Cara Sara e colleghi
vi aggiorno in merito al mio progetto individuale.
L'ambito che avevo scelto di affrontare è quello relativo ai corsi di disegno e di presa dal vivo in un atelier milanese, l'Osservatorio Figurale del quartiere Isola: uno scenario denso, quello tra gli spazi, i corpi, gli sguardi e la resa materiale di questa relazione, in cui si muovono diversi attori, diverse soggettività, diverse performance.
L'Osservatorio nasce da un'idea di Enrico Lui, maestro di disegno e uomo di teatro: i legami di Lui col teatro riecheggiano in tutta l'ambientazione dell'Osservatorio. Il tavolo, in assi di legno, su cui posa la modella è un palcoscenico: il centro dell'intera performance è la persona che vive l'esperienza della posa, più che il disegno in sé. Ad ogni posa, si svolge un evento unico.
In effetti, gli stessi artisti la definiscono come una scuola di disegno molto diversa dai classici licei in cui la modella serve come richiamo anatomico: Lui impostò la scuola come un osservatorio sulla vita di una ragazza, di una donna che decide di posare, si spoglia e si mette al centro. L'ambientazione, la vicinanza del tavolo delle pose con gli spazi degli artisti non è emozionante (e, soprattutto all'inizio, difficile) solo per la modella, ma anche per gli artisti stessi: l'intimità è molto forte, ed è al di là del nudo.
Inizialmente avevo pensato di focalizzarmi sul corpo della donna e sulla riproduzione ed interpretazione grafica e materiale di esso - in particolare, in relazione alla definizione che la modella e gli artisti possono dare o non dare della "femminilità" e della "grazie" del corpo. Come quasi sempre accade nelle etnografie, al di là degli interrogativi di ricerca iniziali, sono la relazione ed il confronto nelle interviste che permettono di lavorare sulle dimensioni che effettivamente emergono.
Intervistando un artista ed una modella e artista dell'Osservatorio, ho preferito focalizzarmi su tre aspetti:
- la posa come performance teatrale, di non facile resa attraverso lo strumento della telecamera (proprio per la questione del nudo): ho preferito che questo tema fosse costruito dalle parole degli artisti, della modella e dai gesti e dal lavoro di un artista che ha acconsentito che lo filmassi durante le due ore della posa;
- il lavoro dell'artista, in effetti, fa da filo conduttore anche per il secondo aspetto, ossia il divenire, da parte del corpo della modella, come uno specchio per chi disegna: la modella è vista attraverso la tecnica e gli occhi di un'altra persona, che al contempo, nella resa grafica, mette anche un po' di quello che in quel momento vede nella modella;
- questa situazione di reciprocità e performance porta entrambi i poli della relazione a scoprire qualcosa di più di se stessi: la sensualità, la forza, la pienezza corporea, uno stato d'animo.
Nonostante le difficoltà materiali dello strumento audiovisivo, quest'ultimo può essere contestualizzato come mezzo per catturare la "concretizzazione" dello sguardo e della performance in atto durante la posa di nudo.
Credo che queste immagini e queste storie possano, insieme, offrire la possibilità di gettare uno sguardo sulla eterogeneità e sulla realtà non-scontata del nudo e dell'atto della posa.
Alessandra
vi aggiorno in merito al mio progetto individuale.
L'ambito che avevo scelto di affrontare è quello relativo ai corsi di disegno e di presa dal vivo in un atelier milanese, l'Osservatorio Figurale del quartiere Isola: uno scenario denso, quello tra gli spazi, i corpi, gli sguardi e la resa materiale di questa relazione, in cui si muovono diversi attori, diverse soggettività, diverse performance.
L'Osservatorio nasce da un'idea di Enrico Lui, maestro di disegno e uomo di teatro: i legami di Lui col teatro riecheggiano in tutta l'ambientazione dell'Osservatorio. Il tavolo, in assi di legno, su cui posa la modella è un palcoscenico: il centro dell'intera performance è la persona che vive l'esperienza della posa, più che il disegno in sé. Ad ogni posa, si svolge un evento unico.
In effetti, gli stessi artisti la definiscono come una scuola di disegno molto diversa dai classici licei in cui la modella serve come richiamo anatomico: Lui impostò la scuola come un osservatorio sulla vita di una ragazza, di una donna che decide di posare, si spoglia e si mette al centro. L'ambientazione, la vicinanza del tavolo delle pose con gli spazi degli artisti non è emozionante (e, soprattutto all'inizio, difficile) solo per la modella, ma anche per gli artisti stessi: l'intimità è molto forte, ed è al di là del nudo.
Inizialmente avevo pensato di focalizzarmi sul corpo della donna e sulla riproduzione ed interpretazione grafica e materiale di esso - in particolare, in relazione alla definizione che la modella e gli artisti possono dare o non dare della "femminilità" e della "grazie" del corpo. Come quasi sempre accade nelle etnografie, al di là degli interrogativi di ricerca iniziali, sono la relazione ed il confronto nelle interviste che permettono di lavorare sulle dimensioni che effettivamente emergono.
Intervistando un artista ed una modella e artista dell'Osservatorio, ho preferito focalizzarmi su tre aspetti:
- la posa come performance teatrale, di non facile resa attraverso lo strumento della telecamera (proprio per la questione del nudo): ho preferito che questo tema fosse costruito dalle parole degli artisti, della modella e dai gesti e dal lavoro di un artista che ha acconsentito che lo filmassi durante le due ore della posa;
- il lavoro dell'artista, in effetti, fa da filo conduttore anche per il secondo aspetto, ossia il divenire, da parte del corpo della modella, come uno specchio per chi disegna: la modella è vista attraverso la tecnica e gli occhi di un'altra persona, che al contempo, nella resa grafica, mette anche un po' di quello che in quel momento vede nella modella;
- questa situazione di reciprocità e performance porta entrambi i poli della relazione a scoprire qualcosa di più di se stessi: la sensualità, la forza, la pienezza corporea, uno stato d'animo.
Nonostante le difficoltà materiali dello strumento audiovisivo, quest'ultimo può essere contestualizzato come mezzo per catturare la "concretizzazione" dello sguardo e della performance in atto durante la posa di nudo.
