28 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO. (Bill Nichols).

Capitolo 8: Come si può scrivere efficacemente sul documentario?

In questo ultimo capitolo, Nichols cerca di affrontare una questione spesso ai margini dei documentari stessi, la stesura di un’analisi critica. Prenderà come esempio l’analisi del film Nanuk l’eschimese, sintetizzato in circa 500-750 parole
.
Il primo passo – dice – è la preparazione (p.174). bisogna per prima cosa vedere il film, ma ancora meglio rivederlo più volte; soltanto dopo questo processo ripetuto si possono mettere in moto una serie di domande che ci consentono di analizzare più approfonditamente il video. Possiamo chiederci: perché Flaherty inizia in questo modo? Cosa intende fare nel resto del film? Perché termina in quella maniera? Ecc… A partire da queste domande e da molte altre, è possibile costruirsi un’idea su come Flaherty abbia immaginato il suo documentario. È importante prendere appunti durante la visione del film per avere il materiale su cui basare la propria indagine. Gli appunti possono comprendere: 

·         l’ordine cronologico delle scene;
·         i tipi di inquadratura;
·         le tecniche di montaggio;
·         i testi parlati o scritti;
·         le tecniche retoriche;
·         le modalità rappresentative;
·         altre qualità particolari (quanto influisce la presenza del regista, ecc.).

L’operazione della presa di appunti è molto selettiva; alcune parti possono essere tralasciate per focalizzare l’attenzione su altre. Con esse mettiamo in evidenza quali sono i nostri punti di maggior interesse. Ogni spettatore infatti ha una forte reazione nei confronti del video, su cui si basano le riflessioni di ciascuno. Due sono i modi per trattare un film nella scrittura: la recensione e il saggio critico. Per distinguerli possiamo dire che l’una è pensata per chi non ha ancora visto il video, l’altro per un pubblico che l’ha già visionato e ne vuole un’analisi approfondita. Concentrandosi sul secondo punto, nel processo di scrittura è più importante sostenere un’opinione sul film, basandosi sulle scene, piuttosto che descrivere e riassumere la trama. Bisogna pertanto argomentare quanto si ritiene valido. Bisogna spiegare perché si crede che un film sia ben fatto: innanzitutto che cosa Flaherty ha mostrato e come lo ha fatto.


Nichols suppone una coppia di studenti che tentano di affrontare da un punto di vista critico il documentario. Sarebbe riduttivo limitarsi ad un giudizio sul modello “mi è piaciuto”, “non mi è piaciuto”. Per svolgere un’analisi approfondita gli studenti devono considerare una tesi riguardo al film, sostenuta da alcune considerazioni estrapolate dalla rappresentazione stessa o dalla bibliografia di settore. Nelle pagine 178 e 179 riporta due esempi possibili di analisi del documentario. Essi, allontanandosi dalla mera opinione, si concentrano sulla storia del film e del regista e meno su quella della critica. Il film di Flaherty, come dimostra Nichols, può essere visto sotto molti punti di vista, ciò rende l’analisi piuttosto soggettiva. Questo fatto tuttavia non è limitante, al contrario, presuppone modi differenti di comprensione del “testo” filmico che Flaherty stesso può non aver considerato. 

27 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO. (Bill Nichols).

Capitolo 7: In che modo i documentari affrontano le questioni sociali e politiche?

Il documentario, parlando di persone, si è trovato a fare i conti con la loro rappresentazione. Innanzitutto si sono poste questioni etiche, in parte affrontate dall’autore nel primo capitolo, che hanno messo in gioco la presenza multi localizzata di finalità e scopi differenti. Tuttavia, anche la narrazione di una situazione può spesso determinare il paragone fra le persone e banali stereotipi. Brian Winston criticò duramente i documentari inglesi degli anni trenta, poiché secondo lui, volendo rappresentare la classe operaia come una vittima, preclusero allo spettatore la possibilità di vederne il cambiamento. “L’operaio sarebbe stato messo al centro del soggetto documentaristico, anonimo e patetico, e il regista di documentari di tradizione vittimistica sarebbe stato un “artista” tanto quanto ogni altro regista” (cit. p. 146, tratta da The tradition of the Victim in Griersonian Documentary, di Alan Rosenthal, p.274). La questione che il documentario non possa risolvere le problematiche sociali che mette in campo e tuttavia ne promuove un tentativo, richiama quella dell’impegno politico. Nichols, a questo punto, prende in considerazione alcuni film che si posso dire eminentemente politici, ovvero il cui scopo è un problema sociale.

Uno dei problemi trattati nei documentari è la costruzione dell’identità nazionale (questione molto complessa, peraltro affrontata criticamente da numerosi antropologi). Essa rappresenta il senso di “comunità”, l’appartenenza a un gruppo che si ritiene unito da fattori culturali e organici, dove però non sono rintracciate le questioni ideologiche che concorrono al mantenimento di tali finzioni. Le ideologie subentrano per creare storie, immagini e miti che forniscano delle prove concrete e sicure per mantenere la società “fissa” entro certi canoni. Tuttavia, in contesti differenti, le persone instaurano rapporti differenti. Questo tipo di relazioni scatenano comportamenti eterogenei che si basano sulle ideologie. Molti documentari si interessarono delle rivoluzioni, i primi furono quelli che presero in considerazione quella russa. Il Kinopravda di Vertov ha contribuito alla costruzione di una nuova società. Ritenendo la macchina da presa uno degli strumenti della tecnica più innovativi, dal suo punto di vista artistico ne vedeva lo strumento in grado di consentire la sperimentazione e la rappresentazione di nuove forme. Alla fine degli anni trenta Vertov perse il sostegno finanziario dello stato. Al contrario in quegli anni, Grierson riuscì a convincere il governo britannico ad utilizzare la forma artistica del film-documentario per trasmettere alla nazione un senso di identità ed appartenenza. Sostenne il potere migliorativo della democrazia parlamentare e l’intervento del governo per risolvere i problemi più urgenti e le ingiustizie più gravi all’interno del sistema sociale (p.153).

Spesso i film si opposero alle politiche governative e industriali, negli Stati Uniti, ad esempio negli anni venti e trenta alcune società cinematografiche e fotografiche operaie documentarono gli scioperi e diedero voce agli argomenti importanti della classe operaia. Con la modalità partecipativa, si immedesimavano nel gruppo che volevano rappresentare. Ivens e Stork, non collaborarono né con il governo né con la polizia, ma con le stesse persone la cui miseria non era stata ancora né affrontata né eliminata dalle istituzioni (p.156). Molti dei primi film etnografici sono stati prodotti con lo specifico scopo di sensibilizzare la coscienza nazionale basandosi su esperienze lontane che in un certo senso richiamavano quelle locali. Altri invece, molto più tardi, identificarono tali esperienze nel loro carattere riduttivo e generalizzante. Esiste infatti una controtendenza nell’atteggiamento delle persone, pur essendoci un cultura dominante che “impone” alcuni canoni, soggiacciono sotto-culture che mantengono “intatte” le caratteristiche culturali di gruppi in esilio o nella diaspora. Gli anni sessanta e settanta hanno rappresentato la storia a partire dal basso, ovvero tenendo in considerazione le persone che rimangono ai margini della società. Un esempio è il gruppo di registi che negli Stati Uniti formò il Newsreel. Questo gruppo ha prodotto molti film dal 1967, focalizzando la propria attenzione sulla guerra in Vietnam, sulla resistenza alla leva, gli scioperi universitari, i movimenti di liberazione nazionale in tutto il mondo e i movimenti femministi (p.158).