Credo che queste immagini e queste storie possano, insieme, offrire la possibilità di gettare uno sguardo sulla eterogeneità e sulla realtà non-scontata del nudo e dell'atto della posa.
Alessandra
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14 maggio 2014
Parkour: il rapporto spazio/soggetto tra movimento e schemi mentali
Buongiorno a tutti,
la ricerca che abbiamo deciso di svolgere è sul Parkour e, nello specifico, sul rapporto
che esso sviluppa tra il soggetto e lo spazio.
Il Parkour
è una disciplina metropolitana nata in Francia
agli inizi degli anni ’90 che consiste nell'eseguire un percorso superando
qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di
movimento possibile, adattando il proprio corpo all'ambiente circostante. Con
efficienza si intende uno spostamento che sia al contempo semplice, veloce e
sicuro; un termine che racchiude in sé entrambe le parti della dicotomia
spazio/tempo che vediamo spesso emergere, anche a livello antropologico, nello
studio delle categorie del soggetto.
Il nome deriva dal percorso di guerra, chiamato
“percorso del combattente” (in francese parcours
du combattant), utilizzato nell’addestramento militare proposto da Georges
Hébert. Egli era un ufficiale di marina francese che, nei primi anni del
Novecento, sviluppò un particolare metodo di allenamento per l’addestramento
delle truppe definito Hébertismo; il suo motto è esemplificativo della pratica:
«Essere forti per essere utili». Il metodo viene anche definito come “naturale”
poiché si fonda sull’idea che il migliore modo per allenare un uomo è
esercitarlo nei movimenti naturali che sa fare, nelle situazioni che la natura
gli presenta e gli richiede.
Sarà poi David Belle, figlio di un pompiere
addestrato secondo il metodo di Hébert, che, dopo aver sperimentato fin da
piccolo percorsi e tracciati, da adulto intraprese la carriera militare,
vincendo numerosi trofei nei “percorsi del combattente”. Dopo essere divenuto
anche lui pompiere ed essere stato costretto ad abbandonare il mestiere a causa
di un infortunio al polso, non accettando di abbandonare la pratica che l’aveva
da sempre appassionato, ne fece una filosofia e fondò quello che oggi è
conosciuto come Parkour.
Nel 1998 David Belle e Hubert Koundé decisero di
sostituire alla “c” di parcours la
“k”, sia per veicolare una maggiore sensazione di aggressività sia per
innegabili motivi estetici, e di eliminare la “s” muta in quanto contrastante
con l’idea di efficienza del Parkour.
Belle non è l’unico fondatore della disciplina, viene
infatti affiancato anche dal gruppo degli Yamakasi, che fondarono l’Art du
déplacement, e Sebastien Foucan, che creò il Free Running.
Spesso la disciplina del Parkour viene confusa con il Free
Running, che si discosta dal Parkour
in quanto l’efficienza nella scelta del percorso viene messa in secondo piano
rispetto alla spettacolarità e all’originalità dei movimenti. Il Free Running in ogni caso permette di
poter godere delle peculiarità dell’abilità motoria e tracciativa non
vincolandosi necessariamente all’emergenza e all’efficienza, ma tenendo conto
oltre che degli aspetti estetici, anche di quelli quotidiani, che non
necessariamente sono volti all’efficienza.
La diffusione del Parkour
è avvenuta soprattutto grazie al passaparola e, come si può immaginare, è
esplosa con la diffusione di internet ed in particolare con i video caricati su
YouTube. Questo genere di diffusione
porta la pratica ad essere da un lato conosciuta anche in territori diversi da
quelli di origine, ma dall’altro a divulgare un’immagine fuorviante della
pratica, in quanto commista con gesti e movimenti superflui che, come abbiamo
visto, non rientrano nella disciplina pura.
In Italia il Parkour
arriva attorno al 2005; si è sviluppato molto grazie al web e ai siti locali
che hanno creato i primi incontri tra tracciatori.
Chi pratica Parkour
è chiamato tracciatore, definizione
evocativa del fatto che l’obiettivo del soggetto è quello di tracciare sia
metaforicamente che fisicamente un percorso nello spazio; i movimenti e la
direzione che si andranno a percorrere vanno difatti ben focalizzati prima
mentalmente in maniera conscia e successivamente percorsi in tutta la
materialità del proprio corpo.
La presa di coscienza di sé, del proprio corpo, dei
propri movimenti e soprattutto delle proprie possibilità è centrale in questa
disciplina, che non per nulla è definita come tale. Definirla come sport
estremo o come semplice pratica urbana rischia difatti di non cogliere quella
che è la grande operazione di disciplinamento e consapevolezza che i
tracciatori compiono in se stessi e su se stessi; sia che si debba percorrere
con efficienza, sia che lo si debba fare con originalità ed eleganza, la
cognizione delle proprie possibilità fisiche e spaziali risulta fondamentale.
Il Parkour
non è poi soltanto uno sport, ma anche un'applicazione sociale: i suoi valori sono
importanti per insegnare ai giovani (e non solo) il rispetto per se stessi e la
conoscenza dei propri limiti, utili per poter affrontare non solo gli ostacoli
materiali della città, ma anche quelli piccoli o grandi della vita. Le
associazioni nazionali che lo praticano ed insegnano sono difatti molto attente
a questi aspetti; l’associazione dei Milan
Monkeys e della loro palestra Total
Natural Training, oggetto della nostra ricerca, perseguono infatti anche
questa ambizione.
L’applicazione del Parkour alla vita quotidiana, e non solo all’ambito della palestra
o dei momenti selezionati in cui si apprende o ci si allena, è particolarmente
utile; è comprovato difatti che i tempi di spostamento diminuiscono
sensibilmente, fattore non indifferente nel momento in cui ci si ritrova a
vivere, come spesso accade per chi pratica questa disciplina oggi, nelle grandi
città.
Oltre ad una facilitazione nell’analisi dello spazio
circostante, il Parkour, nel momento
in cui viene praticato da tempo e quindi assorbito nelle competenze del
soggetto, cambia sensibilmente la cognizione dello spazio e del luogo del
soggetto. Le sue mappe mentali saranno differenti a livello organizzativo
rispetto a quelle di un non praticante e gli schemi con cui affronta le
dinamiche spaziali saranno sempre soggette ad un’analisi, più o meno
preponderante, dell’efficienza di movimento possibile e dell’area di
spostamento agibile rispetto al luogo in cui è collocato.
L’apprendimento della pratica non per nulla deriva da
una disciplina militare: richiede molta attenzione all’analisi dello spazio
circostante, ma al contempo anche una grande capacità di analisi interiore; è
solo grazie all’ascolto delle proprie sensazioni, dei propri sensi e dei propri
limiti e possibilità che si può migliorare. Un semplice allenamento di tipo
muscolare che non preveda anche un introspezione, sarebbe manchevole di una
parte fondante della pratica del Parkour.
Il potenziamento fisico è in ogni caso fondamentale e deve sempre accompagnarsi
ad una prova pratica di percorsi; si può divenire tracciatori esperti solo nel
momento in cui si esperisce, si prova, si fallisce e si riesce molteplici volte
sul campo.
Come antropologi, le affinità che si possono cogliere
rispetto alla disciplina non sono poche. È lo spazio della relazione che il
soggetto attiva nei confronti con dello spazio in cui si trova a dare origine
al movimento (del corpo, estrinseco) e alla consapevolezza (interna, del
soggetto). Discipline simili costruiscono non poco il carattere dei soggetti e
sono, a certi livelli, comparabili e tramutabili in filosofie di vita: gli
ostacoli materiali si metaforizzano in quelli della vita e il rapporto di
analisi, strategia, consapevolezza e fluidità si applica così dall’azione nello
spazio all’azione nella vita.
Il tipo di osservazione che desideriamo perseguire
quindi, come si è potuto leggere precedentemente, si focalizza primariamente
sull’analisi del rapporto spazio/soggetto. Da questo vorremmo trarre degli
spunti di ricerca verso: il movimento nel Parkour
come unione attiva di questa dicotomia; l’arte dello spostamento e le sue
finalità (Parkour e Free Running); la modificazione delle
categorie mentali del soggetto conseguentemente all’apprendimento della
disciplina; le modalità di insegnamento della pratica in questione.
Questa analisi sceglie di utilizzare il mezzo visuale
in quanto ritenuto fondamentale per permettere ai fruitori di cogliere le
suggestioni date da questa disciplina, che si struttura come essenzialmente
visiva e visuale nei suoi modi, nei suoi intenti e nelle sue pratiche, sia di
efficienza che estetiche.
Attraverso delle interviste ai soggetti che hanno
aperto la più grande scuola di Parkour
a Milano, i Milan Monkeys,
desideriamo poter cogliere il punto di vista di chi pratica la disciplina ad
alto livello, confrontando ciò che abbiamo potuto conoscere a livello teorico
con la pratica dei soggetti, mettendo quindi anche alla prova la consapevolezza
implicita ed esplicita delle asserzioni precedentemente descritte. Con delle
brevi interviste agli allievi della scuola che i Milan Monkeys hanno creato, e con la visione della palestra Total Natural Training che utilizzano
per i loro allenamenti indoor, desideriamo mostrare come si modifica il
disciplinamento sia corporeo sia cognitivo nel corso del tempo e dei
progressivi allenamenti, nonché le motivazioni che spingono i soggetti a
compiere un percorso tanto particolare come quello dello svolgimento del Parkour.
A livello metodologico intendiamo conoscere anzitutto
la palestra, che pare essere oltre che il fulcro dell’associazione, anche la
prima forma concreta di avvicinamento alla disciplina in oggetto per chi la
pratica per la prima volta. Successivamente vogliamo poter documentare l’azione
su di un effettivo campo urbano andando così a coprire, come abbiamo delineato
precedentemente, sia l’esperienza dell’allenamento sia quella della pratica sul
campo urbano effettivo.
A livello registico la nostra ambizione è quella di
poter far succedere sia il parlato che l’immagine, sicuramente più spettacolare
ed evocativa di tante parole, di modo da offrire con la produzione del filmato
un assaggio del particolare mondo del Parkour e delle suggestioni che ci ha
fornito sotto forma di domande di ricerca.
Componenti del gruppo:
- Laura Floreani
- Melissa Fiameni
14 febbraio 2014
"COSPLAYER": PASSIONE & ARTE
Il mio progetto consiste
nell'intervista ad una “cosplayer”.
Il
termine cosplayer (contrazione
dei termini “costume” e “play” nell'accezione di
“interpretare, giocare”) indica la pratica di indossare un
costume che rappresenti un personaggio riconoscibile in un
determinato ambito e di interpretarne il modo di agire.
Il fenomeno ha avuto
inizio alla fine degli anni '70 quasi contemporaneamente negli Stati
Uniti (dove travestirsi da supereroi come Batman e Superman era già
una pratica diffusa) ed in Giappone dove le persone vestono come
personaggi dei cartoni animati (“anime”), dei fumetti (“manga”)
o dei videogiochi, benchè ultimamente costituiscano fonte di
ispirazione anche opere occidentali di fama internazionale (la
trilogia de' “Il signore degli anelli”, “Harry Potter”,...).
Mentre in Oriente si
organizzano per lo più delle rassegne nelle quali i cosplayer si
incontrano per condividere la stessa passione e per farsi
fotografare, in Occidente è molto più marcato l'aspetto
interpretativo (delle vere e proprie scenette di combattimento,
ballo, canto, mimo a seconda del personaggio) ed agonistico (gare).
Dal momento che agli
occhi di un occidentale tali eventi possono sembrare simili alle
sfilate di Carnevale, occorre fare alcune precisazioni:
- mancano l'aspetto religioso e di rinnovamento simbolico (non è un periodo di festa durante il quale il caos sostituisce l'ordine costituito, che riemergerà rinnovato e garantito una volta terminati i festeggiamenti) e la violenza (cfr Carnevale di Ivrea);
- la maschera non è un oggetto usato per celare la propria identità, al contrario un cosplayer sceglierà sempre un (o più) personaggio al quale si sente di assomigliare, spesso anche fisicamente.