Questi documentari “militanti” si interessarono anche ad altri problemi sociali, connessi soprattutto alla costruzione dell’identità. The Woman’s film ha dato inizio a quel processo, focalizzandosi sui primi movimenti femministi. Non solo, i primi film iniziarono ad interessarsi di categorie emarginate come quella degli omosessuali e delle lesbiche. In questo caso sono presi in considerazione gruppi di persone oppresse dalla cultura dominante, che tuttavia determinano un proprio margine d’azione nella collettività. Nel film Word Is Out (1977) sono presenti interviste rivolte a gruppi gay e lesbici che affrontano il problema della scoperta della sessualità nelle persone. Un’altra prospettiva storica sull’esperienza omosessuale è presa dal film di Greta Schiller, John Scagliotti e Robert Rosenberg Before stonewall: the making of a gay and lesbian community (1984).

La voce politica del documentario, oltre che affrontare l’identità culturale di un gruppo dominante, deve prendere in considerazione quelle ibride, che con la loro natura mutevole, vengono difficilmente catalogate in un unico modo. Tuttavia, nel momento in cui cercano di fissare queste identità in alcuni punti chiave, pur creando un orgoglio di gruppo, tendono a produrre un falso senso di sicurezza o di permanenza. Esiste, e gli antropologi lo sanno bene, un fattore di mescolanza che si presenta nella diaspora e che consente il cambiamento offuscando la nitidezza dei contorni di una politica di identità. Questi confini fluidi, che non possono essere categorizzati in identità chiare, sono presi a loro volta come oggetto di analisi da parte dei documentari. Con un film in stile riflessivo, Chris Marker esamina l’esperienza dello spostamento e dello straniamento in Sans Soleil (1982).

Nichols, a conclusione del suo capitolo, afferma che tutti e sei i tipi di film documentario, nel momento in cui mettono in mostra una voce politica, intendono rappresentare le questioni sociali o i ritratti personali. Il primo tipo può essere associato alla modalità descrittiva e narrativa, mentre il secondo a quella osservativa e partecipativa, nonché ai dibattiti contemporanei sulla politica d’identità. Gli uni affrontano questioni sociali da un punto di vista collettivo, gli altri da un punto di vista personale.


La maggior parte dei film-documentario affronta tematiche politicamente impegnate. In questo senso, attraverso il video vengono comunicate impressioni che favoriscono l’approccio critico del pubblico nei confronti del soggetto rappresentato. Il documentario deve far riflettere, ma soprattutto trasmettere una visione della realtà nelle sue componenti più eterogenee. 

23 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO. (Bill Nichols).

Capitolo 6: Quali tipi di documentario ci sono?

Nel secondo capitolo, Nichols identificava sei modalità per definire i documentari. Infatti, la vasta produzione cinematografica ha generato numerosi stili da cui sono sorti tipi di film di rappresentazione sociale differenti. Sulla base di determinate caratteristiche si cercherà di riprenderle una ad una. L’ordine in cui verranno presentate dall’autore sarà quello cronologico.

La modalità poetica smantella le convenzioni del montaggio in continuità e la collocazione in una dimensione spazio-temporale specifica, privilegiando le associazioni e i motivi che riguardano i ritmi del tempo e le giustapposizioni dello spazio. Questo tipo di approccio ha permesso ai documentari di affrontare determinati argomenti da punti di vista alternativi. Sottolinea pertanto un’impressione e uno specifico tono comunicativo. Il film di Jean Mitry, Pacific 231 (1944), ad esempio, fa uso di una rievocazione poetica per rappresentare la velocità di una locomotiva, mettendo in risalto non tanto l’oggetto quanto il suo ritmo e la sua forma. La modalità poetica è nata con il modernismo come metodo di rappresentazione della realtà attraverso un insieme di frammenti, impressioni soggettive, azioni incoerenti o libere associazioni. A seguito della prima guerra mondiale, dopo l’abbattimento del sentimento positivista ereditato dal XIX secolo, la cultura occidentale si trovò a fare i conti con problematiche difficilmente risolvibili. Da questo clima di sconforto e incertezze il documentario e il film hanno ereditato prospettive multiple. La frantumazione e l’ambiguità restano le caratteristiche principali di molti documentari poetici.

La modalità descrittiva, al contrario, riprende temi argomentativi e unitari, cercando di rendere più omogeneo il contenuto di una rappresentazione frantumata. Si rivolge direttamente al pubblico proponendo un argomento o narrando una storia. I film descrittivi fanno spesso uso del commento fuori campo oppure di una voce autorevole presente sulla scena (come nei telegiornali). Utilizzano spesso una logica informativa che viene comunicata attraverso la parola. Le immagini sostengono quanto il narratore sta dicendo, illustrandolo, descrivendolo, specificandolo ed esemplificandolo. Il commento perciò ha lo scopo di dare un senso alle immagini, rappresenta il punto di vista del documentario, che è veicolato per lo spettatore. Il film descrittivo rende più facile generalizzare e discutere in senso lato.  

La modalità osservativa, porta il regista a rappresentare la realtà semplicemente come può osservarla attraverso la telecamera, ovverosia con “spontaneità”. L’intento di restare fedele alla rappresentazione dell’oggetto porta alla produzione di film privi di commento fuori campo, senza musica aggiunta o effetti sonori, senza intertitoli né ricostruzioni storiche, senza ripetizioni di scene per la cinepresa e addirittura senza interviste (p.116). l’aspetto di questi filmati ricorda quello dei neorealisti italiani. L’attenzione privilegiata agli attori sociali porta a ritenere che il carattere e le scelte di ciascun soggetto presente nella ripresa siano fondamentali per rappresentare un tipo di osservazione. Il pubblico è portato a giudicare ciò che vede, basandosi sul comportamento delle persone che osserva. Questo atteggiamento, che pone il regista al di fuori della scena in un modo quasi distaccato, rimette in gioco questioni etiche legate alla legittimità di ripresa e rappresentazione. Allo stesso tempo, la presenza del regista può far sorgere delle problematiche connesse alla sua invadenza implicita o indiretta. Le persone tendono a comportarsi nel modo che ritengono il regista voglia osservare, soprattutto per quanto riguarda i documentari etnografici. (Problema peraltro che si pone nella stessa ricerca antropologica). La presenza della telecamera sulla scena, nel bene e nel male, tenta di rappresentare la realtà nel modo più autentico possibile. Il prodotto finale conferma questo atteggiamento, poiché le inquadrature e le scelte di montaggio ci consentono di ritenere che quelle azioni siano il più verosimili possibile; in realtà la rappresentazione cela l’aspetto costruttivo del film, le negoziazioni tra regista e soggetti ripresi, per ottenere un risultato ben definito.

Il metodo antropologico della partecipazione agli eventi di un dato gruppo per studiarne le caratteristiche è spesso stato ripreso dalla filmografia documentaristica con la modalità partecipativa. Come gli antropologi i registi fanno ricerche sul campo: in questo senso, il documentario partecipativo ci dà un senso di cosa voglia dire, per il regista, essere in una data situazione, e come essa subisca modificazioni a causa della sua presenza (p.122). Il regista pertanto abbandona il commento fuori campo, si allontana dalla meditazione poetica e cerca di immedesimarsi nella situazione in cui si trovano i suoi attori sociali. La presenza fisica pone il regista sulla e nella scena. Lo spettatore non si aspetta più semplicemente un punto di vista, ma osserva la relazione regista-soggetto rappresentato come un tutt’uno, ovvero parte di una medesima rappresentazione. Tuttavia, non tutti i documentari sottolineano l’interazione tra il regista e il soggetto. Può essere presa in considerazione una questione più ampia, fondata sull’aspetto storico, attraverso l’utilizzo di interviste. Il dialogo tra i due soggetti permette l’eliminazione del commento fuori campo, focalizzando l’attenzione sull’interazione sociale. Questi brevi spunti ci consentono di identificare due modalità partecipative: 1) la rappresentazione del mondo circostante dal punto di vista del regista; 2) quella basata su fatti storici o interviste, per sostenere ed analizzare una questione sociale.

Con la modalità riflessiva il regista si mette in relazione con il pubblico. Si attua perciò un’osservazione di come rappresentiamo il mondo oltre che a cosa viene rappresentato. Questo tipo di documentario ci chiede di guardarlo per ciò che è: una rappresentazione ricostruita (p.131). Una delle questioni più a cuore di questo tipo di film è la domanda: “cosa dobbiamo fare delle persone?”. Questa è stata analizzata e posta al centro dell’attenzione in film come Reassemblage (1982), Daughter Rite (1978), Bontoc Eulogy (1995) e Far from Poland (1984). Il primo infrange le convenzioni realistiche dell’etnografia, per criticare il modo con cui la telecamera rappresenta gli altri. Il secondo, si allontana dall’uso degli attori sociali per inserire attori professionisti (sotto cui si cela la vera voce dei soggetti intervistati). Nel terzo il regista narra la storia della sua famiglia e in particolare di suo nonno, portato via dalle Filippine per rappresentare la vita dei filippini alla fiera di S. Louis del 1904. Infine Far from Poland si rivolge direttamente allo spettatore per riflettere sui problemi di rappresentare il movimento Solidarnosc.  I documentari riflessivi affrontano anche la questione del realismo, mettendo in discussione i suoi tre punti principali (fisico, psicologico ed emotivo). La modalità riflessiva inoltre è quella che mette maggiormente in discussione sé stessa. Nella forma riuscita, trasmette allo spettatore la sensazione di come il film sia un costrutto nato per raggiungere determinati scopi, e, grazie a questo tipo di analisi, rivalutare i pregiudizi sull’oggetto in questione. Agisce pertanto da un punto di vista formale e politico. Entrambi si basano sulla capacità di produrre specifiche reazioni nel pubblico.

La modalità rappresentativa si pone delle domande come: che cos’è la conoscenza? Che cos’è la comprensione? La conoscenza viene affrontata da un punto di vista soggettivo. Ciascuna persona, basandosi sulle proprie esperienze vissute, percepirà un oggetto o un tema in modo differente. Ovvero nel momento in cui andremo a seguire un documentario ci porteremo dietro il bagaglio di strumenti che la società ci ha messo in mano: la struttura istituzionale (i governi, la religione, la famiglia e il matrimonio) e i concetti sociali specifici (amore e guerra, competizione e cooperazione). Questi film cercano di incoraggiarci a guardarli coinvolgendoci personalmente.


Evidentemente, tutte queste modalità non devono essere prese come scatole chiuse o limitate alla propria sfera d’azione. Molto spesso nella produzione di un documentario possono interagire le une con le altre determinando esiti particolari e a volte innovativi. 

22 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO. (Bill Nichols).

Capitolo 5: Com’è nata la filmografia documentaristica?


La filmografia documentaristica è stata condizionata da esperimenti occorsi nel tempo. La sua nascita, avvenuta in modo furtivo, è stata dettata dalla volontà di alcuni registi di comprendere le conseguenze di alcuni fatti realmente accaduti. I primi documentaristi si interessavano soprattutto ad esplorare i limiti del cinema, per scoprire e provare nuove forme tecniche di realizzazione.

Il documentario sorse dalla volontà di rappresentare l’aspetto visibile delle cose; pertanto la sua capacità di registrazione del vissuto quotidiano si identificava con l’ “autentica” rappresentazione del reale. Tuttavia, il confine tra fiction e non-fiction non sempre è stato tracciato con precisione; nel documentario si è spesso posta la questione se affrontare il tema semplicemente da un punto di vista argomentativo o invece introdurvi parti più retoriche ed emotivamente coinvolgenti.

Il cinema ha stupito l’umanità, molto più della fotografia, poiché le immagini possedevano una straordinaria somiglianza con il loro oggetto. “Il senso di autenticità trasmessa dai video di Louis Lumière girati alla fine del XIX secolo con L’uscita dalle fabbriche Lumière, l’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat, l’innaffiatore innaffiato e il pasto del bambino, sembrano poco distanti dal documentario vero e proprio”(p.91). Questi film registravano la vita quotidiana come avveniva senza alcuna interferenza all’epoca di Lumière. Senza nessun tipo di abbellimento né montaggio, rappresentavano la scena come avveniva. Consiglio di visionare questi pochi minuti di girato: http://www.youtube.com/watch?v=cBQ9wAAW_zs. Dalla parte del regista ci si pongono due storie differenti: da un lato, la capacità della pellicola o della fotografia di riportare attraverso un processo fotomeccanico l’immagine dell’oggetto che hanno registrato; dall’altro, il desiderio dei primi produttori di indagare questa misteriosa capacità e sfruttarne i potenziali per creare un’opera d’arte. Il documentario nasce dalla volontà di rappresentare il reale, il più “realmente” possibile.

Ciò ha portato alla grande lucidità dell’opera Nanuk l’eschimese (1922) di Flaherty e alla pubblicità del nuovo genere documentaristico promossa da John Grierson, nonché alla sponsorizzazione negli anni trenta. Il documentario rappresentò la realtà alterandola; lo stesso lavoro di Flaherty mette in mostra una ripresa che potrebbe sembrare all’interno di un igloo, in verità Nanuk sta fingendo di essere nel suo igloo poiché quello che vediamo dall’inquadratura è una metà di igloo, costruita appositamente per rendere il set più luminoso. Il confine tra scienza e spettacolo viene così rivisto: tanto quanto Nanuk si comporta come se stesse vivendo nella sua vera abitazione, noi siamo spronati a ritenere che quello sia il modo autentico e più realistico di vivere di un eschimese. In breve, siamo portati a credere nella buona fede del regista.

Il cinema primitivo fu connotato da due caratteristiche essenziali: l’ostentazione e la documentazione. Prima di poter parlare di documentario, Nichols prende in considerazione altre tre direzioni differenti che il cinema prese in considerazione: la sperimentazione poetica, il racconto narrativo e l’oratoria retorica.
La sperimentazione poetica ebbe una presa maggiore sul cinema d’avanguardia fiorito negli anni venti. Con essa sorse la necessità di poter inserire il discorso del regista, consentendo un margine d’azione maggiore rispetto al semplice processo meccanico di registrazione. In ambito sovietico il montaggio fu visto come l’unico mezzo in grado di consentire al regista di far passare la propria visione artistica della realtà. In Francia invece veniva esaltato il lavoro di Jean Epstein, che si basava sulla tecnica della fotogenia, ovvero a ciò che l’immagine poteva trasmettere al di fuori del suo semplice contenuto rappresentativo.

Con il racconto narrativo, dopo la nascita della voce poetica, la presenza del regista si fece ancora più dominante. Grazie ad esso, il film univa lo stile alla costruzione di una trama specifica. Le impressioni del regista sul mondo reale e immaginato si mescolavano all’utilizzo di un certo stile. Per quanto riguarda il documentario, l’innovazione dei sistemi di narrazione (visiva e sonora) consentì nuovi strumenti in grado di agevolare la trasmissione di una o più opinioni. La narrativa fungeva da giusto compromesso per considerare la consequenzialità logica tra un evento e un altro (in un’ottica cronologica), la struttura problema/risoluzione, la possibilità di utilizzare forme di ritardo e la semplificazione della fase di montaggio. Il Neorealismo italiano, promosso da Rossellini, De Sica e Visconti, ha fornito utili strumenti al film documentario per rappresentare la vita quotidiana con semplicità e onestà; “non è, in effetti, una verità, ma uno stile”(p.100). Il termine realismo viene assimilato dal documentario in tre modi differenti: il realismo fotografico, che crea una sorta di realismo di luogo e tempo, con riprese in esterni, inquadrature semplici e il montaggio di continuità; il realismo psicologico, che vuole comunicare le condizioni interiori dei personaggi o degli attori sociali in modo plausibile e convincente; il realismo emotivo, che riguarda la creazione di uno stato emotivo appropriato per lo spettatore,  permettendogli di riconoscere alcuni tratti realistici di una dimensione che può aver vissuto (cfr. pp.100-01).