Fondamentale è la
realizzazione del costume e degli accessori, che deve essere
accuratissima e spesso è molto impegnativa.
Il video è composto da
più parti:
- breve sigla introduttiva nella quale si vedono le vie di Lucca gremite di persone ed alcuni cosplayers;
- intervista a Yamamoto (ogni cosplayer ha un nome d'arte tratto dalla cultura giapponese o fantasy) per mostrare come una cosplayer vive questa passione e forma d'arte e come si prepara a partecipare al “Lucca Comics&Games 2013”, la più importante rassegna del settore in Italia, seconda in Europa e terza al mondo (dopo il “Comiket” di Tokyo ed il “Festival international de la bande dessinée” di Angoulême in Francia) ma assolutamente unica perchè, a differenza di tutte le altre, si svolge per le strade della città, all'aperto e non al'interno di padiglioni appositi o in luoghi chiusi (palazzetti, capannoni);
- ampia sezione dedicata alla scelta e rielaborazione del personaggio (il Cappellaio Matto di “Alice nel Paese delle Meraviglie”), sezione nella quale mi sono soffermata sui bozzetti preparatori, sulla realizzazione del costume e degli accessori e sul trucco;
- riprese della cosplayer per le strade di Lucca, effettuate nelle zone meno frequentate (c'erano 200000 partecipanti, record assoluto dal 1993!) per poterla mettere meglio in risalto;
- sigla finale con immagini del “Lucca Comics & Games” 2013.
Ho
cercato di utilizzare diverse tecniche di ripresa (close
up shot, medium shot, long shot, aerial shot, zoom shot, POV, head on
shot ), di soffermarmi sui particolari quando possibile ed in fase di
montaggio, per rendere più coinvolgente lo scorrere delle immagini,
ho inserito musiche e canzoni spesso utilizzate come colonna sonora
di sfilate cosplay e videogiochi.
Viola
Donarini
http://www.youtube.com/watch?v=BSk_h_wnu1A
Etichette:
passate edizioni del laboratorio di AV
10 luglio 2011
Articolo di L. Ferrarini "Registrare con il corpo: dalla riflessione fenomenologica alle metodologie audio-visuali di J. Rouch e S. Feld"
Vorrei condividere alcune riflessioni contenute in questo articolo che ho trovato interessanti rispetto al lavoro di registrazione e selezione del materiale registrato in Via Padova. In particolare Ferrarini si sofferma sull'importanza:
1) del modo in cui la rappresentazione attraverso strumenti di registrazione viene realizzata
2) dell'atteggiamento di chi registra sul campo
Innazitutto la registrazione comporta importanti scelte selettive e interpretative, nel senso che la rappresentazione della realtà attraverso le tecnologie digitali non può essere paragonata alla complessità dell'esperienza della percezione, sia per quanto riguarda la quantità delle informazioni sia sotto l' aspetto qualitativo. Ferrarini a riguardo riporta un aneddoto relativo agli albori della carriera di Rouch: "Durante la discesa del fiume Niger del 1946-47 il francese aveva con sé una cinepresa militare Bell & Howell, che usava da pochissimo tempo. Dalla piroga con la quale lui e i due amici Sauvy e Ponty percorrevano il fiume riprendeva quello che lo interessava sulla riva destra e sinistra, indifferentemente. In Francia, volendo ricavare un film da quei rulli, si rese conto che doveva buttare la metà del girato, dato che sullo schermo il movimento della barca sarebbe apparso opposto a seconda che avesse usato le riprese dell'argine destro o sinistro." Ferrarini mostra come Rouch, alle prime armi, aveva confuso il suo mondo visivo, definito dallo psicologo Gibson, come lo spazio sferico che circonda il soggetto e non si trasforma con i suoi movimenti, con il campo visivo dell cinepresa che, invece, si limita all'inquadratura ed è relativo al movimento dell'osservatore. Ora, per tornare ai punti 1) e 2) Rouch utilizza la percezione corporea per guidare la registrazione, filmare diventa una tecnica del corpo e quindi un apprendimento di certe procedure per padroneggiare lo strumento:
- consapevolezza del proprio corpo mentre si utilizza la cinepresa
- uso del proprio corpo ai fini della ripresa
Ad esempio Rouch " filmava con un occhio nel mirino e l'altro aperto, in modo da tracciare un collegamento tra le immagini proiettate sul vetro smerigliato, circondate di nero e appiattite nella loro tridimensionalità, e la percezione ecologica dell'altro occhio, maggiormente connesso al mondo." Quindi le tecniche sviluppate da Rouch nella pratica sul campo:
1) rappresentano una forma di incorporazione degli apparati di registrazione, gli strumenti sono utilizzati come una estensione del proprio corpo.
2) comunicano allo spettatore la presenza del ricercatore nella scena, in questo modo si entra in un rapporto di co-presenza con chi viene registrato.
3) Il coinvolgimento corporeo, la condivisione dell'esperienza, danno al ricercatore la consapevolezza:
- del carattere dialogico dell'esperienza etnografica
-dell'osservazione della partecipazione
-della possibilità della riflessione etica sulla fruizione del sapere prodotto
In conclusione, Ferrarini cerca di mostrare come padroneggiare la tecnologia ci dia la possibilità di fornire delle rappresentazioni evocative e non necessariamente realiste. Registrare è sempre un atto creativo, la rappresentazione prodotta si fonda sul riconoscimento della partecipazione condivisa intersoggettivamente che non si limita a rappresentare ma diventa anche atto che trasforma la società.