Con la retorica e l’oratoria, peraltro in parte già affrontate nei capitoli precedenti, il regista cercava di persuadere del valore di un dato punto di vista, indirizzando il pubblico ad un tipo di comportamento. Le immagini concorrono a sostenere questa impresa. Negli anni venti e trenta le rappresentazioni cinematografiche di autori come Victor Turin e Jean Vigo ci permettono di comprendere quanto la voce del film fosse orientata. Con il montaggio è venuta a formarsi la possibilità di trasmettere, attraverso contenuti frantumati, immagini non viste o difficili da cogliere ad occhio nudo, condizionando alcune impressioni sul soggetto ripreso piuttosto che altre.


Questi approcci ci consentono di affrontare la genesi del documentario, soprattutto per quanto riguarda la formazione dei diversi stili, nonché, come si vedrà con il prossimo capitolo, la classificazione dei tipi principali. 

21 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO. (Bill Nichols).

Capitolo 4: di che cosa parlano i documentari?

Proprio per il fatto che nel capitolo precedente Nichols diceva che il documentario “parla di”, è giunto il momento di comprendere quale possa essere il contenuto della sua storia. Per la precisione, è meglio utilizzare il plurale, poiché le storie narrate sono almeno tre: quella del regista, del film e del pubblico.

Nell’osservare il video comprendiamo che una storia riguarda come e perché il film è stato realizzato. Molti fattori, anche al di fuori del contenuto stesso, si intrecciano e determinano la produzione dell’opera. Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, per esempio, contiene sia l’ambizione del regista di creare un film dal grande impatto emotivo e per certi aspetti colossale sia il desiderio del partito nazista di costruire un’immagine di sé che rispecchiasse sentimenti positivi. Infine, anche lo spettatore concorre a determinare una storia del film, in base alle proprie aspettative e alle proprie esperienze passate. Spesso trova nell’opera ciò che vuole vedere e ne legge il contenuto alla luce delle sue impressioni o “pre-visioni”; va da sé che persone differenti coglieranno spunti differenti dal film. Spesso nei documentari etnografici sono presenti sacrifici di piccoli animali (polli o maiali), queste azioni possono creare repulsione in uno spettatore occidentale, non più avvezzo ad azioni di questo genere. Il film, in questo caso, ci parla anche degli spettatori, i quali mostrano questa specifica reazione. I documentari si fondano sulle nostre esperienze passate e grazie ad esse cercano di trasmetterci particolari sentimenti.

I concetti che veicolano tuttavia sono “invisibili”(cfr. p.74). Ad esempio non possiamo vedere il concetto “povertà”, ma ne possiamo percepire la rappresentazione: alcuni vedranno il dramma dei bambini di strada, altri la spazzatura e i vagabondi. La forza del documentario sta nel mostrare ai nostri sensi, attraverso la disposizione dei suoni e delle immagini, una rappresentazione meno sfuggevole possibile. Nel mostrare determinate immagini il regista parla di come vede una situazione e di quale può essere l’impressione che vuole trasmettere. John Huston nel suo film San Pietro non inserisce una voce fuori campo che annuncia “la guerra è un inferno” o “il soldato semplice paga con la sua vita ciò che i generali decidono”(p.74), ma lo trasmette attraverso le immagini. Il documentario si fonda sulla commistione tra concetti astratti e immagini selezionate, da ciò nasce una gestalt, ovvero un modo di trattare un argomento concettuale.

Attraverso il film, come Nichols diceva nei precedenti capitoli, siamo convinti, persuasi e predisposti nei confronti di un particolare punto di vista sul mondo che ci circonda. Attiva oltre la nostra coscienza estetica quella sociale, fondata su temi specifici che oltrepassano quelli semplicemente artistici; ritengo sia una sorta di “estetica militante” (questo termine non è presente in Nichols). Con la retorica e l’oratoria il film ci indirizza agli argomenti che tratta, spesso incorrendo nei tre tipi di problemi che furono affrontati già dalla disciplina classica. Innanzitutto emerge una sfera legislativa o deliberata: il film esorta il pubblico ad abbracciare un determinato modo d’agire. Le questioni politiche di rilievo sociale, come la guerra, il benessere, la conservazione, l’aborto, la sessualità, ecc… fanno parte di questa categoria. In secondo luogo, si può avere a che fare con la sfera giudiziaria o storica, accusando o difendendo azioni compiute in passato. Il regista vuole che attraverso il documentario lo spettatore sia spronato a valutare un problema, ad affrontare un certo numero di prove e alla fine trarne delle conseguenze, così che giustizia sia fatta. La storia, oltre ad avere carattere logico, mostra aspetti particolarmente oratori o se si vuole “emotivi”. In terzo luogo, la sfera apologetica o encomiastica fa riferimento alla lode o all’accusa di altre persone. Con questa particolare retorica, il regista può inserire le proprie impressioni che sostengono la tesi che va argomentando.

Molti dei concetti presi in considerazione nel film, tuttavia, non possono essere veicolati direttamente, ma necessitano di significati metaforici. L’amore, la guerra e la famiglia, sono tutti argomenti che una descrizione da dizionario non potrebbe cogliere appieno. I documentari “ci mostrano un modo per dire che la guerra è un inferno o le famiglie sono nidi di serpi o una gioia” (p.82). le metafore servono ad accostare questi concetti (ed altri ancora più astratti) a cose che inconsciamente li richiamano. Queste possono rafforzare le nostre definizioni dandone una connotazione, morale, sociale e politica. Ad esempio per rappresentare il successo, il film può mostrare un uomo che scala una montagna vera e propria, oppure una serie di cadaveri per dire che la guerra è un inferno. I documentari ci danno l’idea di come poter comprendere con categorie a noi familiari le esperienze vissute degli attori sociali, spesso anche molto distanti da noi. Essi ci trasportano con grande enfasi verso le questioni principali che hanno mosso la produzione stessa. In Padeniye dinastii Romanovykh (1927) Esther Shub delinea, attraverso il recupero di immagini d’archivio, uno scenario ambiguo, contro cui si pone criticamente. Nella sequenza di immagini viene mostrato un conte, pochi anni prima della rivoluzione russa, che sta prendendo il tè con sua moglie. All’uscita di scena dei due, subentra quella dei camerieri che sparecchiano il tavolo. Shub con queste immagini vuole mettere in evidenza chiare opposizioni: il piacere e il lavoro, la ricchezza e la povertà, l’eleganza e la necessità. In questo caso le immagini biasimano quel prodotto che era nato con l’intento di elogiare, proprio come un quadro campestre, i possedimenti e gli agi della nobiltà. 

I Film e i video documentari parlano di fatti sociali nell’intento di smuoverci. Affrontano spesso temi che sono mediati dalla istituzioni come la famiglia, la scelta sessuale, il conflitto sociale, la guerra, la nazionalità, l’etnia, la storia, ecc… affrontando una tra le storie possibili, mettono in campo alcune strategie in grado di persuadere, divenendo una tra le molteplici voci del dibattito. Basandosi su questo tipo di convenzioni, il regista può distaccarsi dalla definizione dei concetti per il senso comune e affrontare in modo distaccato l’argomento. Il documentario ci consiglia di riflettere sul mondo in cui viviamo e agire in un modo politicamente determinato. 

20 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO. (Bill Nichols). 


Capitolo 3: da dove prendono la voce i documentari?

Abbiamo visto che il documentario si interessa di temi specifici. Questa caratteristica ci permette di affrontare il tema della parola e della voce, anche se in un’accezione particolare non essendo il prodotto la registrazione di una conferenza.