Silvia
L.Ferrarini Registrae con il corpo: dalla riflessione fenomenologica alle metodologie audio-visuali di Jean Rouch e Steven Feld, Molimo, Quaderni diAntropologia culturale ed Etnomusicologia, vol.4
1) del modo in cui la rappresentazione attraverso strumenti di registrazione viene realizzata
2) dell'atteggiamento di chi registra sul campo
Innazitutto la registrazione comporta importanti scelte selettive e interpretative, nel senso che la rappresentazione della realtà attraverso le tecnologie digitali non può essere paragonata alla complessità dell'esperienza della percezione, sia per quanto riguarda la quantità delle informazioni sia sotto l' aspetto qualitativo. Ferrarini a riguardo riporta un aneddoto relativo agli albori della carriera di Rouch: "Durante la discesa del fiume Niger del 1946-47 il francese aveva con sé una cinepresa militare Bell & Howell, che usava da pochissimo tempo. Dalla piroga con la quale lui e i due amici Sauvy e Ponty percorrevano il fiume riprendeva quello che lo interessava sulla riva destra e sinistra, indifferentemente. In Francia, volendo ricavare un film da quei rulli, si rese conto che doveva buttare la metà del girato, dato che sullo schermo il movimento della barca sarebbe apparso opposto a seconda che avesse usato le riprese dell'argine destro o sinistro." Ferrarini mostra come Rouch, alle prime armi, aveva confuso il suo mondo visivo, definito dallo psicologo Gibson, come lo spazio sferico che circonda il soggetto e non si trasforma con i suoi movimenti, con il campo visivo dell cinepresa che, invece, si limita all'inquadratura ed è relativo al movimento dell'osservatore. Ora, per tornare ai punti 1) e 2) Rouch utilizza la percezione corporea per guidare la registrazione, filmare diventa una tecnica del corpo e quindi un apprendimento di certe procedure per padroneggiare lo strumento:
- consapevolezza del proprio corpo mentre si utilizza la cinepresa
- uso del proprio corpo ai fini della ripresa
Ad esempio Rouch " filmava con un occhio nel mirino e l'altro aperto, in modo da tracciare un collegamento tra le immagini proiettate sul vetro smerigliato, circondate di nero e appiattite nella loro tridimensionalità, e la percezione ecologica dell'altro occhio, maggiormente connesso al mondo." Quindi le tecniche sviluppate da Rouch nella pratica sul campo:
1) rappresentano una forma di incorporazione degli apparati di registrazione, gli strumenti sono utilizzati come una estensione del proprio corpo.
2) comunicano allo spettatore la presenza del ricercatore nella scena, in questo modo si entra in un rapporto di co-presenza con chi viene registrato.
3) Il coinvolgimento corporeo, la condivisione dell'esperienza, danno al ricercatore la consapevolezza:
- del carattere dialogico dell'esperienza etnografica
-dell'osservazione della partecipazione
-della possibilità della riflessione etica sulla fruizione del sapere prodotto
In conclusione, Ferrarini cerca di mostrare come padroneggiare la tecnologia ci dia la possibilità di fornire delle rappresentazioni evocative e non necessariamente realiste. Registrare è sempre un atto creativo, la rappresentazione prodotta si fonda sul riconoscimento della partecipazione condivisa intersoggettivamente che non si limita a rappresentare ma diventa anche atto che trasforma la società.
Silvia
L.Ferrarini Registrae con il corpo: dalla riflessione fenomenologica alle metodologie audio-visuali di Jean Rouch e Steven Feld, Molimo, Quaderni diAntropologia culturale ed Etnomusicologia, vol.4
4 luglio 2011
Sharing Anthropology di Carlos Y. Flores
Collaborative Video Experience among Maya Film-makers in Post-war Guatemala.
L'antropologo Carlos Y. Flores ha portato avanti una collaborazione improntata alla produzione video tra i Q'eqchi, una comunità Maya dell'Alta Verapaz in Guatemala. Durante questo suo campo di lavoro la regione era da poco uscita dal più lungo e cruento conflitto armato in America Latina – siamo nella seconda metà degli anni '90 – e vedremo come questo inciderà sul prodotto video e sul rapporto con questo strumento.
Tra le osservazioni che ci hanno colpito e che possono essere ricondotte in qualche modo anche alla nostra esperienza in Via Padova, c'è il sentore dell'antropologo che si rende conto, guardando alla società guatemalteca, di quanto la sua percezione/prospettiva sia confusa dall'appartenenza nazionale (viste le sue origini sudamericane) e dal suo status di straniero. Sebbene il rapporto sia diverso, in un caso abbiamo la nazionalità vs. la regione e dall'altro (nel caso ad esempio mio e di Alessandra) la cittadinanza/il domicilio vs. il quartiere, troviamo che il procedimento sia lo stesso, e cioè la possibilità di sentirsi “stranieri” in un determinato tessuto sociale, pur essendo a tutti gli effetti parte dell'organismo “città”. A maggior ragione il nostro caso è emblematico data la circoscrizione del territorio rispetto ad una nazione.
Carlos Y Flores ha collaborato a due produzioni video dei Maya-Q'eqchi, i quali a loro volta lavorano con l'ordine Benedettino della Chiesta Cattolica nella città di Cobàn; ci racconta di come si inserisce all'interno delle sessioni di ripresa nei villaggi intorno alla città e nota come, nonostante il team non sembrasse infastidito dalla sua presenza, indubbiamente i componenti fossero più riservati quando era in mezzo a loro con il suo quaderno degli appunti. Quello che colpisce l'antropologo durante le riprese è in primo luogo l'attenzione prestata dal team a quelle pratiche che sono state messe in risalto da buona parte della letteratura antropologica sulla Mesoamerica come “essenziali” per la civiltà Maya, quali le cerimonie relative alla raccolta di piante sacre (mais e fagioli), rituali sul ciclo-vitale, mitologie e riferimenti all'importante montagna Tzuultaq'a, anche se le cerimonie religiose filmate erano generalmente associate alle festività cattoliche e non Maya. Secondariamente appare strano il fatto che, nonostante molti componenti della troupe fossero stati nell'esercito e tracce di militarismo fossero apparentemente ovunque, nessuno sembrava interessato ad indagare questa dimensione politica relativa alla guerra civile. Infine il prodotto era in lingua spagnola, lingua difficilmente compresa dalla maggior parte dei membri della comunità. Questi punti parevano tutti indicare quale fosse il destinatario del girato finale, un destinatario esterno alla comunità e non la comunità stessa, come invece si presupponeva.