I documentari, come dicevamo, rappresentano il mondo, dandone un punto di vista specifico. In questo senso, affrontano il soggetto della ripresa da una prospettiva particolare, divenendo una tra le voci possibili di un dibattito più esteso. La voce del film, pertanto, diviene il mezzo con cui questa speciale prospettiva può essere veicolata al pubblico. Essa cerca di presentare un caso o un argomento, di persuaderci e convincerci, è il modo con cui viene trasmesso il punto di vista del regista (il che implica la presenza celata della negoziazione con gli sponsor e i soggetti rappresentati), è correlata allo stile, poiché grazie ad esso i suoi argomenti possono trasformarsi ed essere presentati in un modo diverso a seconda si tratti di un documentario o una fiction. Il documentario, sostanzialmente, traduce la visione del mondo del regista in termini visivi, mentre al contrario nella fiction viene rappresentato un mondo fittizio e inventato.

Tuttavia, la voce del documentario non è soltanto ciò che viene detto a livello verbale. Ogni mezzo a disposizione del regista può parlare per convincere o rendere più avvincente il tema affrontato. La disposizione dei suoni e delle immagini sta a significare il modo multiforme e molto speciale di comunicare. Bisogna sapere quando tagliare, come montare, cosa contrapporre e cosa inquadrare, come comporre una ripresa (primo piano o campo lungo, inquadratura dal basso o dall’alto, illuminazione artificiale o naturale, colore o bianco e nero, fare una panoramica, zoomare avanti o indietro, fare un carrello o mantenere fissa l’inquadratura, ecc…); così anche per il suono sapere se registrare in sincrono con le immagini e se aggiungere in seguito ulteriori suoni (p.55). Insomma, tutte queste caratteristiche impongono delle scelte che il regista prepara a tavolino e che determineranno il “registro verbale” del documentario.

Tutte queste disposizioni ci consentono di comprendere quanto il documentario sia più o meno esplicito nel mostrare il proprio punto di vista sul soggetto analizzato. La forma di voce più esplicita è senza dubbio quella comunicata attraverso l’uso delle parole. Nel documentario, il commento ha un ruolo molto importante poiché si rivolge direttamente a noi (il pubblico), può essere molto chiaro oppure suggerire piuttosto che dichiarare apertamente. Il punto di vista diventa in questo modo implicito, nascosto fra le righe della rappresentazione.

«La voce del documentario è spesso quella dell’oratoria» (p.58). in questo modo, Nichols sottolinea la missione persuasiva del film di rappresentazione sociale, poiché attraverso un linguaggio specifico trasmette l’idea o le impressioni (ritenute valide) circa il tema affrontato, argomentando per persuadere il pubblico. Può utilizzare diversi mezzi: dalla ragione alla narrativa, dalla rievocazione alla poesia, dai documenti storici alle ipotesi di scenari futuri. Il linguaggio retorico procede seguendo il canone classico proposto da Cicerone, suddiviso in cinque sezioni: invenzione, disposizione, stile, memoria ed esposizione.

1)      Con invenzione si fa riferimento alla scoperta di prove che avvalorino l’argomentazione del regista. Le prove tuttavia non possono essere “scientifiche”, ma semplicemente soggette alle regole e alle convenzioni sociali del momento storico. Aristotele identificò due tipi di prove: quelle che fanno uso di fatti dalla validità indiscutibile (es: i testimoni, le confessioni, i documenti…); quelle che si basano sulle tecniche usate per dare l’impressione di efficacia e veridicità, prodotto dell’inventiva dell’oratore o, nel nostro caso, del regista. Questa prova “costruita” viene a sua volta suddivisa in tre punti fondamentali: A) la prova etica: ovvero la creazione di un’aura di credibilità sulla buona condotta e sull’osservanza morale. B) la prova emotiva: che, attraverso specifici stratagemmi, mette il pubblico nella condizione di commuoversi, ossia di disporsi secondo le volontà dell’oratore. C) la prova dimostrativa: la quale fa uso di un ragionamento o di una dimostrazione – spesso fittizi – per provare la veridicità di quanto sta dicendo. Il regista, affrontando temi che non possono essere dimostrati soltanto facendo uso della logica, deve essere credibile, convincente e coinvolgente.
2)    La disposizione fa riferimento all’ordine scelto dal regista per suddividere le parti del suo film. Pertanto, potrà essere identificata un’introduzione, un’elaborazione di cosa si tratterà e con quali criteri, un argomento diretto a sostegno di un particolare punto di vista, una confutazione che risponde alle obiezioni previste da parte degli oppositori, un riassunto del caso che convinca il pubblico e lo prepari a una determinata reazione (p.65.). Il potere del documentario sta nella capacità di unire le prove e le emozioni attraverso la selezione e la disposizione di suoni e immagini.
3)       Lo stile comprende l’uso di figure retoriche e codici grammaticali per raggiungere un tono specifico. Il documentario, come la fiction, ha degli elementi particolari che consentono di trasmettere una forma comunicativa, come ad esempio il diario o il saggio.
4)    La memoria era molto utile soprattutto per gli oratori che si accingevano a tenere un discorso pubblico. Disponendo le parti del discorso in luoghi famigliari, potevano recuperare ogni singola parte rendendo il discorso omogeneo. Nei film la questione si pone diversamente. Esso può essere la memoria in sé, ovvero è una rappresentazione esterna e visibile di ciò che è stato fatto e detto; in secondo luogo, la memoria entra in gioco nello spettatore nel momento in cui associa alle immagini presenti, poiché sensibilmente connesse, quelle passate.
5)     L’esposizione ha un’importanza fondamentale. L’eloquenza e il decoro, lungi dall’essere strumenti del passato, consentono di comprendere cosa funzioni e cosa no nel discorso. Permettono inoltre una maggiore chiarezza e forza nel richiamo emotivo, consente la compartecipazione del pubblico al discorso.


Il documentario, potendo seguire queste regole classiche, mette in evidenza un discorso più ampio di come le questioni trattate possano raggiungere il pubblico. In questo senso, il valore estetico concorre tanto quanto quello epistemologico a trasmettere un significato, nella fattispecie quello del regista, in quanto coordinatore delle voci promosse nel film. 

19 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO.

Capitolo 2: in che modo i documentari sono diversi dagli altri tipi di film?

Nichols, a questo punto della sua indagine, si trova a fare i conti con la definizione di documentario. Operazione che si presenta piuttosto complessa, poiché questo particolare tipo di video acquista significato in relazione ai suoi opposti (film di finzione, sperimentale o d’avanguardia).

La difficoltà si fonda sul fatto che il documentario non riproduce il mondo in cui viviamo, ma ne rappresenta alcuni tratti piuttosto che altri, evidenziandone in questo senso le specifiche qualità che pongono in relazione il regista e lo spettatore. Il film di rappresentazione sociale può essere definito “concetto misto” (p.31). Tuttavia, non tutti i documentari, pur appartenendo alla medesima categoria, sono uguali (nel procedere del testo saranno affrontate numerose tecniche di produzione). Una definizione esaustiva, che fissi in un’unica categoria il significato di documentario, non è raggiungibile e soprattutto sarebbe superficiale. Il modo migliore per affrontare, non più il documentario ma i documentari, è prendere in considerazione caso per caso, mettendo in discussione il concetto di definizione, così come queste produzioni fanno a loro volta presentando nuovi stili, sperimentando e innovando. Perciò dobbiamo analizzare i prototipi (cfr. Nanuk l’eschimese, Night Mail o la serie Why We Fight). Questa analisi ci consente di prendere in considerazione sia l’uso del singolo attore sociale, del commento fuori campo, così come quello di gruppi più estesi e fondati su un discorso più impersonale.