Dopo alcune settimane il team diventa consapevole della competenza in alcune produzioni televisive dell'antropologo e questo gli garantisce un coinvolgimento più ampio. Qui, a nostro avviso, cominciano i problemi dettati dal cosidetto “occhio culturale” e l'antropologo propone di sperimentare un riorientamento sugli oggetti indagati per produrre documentari di osservazione innanzitutto nella loro lingua e poi su quello che egli riteneva maggiormente “tradizionale” e “ancestrale”. Questo riposizionamento rispetto all'oggetto di ricerca, sebbene nel saggio venga identificato come il punto di partenza di un lavoro che coinvolgerà maggiormente i partecipanti e porterà anche alla richiesta di una seconda proposta visiva da parte di Ven de la Cruz, un missionario della Congregazione dell'immacolato cuore di Maria nell'area di Salawim, riteniamo invece che sia stata una forzatura rispetto a quelle che erano le reali prerogative dei Q'eqchi. Infatti, anche se il team si sentì maggiormente coinvolto dal nuovo indirizzo, si è seguito un oggetto di ricerca che parte da un punto di vista occidentale e che si focalizza sul tradizionale e l'ancestrale (sono proprio le parole che usa Flores) mentre il lavoro di partenza teneva conto, a livello inconscio magari, della commistione culturale e del contesto etnografico del qui ed ora, coincidente dunque con il contesto storico.
Flores nel secondo video richiesto dal missionario riesce ad affrontare il tema della violenza militare e trova la compartecipazione dei leader della comunità di Sahakok; ci domandiamo se questo sarebbe comunque avvenuto senza la “spinta” di Flores. Un'altra avvisaglia a sostegno di questa nostra tesi è il fatto che nel momento del montaggio del primo video, il team abbia perso interesse ed entusiasmo, la deduzione è che produrre un film per i Q'eqchi', avesse a che vedere più col processo, come tecnica della modernità, che col prodotto finale.
La conclusione di Flores comunque è che l'approccio visuale abbia permesso l'emergere di un discorso sulla memoria e la possibilità di affrontare un recente passato traumatico.
Una conclusione che invece possiamo trarre noi, anche rispetto al lavoro su Via Padova, alla luce delle nostre opinabilissime considerazioni, è che è importante lasciar emergere lo sguardo interno alla realtà che stiamo indagando senza condizionamenti e senza curarci troppo del prodotto finale, cioè dare più importanza al procedimento, e crediamo sia quello che stiamo imparando a fare.
Collaborative Video Experience among Maya Film-makers in Post-war Guatemala.
L'antropologo Carlos Y. Flores ha portato avanti una collaborazione improntata alla produzione video tra i Q'eqchi, una comunità Maya dell'Alta Verapaz in Guatemala. Durante questo suo campo di lavoro la regione era da poco uscita dal più lungo e cruento conflitto armato in America Latina – siamo nella seconda metà degli anni '90 – e vedremo come questo inciderà sul prodotto video e sul rapporto con questo strumento.
Tra le osservazioni che ci hanno colpito e che possono essere ricondotte in qualche modo anche alla nostra esperienza in Via Padova, c'è il sentore dell'antropologo che si rende conto, guardando alla società guatemalteca, di quanto la sua percezione/prospettiva sia confusa dall'appartenenza nazionale (viste le sue origini sudamericane) e dal suo status di straniero. Sebbene il rapporto sia diverso, in un caso abbiamo la nazionalità vs. la regione e dall'altro (nel caso ad esempio mio e di Alessandra) la cittadinanza/il domicilio vs. il quartiere, troviamo che il procedimento sia lo stesso, e cioè la possibilità di sentirsi “stranieri” in un determinato tessuto sociale, pur essendo a tutti gli effetti parte dell'organismo “città”. A maggior ragione il nostro caso è emblematico data la circoscrizione del territorio rispetto ad una nazione.
Carlos Y Flores ha collaborato a due produzioni video dei Maya-Q'eqchi, i quali a loro volta lavorano con l'ordine Benedettino della Chiesta Cattolica nella città di Cobàn; ci racconta di come si inserisce all'interno delle sessioni di ripresa nei villaggi intorno alla città e nota come, nonostante il team non sembrasse infastidito dalla sua presenza, indubbiamente i componenti fossero più riservati quando era in mezzo a loro con il suo quaderno degli appunti. Quello che colpisce l'antropologo durante le riprese è in primo luogo l'attenzione prestata dal team a quelle pratiche che sono state messe in risalto da buona parte della letteratura antropologica sulla Mesoamerica come “essenziali” per la civiltà Maya, quali le cerimonie relative alla raccolta di piante sacre (mais e fagioli), rituali sul ciclo-vitale, mitologie e riferimenti all'importante montagna Tzuultaq'a, anche se le cerimonie religiose filmate erano generalmente associate alle festività cattoliche e non Maya. Secondariamente appare strano il fatto che, nonostante molti componenti della troupe fossero stati nell'esercito e tracce di militarismo fossero apparentemente ovunque, nessuno sembrava interessato ad indagare questa dimensione politica relativa alla guerra civile. Infine il prodotto era in lingua spagnola, lingua difficilmente compresa dalla maggior parte dei membri della comunità. Questi punti parevano tutti indicare quale fosse il destinatario del girato finale, un destinatario esterno alla comunità e non la comunità stessa, come invece si presupponeva.
Dopo alcune settimane il team diventa consapevole della competenza in alcune produzioni televisive dell'antropologo e questo gli garantisce un coinvolgimento più ampio. Qui, a nostro avviso, cominciano i problemi dettati dal cosidetto “occhio culturale” e l'antropologo propone di sperimentare un riorientamento sugli oggetti indagati per produrre documentari di osservazione innanzitutto nella loro lingua e poi su quello che egli riteneva maggiormente “tradizionale” e “ancestrale”. Questo riposizionamento rispetto all'oggetto di ricerca, sebbene nel saggio venga identificato come il punto di partenza di un lavoro che coinvolgerà maggiormente i partecipanti e porterà anche alla richiesta di una seconda proposta visiva da parte di Ven de la Cruz, un missionario della Congregazione dell'immacolato cuore di Maria nell'area di Salawim, riteniamo invece che sia stata una forzatura rispetto a quelle che erano le reali prerogative dei Q'eqchi. Infatti, anche se il team si sentì maggiormente coinvolto dal nuovo indirizzo, si è seguito un oggetto di ricerca che parte da un punto di vista occidentale e che si focalizza sul tradizionale e l'ancestrale (sono proprio le parole che usa Flores) mentre il lavoro di partenza teneva conto, a livello inconscio magari, della commistione culturale e del contesto etnografico del qui ed ora, coincidente dunque con il contesto storico.