Diverse angolazioni ci permetteranno di abbozzare una serie di “definizioni”, fondate sulle istituzioni, sui registi, sui testi (film e video) e sul pubblico.

Il documentario può essere definito come tale a partire dalle istituzioni che ne etichettano la particolare categoria. A partire dalla sponsorizzazione possiamo facilmente comprendere di che genere potrà essere il prodotto cinematografico. I canali Tv, che trasmettono generalmente film di carattere documentaristico, tenderanno a descrivere ogni forma di video riprodotta con questa definizione, mantenendo intatta la propria identità. Tuttavia, in queste emittenti possono essere proposti film come This Is Spinal Tap (1984) che rappresenta – sotto forma di documentario – un ipotetico e inesistente gruppo rock. Questa forma specifica di finzione viene detta mockumentary. Con questo tipo di produzione il documentario viene messo in discussione, soprattutto perché  viene ricostruito e “immaginato” l’impianto logico, con cui si tende a legittimare la veridicità delle immagini proposte.

I registi, a loro volta, consentono di definire il documentario in un modo invece che in un altro. Il loro compito è quello di rappresentare il mondo, affrontando spesso temi sociali quali l’effetto dell’inquinamento o l’identità sessuale. La loro posizione critica nei confronti delle fonti e della tecnologia digitale gli consente di analizzare nuovi problemi sia teorici che pratici, in merito alla loro stessa produzione. Possiamo pertanto comprendere che tanto quanto cambia la loro impressione di cosa possa essere il documentario, così anche per noi, il concetto del tipo specifico di film di rappresentazione reale, può variare nel tempo, declinando qualsiasi tipo di fissità.

Il film, per appartenere al gruppo specifico detto documentaristico, deve mostrare alcune caratteristiche condivise da altre produzioni della medesima categoria. Alcune caratteristiche tecniche ci consentono di sottolineare i punti salienti del documentario: l’uso della voce fuoricampo, le interviste, l’audio in presa diretta, scegliere per protagonisti attori sociali, ecc… un altro strumento di identificazione è l’analisi della struttura logica, spesso connessa alla risoluzione di un problema (simile alla narrativa poliziesca). Questo tipo di organizzazione consente di argomentare a favore di un tema specifico, sostenuto da una narrazione temporale e lineare grazie ai collegamenti attuali e storici (senza l’uso del montaggio). Il documentario presenta un numero di scene e inquadrature maggiore della fiction, fondato sulla necessità di argomentare a favore di un tema centrale. Con il “montaggio evidenziatore”, ovvero l’inesistenza di un’uniformità di tempo e spazio nell’immagine montata preservando il contenuto e l’argomento, il documentario alterna un primo piano su un’azione con un campo lungo sulle conseguenze di quell’azione anche spaziotemporalmente molto lontane. Storicamente sono sorti movimenti differenti sul documentario: negli anni Venti e Trenta in Russia si formarono stili promossi da Dziga Vertov, Esther Shub, Victor Turin; negli anni Cinquanta il free cinema inglese; e negli anni Sessanta negli USA il cinema di osservazione come quello di Frederick Wiseman,ecc… questi stili, oltre che rappresentare movimenti storici, consentono alle nuove produzioni di riprendere alcune tecniche innovative. Seguendo la classificazione di Nichols, possiamo parlare di vari modelli di comunicazione, promossi da uno o più movimenti:

1)    Modalità poetica: enfatizza le associazioni visive, le qualità di tono o di ritmo, i passaggi descrittivi e l’organizzazione formale.
2)      Modalità espositiva: enfatizza il commento verbale e la logica argomentativa; questa è la caratteristica che la maggior parte delle persone identifica come modalità del documentario.
3)     Modalità osservativa: enfatizza il coinvolgimento diretto con la vita quotidiana dei soggetti, osservati con discrezione da una cinepresa.
4)   Modalità partecipativa: enfatizza l’interazione tra regista e soggetto. Le riprese sono composte da interviste o altre forme di coinvolgimento.
5)  Modalità riflessiva: richiama l’attenzione sulle presupposizioni e sulle convenzioni della regia documentaristica. Aumenta la consapevolezza che la rappresentazione della realtà da parte del film è una fabbricazione.
6)      Modalità interpretativa: enfatizza l’aspetto soggettivo o espressivo del coinvolgimento del regista col soggetto, e la reazione del pubblico a questo coinvolgimento. (Elenco tratto da B. Nichols, Introduzione al Documentario, il Castoro, Milano, 2006, pp.44-45).

Ognuna di queste modalità nacque dalle riflessioni dei movimenti che si sovrapposero e vennero a costituire un corpus di strumenti per la produzione documentaristica. Pertanto, i testi che raggiungono gli spettatori sono molteplici: dal carattere normativo e convenzionale della produzione, all’organizzazione logica; dall’uso di una specifica tipologia di montaggio all’importante ruolo del discorso rivolto al pubblico.

Infine, la caratteristica forse più importante è che il documentario si rivolge ad un pubblico  particolare. L’idea che un film sia un documentario nasce dalla mente dello spettatore tanto quanto dal contesto e dalla struttura della produzione stessa. Una serie di caratteristiche ci consentono di comprendere se il film sia una fiction o una rappresentazione della realtà. Il documentario utilizza suoni e immagini presenti nel mondo reale, questo fatto dà al prodotto un carattere di documento. Il modo con cui la macchina da presa, seguendo le istruzioni del regista, documenta un’azione, rappresenta uno stile specifico. « Per questo motivo si può dire che tutti i film sono dei documentari, che si tratti di documentari dell’immaginazione o di rappresentazione sociale. Nella fiction, tuttavia, rivolgiamo la nostra attenzione non alla documentazione di persone reali, ma alla costruzione di personaggi immaginari ».(p.48). Per il pubblico, spesso, il documentario prende in considerazione “discorsi impegnati”, ovvero legati ad ambiti particolari della realtà sociale come la scienza, la storia, l’economia, la medicina, la strategia militare, la politica estera e l’istruzione. Lo spettatore tuttavia desidera appassionarsi a ciò che vede; vuole che sia commovente e spera che alla fine del film possa conoscere di più il suo mondo (scaturisce in ognuno il desiderio di conoscenza).


Grazie a questi spunti proposti da Nichols, possiamo comprendere quanto la definizione di documentario sia molteplice, soprattutto se affrontata a partire da diversi punti di vista. Un’unica definizione non potrebbe che apparire riduttiva e semplicistica. 

16 maggio 2014

INTRODUZIONE AL DOCUMENTARIO. (Bill Nichols)       

Ciao a tutti, 
con questi brevi spunti, che proporrò nei prossimi giorni, prendo in considerazione il testo di Nichols. La sua lettura mi ha permesso di comprendere più approfonditamente gli errori che avevo commesso nel produrre il mio video. 

Capitolo1: Perché i problemi etici sono fondamentali per i documentari?

Esistono due tipi di film: i documentari di immaginazione e quelli di rappresentazione sociale. Con questa definizione Bill Nichols apre il suo testo “Introduzione al documentario”, con il quale cerca sotto molti aspetti di affrontare i problemi sorti dal trasmettere informazioni attraverso l’immagine.

I film di rappresentazione sociale, ovvero i documentari, danno vita – con un metodo particolare di trasmissione di un contenuto – agli aspetti della realtà. Sono pertanto delle “non fiction”. Forniscono un’idea di come noi, e soprattutto il regista, percepiamo la realtà e come ci accordiamo sul significato di determinate rappresentazioni. A differenza della fiction, il documentario sottolinea la verità delle affermazioni che va esaminando, che noi possiamo accettare per la sua corrispondenza ai fatti reali. Il mondo viene affrontato dal documentario seguendo tre modi distinti:
1) la sua rappresentazione in modo verosimile (che ci è familiare). Nel vedere ciò che è passato di fronte alla telecamera ci rendiamo conto che le persone, le cose e i luoghi potremmo averli vissuti realmente.
2) I documentari mostrano l’interesse altrui. I registi, in questo senso, assumono l’onere (da un certo punto di vista etico) di rappresentare tanto la stragrande maggioranza del pubblico che si avvicina al loro prodotto, che non ne è l’esecutore materiale, quanto la presenza vivida degli interlocutori di fronte alla macchina da presa. In Nanuk l’eschimese, Flaherty mostra sia la lotta di quella famiglia Inuit per la sopravvivenza, sia l’interesse dei Revillon Frères in quanto sponsor del film ed infine la propria impressione di come sia la vita degli eschimesi.
3) Rappresentano il mondo argomentando a suo favore o confutandolo. Pertanto, spingendosi ad essere orientati in un determinato senso, influiscono sul pubblico degli osservatori per persuaderli nella propria causa.

Nel rappresentare le persone, ovvero nel trattarle come “attori sociali” (p.17), il documentario si pone dei problemi etici. In questo senso, il lavoro del regista può spesso incanalare e orientare la rappresentazione e pertanto “tradire” l’autentica presenza della persona. La telecamera, a sua volta, di fronte a chi non è un attore di fiction, ovvero chi non è costruito secondo uno scopo ben preciso –  basato su un copione, può generare situazioni di imbarazzo, distorcendo la situazione stessa. Il modo con cui viene rappresentata un’azione richiede uno spunto etico. Pertanto, come si domanda Nichols, Jean Rouch nel rappresentare una cerimonia Hausa (nel documentario Les Maîtres fous) avrebbe dovuto avvisare i suoi “attori sociali” del fatto che sarebbero potute sorgere delle cattive interpretazioni da parte di un pubblico occidentale? L’etica diviene lo strumento essenziale di relazione fra il regista e l’attore, influenzandoli reciprocamente e producendo conseguenze sugli spettatori.

Il regista tuttavia non sempre si trova a suo agio nel gestire i propri interessi (estetici, tecnici e comunicativi), quelli dei propri sponsor, dei soggetti considerati nel video e dei membri della comunità. L’atto del filmare si presenta come emblematicamente problematico e da mettere in questione sia nella preparazione, nella ripresa, così come nella fase di montaggio. Le scelte di un regista, proprio perché influenzate da differenti contesti, obbligano a “sviluppare un senso di considerazione etica” (p.24).

Nichols, identificando il problema etico della rappresentazione dell’altro, si domanda: “come dovremmo trattare le persone nel film?”(p.25)  Innanzitutto nel documentario si pone spesso la figura di un Io assoluto che, attraverso una voce fuori campo, tende a non farsi notare. A volte può essere quella dello stesso regista che “dietro la telecamera” descrive un fatto in modo distaccato. Questo metodo di comunicazione nacque negli anni ’30 del Novecento. Nei film etnografici tuttavia la presenza del regista sulla scena (ovvero di fronte alla macchina) può trasformare il significato di Io. Nell’osservare l’etnografo al lavoro, nel porre domande, gesticolare, approfondire alcune questioni tralasciandone altre, possiamo analizzare la visione personale del regista, che in questo caso agisce personalmente nella situazione ripresa. Il tema principale di un documentario dicevamo  è la rappresentazione di altri. La narrazione della loro storia o di una particolare situazione può essere considerata come tema importante e caro per l’autore. In questo senso, siamo proiettati attraverso un io singolare nel mondo del loro, quale soggetto autenticamente rappresentato nell’immagine. Ciononostante, questa presenza è pur sempre mediata dal regista che può decidere, secondo le proprie inclinazioni, di descrivere le persone esaltando alcuni tratti e minimizzandone altri. Va da sé che per chiudere questo ipotetico triangolo, vi debba essere un voi, ovvero un pubblico di spettatori a cui il messaggio è indirizzato. Si crea in questo senso un discorso che va dal regista allo spettatore, con una particolare struttura definita istituzionale. In esso si condensa la capacità del regista stesso di consentire la partecipazione al film, di permettere il riconoscimento di alcuni tratti particolari di rappresentazione e fornire gli strumenti retorici in grado di “ammaliare” lo spettatore.

Anche se il modello di comunicazione “Io parlo di loro a voi” è quello più utilizzato, esistono delle variazioni: “esso parla di loro/ciò a noi”, ovvero vi possono essere casi in cui la narrazione di un fatto, di persone o cose sia affrontata da un narratore senza personalità, sostanzialmente alienato da quanto dice. L’esempio della Cnn News ci permette di comprendere quanto i reporter e i giornalisti siano distaccati da ciò che affrontano e, lo standard dell’informazione, vuole che nessuno si lasci a considerazioni personali, le quali potrebbero essere mal percepite dal pubblico. Un’altra variante di questo sistema di comunicazione è:  “Io/noi parlo/iamo di noi a voi”, con ciò il regista non è più una figura estranea, ma rappresenta il proprio mondo. Con il documentario etnografico autoprodotto, gli indiani Kayapo del Rio delle Amazzoni tentarono di convincere i politici ad attuare piani di protezione del loro territorio.


Queste primissime considerazioni ci consentono di riflettere: sul documentario come processo sorto da costanti negoziazioni tra regista, soggetto rappresentato e pubblico; sull’importante questione etica che orienta tanto la fase di realizzazione quanto quella di visione; sul tipo di relazione comunicativa intercorsa fra il triangolo regista - attore sociale – pubblico, da cui sorgono stili di rappresentazione differenti. È evidente che la domanda “cosa dobbiamo fare con le persone?” deve muovere il produttore di un documentario a riflessioni di tipo etico, nel momento stesso in cui tenta di rappresentare l’altro. 

15 maggio 2014

Sguardi sul nudo - Ripresa

Cara Sara e colleghi
vi aggiorno in merito al mio progetto individuale.
L'ambito che avevo scelto di affrontare è quello relativo ai corsi di disegno e di presa dal vivo in un atelier milanese, l'Osservatorio Figurale del quartiere Isola: uno scenario denso, quello tra gli spazi, i corpi, gli sguardi e la resa materiale di questa relazione, in cui si muovono diversi attori, diverse soggettività, diverse performance.
L'Osservatorio nasce da un'idea di Enrico Lui, maestro di disegno e uomo di teatro: i legami di Lui col teatro riecheggiano in tutta l'ambientazione dell'Osservatorio. Il tavolo, in assi di legno, su cui posa la modella è un palcoscenico: il centro dell'intera performance è la persona che vive l'esperienza della posa, più che il disegno in sé. Ad ogni posa, si svolge un evento unico.
In effetti, gli stessi artisti la definiscono come una scuola di disegno molto diversa dai classici licei in cui la modella serve come richiamo anatomico: Lui impostò la scuola come un osservatorio sulla vita di una ragazza, di una donna che decide di posare, si spoglia e si mette al centro. L'ambientazione, la vicinanza del tavolo delle pose con gli spazi degli artisti non è emozionante (e, soprattutto all'inizio, difficile) solo per la modella, ma anche per gli artisti stessi: l'intimità è molto forte, ed è al di là del nudo.
Inizialmente avevo pensato di focalizzarmi sul corpo della donna e sulla riproduzione ed interpretazione grafica e materiale di esso - in particolare, in relazione alla definizione che la modella e gli artisti possono dare o non dare della "femminilità" e della "grazie" del corpo. Come quasi sempre accade nelle etnografie, al di là degli interrogativi di ricerca iniziali, sono la relazione ed il confronto nelle interviste che permettono di lavorare sulle dimensioni che effettivamente emergono.
Intervistando un artista ed una modella e artista dell'Osservatorio, ho preferito focalizzarmi su tre aspetti:
- la posa come performance teatrale, di non facile resa attraverso lo strumento della telecamera (proprio per la questione del nudo): ho preferito che questo tema fosse costruito dalle parole degli artisti, della modella e dai gesti e dal lavoro di un artista che ha acconsentito che lo filmassi durante le due ore della posa;
- il lavoro dell'artista, in effetti, fa da filo conduttore anche per il secondo aspetto, ossia il divenire, da parte del corpo della modella, come uno specchio per chi disegna: la modella è vista attraverso la tecnica e gli occhi di un'altra persona, che al contempo, nella resa grafica, mette anche un po' di quello che in quel momento vede nella modella;
- questa situazione di reciprocità e performance porta entrambi i poli della relazione a scoprire qualcosa di più di se stessi: la sensualità, la forza, la pienezza corporea, uno stato d'animo.
Nonostante le difficoltà materiali dello strumento audiovisivo, quest'ultimo può essere contestualizzato come mezzo per catturare la "concretizzazione" dello sguardo e della performance in atto durante la posa di nudo.
Credo che queste immagini e queste storie possano, insieme, offrire la possibilità di gettare uno sguardo sulla eterogeneità e sulla realtà non-scontata del nudo e dell'atto della posa.