Flores nel secondo video richiesto dal missionario riesce ad affrontare il tema della violenza militare e trova la compartecipazione dei leader della comunità di Sahakok; ci domandiamo se questo sarebbe comunque avvenuto senza la “spinta” di Flores. Un'altra avvisaglia a sostegno di questa nostra tesi è il fatto che nel momento del montaggio del primo video, il team abbia perso interesse ed entusiasmo, la deduzione è che produrre un film per i Q'eqchi', avesse a che vedere più col processo, come tecnica della modernità, che col prodotto finale.
La conclusione di Flores comunque è che l'approccio visuale abbia permesso l'emergere di un discorso sulla memoria e la possibilità di affrontare un recente passato traumatico.
Una conclusione che invece possiamo trarre noi, anche rispetto al lavoro su Via Padova, alla luce delle nostre opinabilissime considerazioni, è che è importante lasciar emergere lo sguardo interno alla realtà che stiamo indagando senza condizionamenti e senza curarci troppo del prodotto finale, cioè dare più importanza al procedimento, e crediamo sia quello che stiamo imparando a fare.
22 giugno 2011
aggiornamento laboratorio
Ciao a tutti,
ecco un piccolo aggiornamento dei lavori in corso e del materiale teorico distribuito a lezione e via email:
gruppo a: video esplorazione del contesto + video interviste aperte a interlocutori privilegiati (da definire)
gruppo b: video intervista alla presidentessa dell'associazione mowgli + raccolta di materiale audio video da loro prodotto + partecipazione/videoregistrazione ad una visita guidata
gruppo c: videoregistrazione focus group al comitato stranieri + individuazione di soggetti interessati ad accompagnare il gruppo nell'esplorazione del contesto + eventuale raccolta di materiale audiovideo disponibile presso la sede dove si è svolto il focus group
Materiali pratico teorici distribuiti:
- schema progettuale (dalla teoria alla pratica) tratto dall'articolo di Dianne Stadhams "look to learn"
- sintesi dell'applicazione dei focus group alla ricerca sociale tratto dal testo "i focus group nella ricerca sociale", A.A.V.V., + piano d'azione dettagliato della conduzione del focus group con relativi esercizi di focalizzazione e di graduazione individuati ai fini progettuali
Giovedi ci confronteremo sull'andamento dei lavori di gruppo, acquisiremo i file audiovideo relativi e inizieremo a montare i lavori cercando di iniziare ad organizzarli come rappresentazioni audiovisive unitarie delle vostre microetnografie (extra del documentario sull'orchestra di via Padova)
per ora un caro saluto
sara
ecco un piccolo aggiornamento dei lavori in corso e del materiale teorico distribuito a lezione e via email:
gruppo a: video esplorazione del contesto + video interviste aperte a interlocutori privilegiati (da definire)
gruppo b: video intervista alla presidentessa dell'associazione mowgli + raccolta di materiale audio video da loro prodotto + partecipazione/videoregistrazione ad una visita guidata
gruppo c: videoregistrazione focus group al comitato stranieri + individuazione di soggetti interessati ad accompagnare il gruppo nell'esplorazione del contesto + eventuale raccolta di materiale audiovideo disponibile presso la sede dove si è svolto il focus group
Materiali pratico teorici distribuiti:
- schema progettuale (dalla teoria alla pratica) tratto dall'articolo di Dianne Stadhams "look to learn"
- sintesi dell'applicazione dei focus group alla ricerca sociale tratto dal testo "i focus group nella ricerca sociale", A.A.V.V., + piano d'azione dettagliato della conduzione del focus group con relativi esercizi di focalizzazione e di graduazione individuati ai fini progettuali
Giovedi ci confronteremo sull'andamento dei lavori di gruppo, acquisiremo i file audiovideo relativi e inizieremo a montare i lavori cercando di iniziare ad organizzarli come rappresentazioni audiovisive unitarie delle vostre microetnografie (extra del documentario sull'orchestra di via Padova)
per ora un caro saluto
sara
7 giugno 2011
sintesi esercitazione
Ciao a tutti,
ecco in sintesi le finalità dell'esercitazione che avete svolto nel contesto ad oggetto.
Esercitazione:
costruzione di una R audio – visiva
esplorazione di un contesto con il mezzo AV = strumento analitico per dare senso e siginificato all’esperienza. Il processo filmico diviene parte integrante dell’analisi tenendo presente che una delle modalità per entrare in comunicazione con il contesto è quella (per il fruitore) di entrare e seguire nel vivo l’esplorazione.
Vedere/guardare
Vedere: attività selettiva, intenzionale, un’investimento di senso. Guardare attraverso una camera è guardare con uno scopo e lasciare una traccia di questo processo nelle immagini risultanti: livello di consapevolezza dell’intenzionalità conoscitiva.
La questione che dovete porvi è in primo luogo la seguente: In che modo l’intenzionalità è resa visibile nel lavoro che avete svolto ed emerge in esso?
Nella presentazione e nell'introduzione teorica all'esercitazione ci siamo soffermati sulla questione dei punti di vista che il cinema ha contribuito a porre allo sguardo novecentesco (Francesco Casetti: l'occhio del novencento) sottolineando così la rilevanza del medium nei termini dei processi culturali coevi.
E' un tema che, come ha osservato Casetti, emerge nel cinema fin da subito a causa soprattutto di un elemento tecnico di base = la superfice della pellicola impressionata è più ristretta della porzione di realtà che entra nel nostro campo visivo (sagomazione rettangolare del fotogramma).
Casetti si sofferma su H. James. ecco i miei appunti sulle parti del testo citato che ci interessano:
Henry james, scrittore e critico letteratio USA tra gli ultimi decenni dell’800 e i primi del novecento analizza quello che sarà un tema importante della modernità: l’utilizzo del punto di vista
L’idea di James era quella di una prospettiva ristretta (metafora della narrazione come edificio dalle infinite finistre).
James suggerisce e a sua volta si impegna nella narrazione di una vicenda come se essa passasse attraverso gli occhi (o coscienza) di un personaggio.
Le motivazioni differenti che lo spingono: necessità di trovare un centro alla narrazione che dia coerenza e intelligibilità al racconto e anche il bisogno di intensificare quest’ultimo.
sulla base di questa scelta il raccontare diventa l’offrire il resoconto dell’impressione che di una vicenda ha avuto un testimone oculare interno alla storia, che si muove concretamente all’interno di questa.
Sintesi lezione jamesiana
Ogni racconto implica uno sguardo, questo sguardo è legato a un punto di vista, un punto preciso da cui si vede, il punto di vista coincide con la presenza di un osservatore e al tempo stesso evidenzia le condizioni dell’osservazione, esso è cioè il LOCUS in cui lo sguardo si incarna in un soggetto scopico e si situa in un complesso di circostanze. Si tratta quindi di uno sguardo mondano, incarnato e situato. Lo sguardo scopre i propri limiti /possibilità (dialettica di E.Morin tra vincoli e possibilità)
Lo sguardo:
Risponde a un soggetto (prima che alla realtà)
Opera prelievi parziali (apprensione totale)
agisce nell’attimo (non fuori dal tempo)
Film proposti per la visione: Rashomon di Kurosawa e Le gloice a trois faces di Epstein
ora si tratta di:
1. analizzare i vs girati e di agire riflessivamente su di essi individuandone le parti più significative
2. scegliere uno o più interlocutori significativi nel tentativo di accedere al suo/loro sguardo (punto di vista) nel/sul contesto
3. interagire con i soggetti proponendo loro - previo colloquio/intervista - di costruire insieme un percorso( passeggiata) nel contesto ad oggetto
4. riprese passeggiata
il montato costiuirà la sintesi di queste 5 fasi (la prima è l'esercitazione/esplorazione)
un caro saluto
sara
ecco in sintesi le finalità dell'esercitazione che avete svolto nel contesto ad oggetto.
Esercitazione:
costruzione di una R audio – visiva
esplorazione di un contesto con il mezzo AV = strumento analitico per dare senso e siginificato all’esperienza. Il processo filmico diviene parte integrante dell’analisi tenendo presente che una delle modalità per entrare in comunicazione con il contesto è quella (per il fruitore) di entrare e seguire nel vivo l’esplorazione.
Vedere/guardare
Vedere: attività selettiva, intenzionale, un’investimento di senso. Guardare attraverso una camera è guardare con uno scopo e lasciare una traccia di questo processo nelle immagini risultanti: livello di consapevolezza dell’intenzionalità conoscitiva.
La questione che dovete porvi è in primo luogo la seguente: In che modo l’intenzionalità è resa visibile nel lavoro che avete svolto ed emerge in esso?
Nella presentazione e nell'introduzione teorica all'esercitazione ci siamo soffermati sulla questione dei punti di vista che il cinema ha contribuito a porre allo sguardo novecentesco (Francesco Casetti: l'occhio del novencento) sottolineando così la rilevanza del medium nei termini dei processi culturali coevi.
E' un tema che, come ha osservato Casetti, emerge nel cinema fin da subito a causa soprattutto di un elemento tecnico di base = la superfice della pellicola impressionata è più ristretta della porzione di realtà che entra nel nostro campo visivo (sagomazione rettangolare del fotogramma).
Casetti si sofferma su H. James. ecco i miei appunti sulle parti del testo citato che ci interessano:
Henry james, scrittore e critico letteratio USA tra gli ultimi decenni dell’800 e i primi del novecento analizza quello che sarà un tema importante della modernità: l’utilizzo del punto di vista
L’idea di James era quella di una prospettiva ristretta (metafora della narrazione come edificio dalle infinite finistre).
James suggerisce e a sua volta si impegna nella narrazione di una vicenda come se essa passasse attraverso gli occhi (o coscienza) di un personaggio.
Le motivazioni differenti che lo spingono: necessità di trovare un centro alla narrazione che dia coerenza e intelligibilità al racconto e anche il bisogno di intensificare quest’ultimo.
sulla base di questa scelta il raccontare diventa l’offrire il resoconto dell’impressione che di una vicenda ha avuto un testimone oculare interno alla storia, che si muove concretamente all’interno di questa.
Sintesi lezione jamesiana
Ogni racconto implica uno sguardo, questo sguardo è legato a un punto di vista, un punto preciso da cui si vede, il punto di vista coincide con la presenza di un osservatore e al tempo stesso evidenzia le condizioni dell’osservazione, esso è cioè il LOCUS in cui lo sguardo si incarna in un soggetto scopico e si situa in un complesso di circostanze. Si tratta quindi di uno sguardo mondano, incarnato e situato. Lo sguardo scopre i propri limiti /possibilità (dialettica di E.Morin tra vincoli e possibilità)
Lo sguardo:
Risponde a un soggetto (prima che alla realtà)
Opera prelievi parziali (apprensione totale)
agisce nell’attimo (non fuori dal tempo)
Film proposti per la visione: Rashomon di Kurosawa e Le gloice a trois faces di Epstein
ora si tratta di:
1. analizzare i vs girati e di agire riflessivamente su di essi individuandone le parti più significative
2. scegliere uno o più interlocutori significativi nel tentativo di accedere al suo/loro sguardo (punto di vista) nel/sul contesto
3. interagire con i soggetti proponendo loro - previo colloquio/intervista - di costruire insieme un percorso( passeggiata) nel contesto ad oggetto
4. riprese passeggiata
il montato costiuirà la sintesi di queste 5 fasi (la prima è l'esercitazione/esplorazione)
un caro saluto
sara
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