Alessandra

14 maggio 2014

Parkour: il rapporto spazio/soggetto tra movimento e schemi mentali



Buongiorno a tutti,
la ricerca che abbiamo deciso di svolgere è sul Parkour e, nello specifico, sul rapporto che esso sviluppa tra il soggetto e lo spazio.

Il Parkour è una disciplina metropolitana nata in Francia agli inizi degli anni ’90 che consiste nell'eseguire un percorso superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all'ambiente circostante. Con efficienza si intende uno spostamento che sia al contempo semplice, veloce e sicuro; un termine che racchiude in sé entrambe le parti della dicotomia spazio/tempo che vediamo spesso emergere, anche a livello antropologico, nello studio delle categorie del soggetto.
Il nome deriva dal percorso di guerra, chiamato “percorso del combattente” (in francese parcours du combattant), utilizzato nell’addestramento militare proposto da Georges Hébert. Egli era un ufficiale di marina francese che, nei primi anni del Novecento, sviluppò un particolare metodo di allenamento per l’addestramento delle truppe definito Hébertismo; il suo motto è esemplificativo della pratica: «Essere forti per essere utili». Il metodo viene anche definito come “naturale” poiché si fonda sull’idea che il migliore modo per allenare un uomo è esercitarlo nei movimenti naturali che sa fare, nelle situazioni che la natura gli presenta e gli richiede.
Sarà poi David Belle, figlio di un pompiere addestrato secondo il metodo di Hébert, che, dopo aver sperimentato fin da piccolo percorsi e tracciati, da adulto intraprese la carriera militare, vincendo numerosi trofei nei “percorsi del combattente”. Dopo essere divenuto anche lui pompiere ed essere stato costretto ad abbandonare il mestiere a causa di un infortunio al polso, non accettando di abbandonare la pratica che l’aveva da sempre appassionato, ne fece una filosofia e fondò quello che oggi è conosciuto come Parkour.
Nel 1998 David Belle e Hubert Koundé decisero di sostituire alla “c” di parcours la “k”, sia per veicolare una maggiore sensazione di aggressività sia per innegabili motivi estetici, e di eliminare la “s” muta in quanto contrastante con l’idea di efficienza del Parkour.
Belle non è l’unico fondatore della disciplina, viene infatti affiancato anche dal gruppo degli Yamakasi, che fondarono l’Art du déplacement, e Sebastien Foucan, che creò il Free Running.
Spesso la disciplina del Parkour viene confusa con il Free Running, che si discosta dal Parkour in quanto l’efficienza nella scelta del percorso viene messa in secondo piano rispetto alla spettacolarità e all’originalità dei movimenti. Il Free Running in ogni caso permette di poter godere delle peculiarità dell’abilità motoria e tracciativa non vincolandosi necessariamente all’emergenza e all’efficienza, ma tenendo conto oltre che degli aspetti estetici, anche di quelli quotidiani, che non necessariamente sono volti all’efficienza.
La diffusione del Parkour è avvenuta soprattutto grazie al passaparola e, come si può immaginare, è esplosa con la diffusione di internet ed in particolare con i video caricati su YouTube. Questo genere di diffusione porta la pratica ad essere da un lato conosciuta anche in territori diversi da quelli di origine, ma dall’altro a divulgare un’immagine fuorviante della pratica, in quanto commista con gesti e movimenti superflui che, come abbiamo visto, non rientrano nella disciplina pura.
In Italia il Parkour arriva attorno al 2005; si è sviluppato molto grazie al web e ai siti locali che hanno creato i primi incontri tra tracciatori.

Chi pratica Parkour è chiamato tracciatore, definizione evocativa del fatto che l’obiettivo del soggetto è quello di tracciare sia metaforicamente che fisicamente un percorso nello spazio; i movimenti e la direzione che si andranno a percorrere vanno difatti ben focalizzati prima mentalmente in maniera conscia e successivamente percorsi in tutta la materialità del proprio corpo.
La presa di coscienza di sé, del proprio corpo, dei propri movimenti e soprattutto delle proprie possibilità è centrale in questa disciplina, che non per nulla è definita come tale. Definirla come sport estremo o come semplice pratica urbana rischia difatti di non cogliere quella che è la grande operazione di disciplinamento e consapevolezza che i tracciatori compiono in se stessi e su se stessi; sia che si debba percorrere con efficienza, sia che lo si debba fare con originalità ed eleganza, la cognizione delle proprie possibilità fisiche e spaziali risulta fondamentale.
Il Parkour non è poi soltanto uno sport, ma anche un'applicazione sociale: i suoi valori sono importanti per insegnare ai giovani (e non solo) il rispetto per se stessi e la conoscenza dei propri limiti, utili per poter affrontare non solo gli ostacoli materiali della città, ma anche quelli piccoli o grandi della vita. Le associazioni nazionali che lo praticano ed insegnano sono difatti molto attente a questi aspetti; l’associazione dei Milan Monkeys e della loro palestra Total Natural Training, oggetto della nostra ricerca, perseguono infatti anche questa ambizione.
L’applicazione del Parkour alla vita quotidiana, e non solo all’ambito della palestra o dei momenti selezionati in cui si apprende o ci si allena, è particolarmente utile; è comprovato difatti che i tempi di spostamento diminuiscono sensibilmente, fattore non indifferente nel momento in cui ci si ritrova a vivere, come spesso accade per chi pratica questa disciplina oggi, nelle grandi città.
Oltre ad una facilitazione nell’analisi dello spazio circostante, il Parkour, nel momento in cui viene praticato da tempo e quindi assorbito nelle competenze del soggetto, cambia sensibilmente la cognizione dello spazio e del luogo del soggetto. Le sue mappe mentali saranno differenti a livello organizzativo rispetto a quelle di un non praticante e gli schemi con cui affronta le dinamiche spaziali saranno sempre soggette ad un’analisi, più o meno preponderante, dell’efficienza di movimento possibile e dell’area di spostamento agibile rispetto al luogo in cui è collocato.
L’apprendimento della pratica non per nulla deriva da una disciplina militare: richiede molta attenzione all’analisi dello spazio circostante, ma al contempo anche una grande capacità di analisi interiore; è solo grazie all’ascolto delle proprie sensazioni, dei propri sensi e dei propri limiti e possibilità che si può migliorare. Un semplice allenamento di tipo muscolare che non preveda anche un introspezione, sarebbe manchevole di una parte fondante della pratica del Parkour. Il potenziamento fisico è in ogni caso fondamentale e deve sempre accompagnarsi ad una prova pratica di percorsi; si può divenire tracciatori esperti solo nel momento in cui si esperisce, si prova, si fallisce e si riesce molteplici volte sul campo.
Come antropologi, le affinità che si possono cogliere rispetto alla disciplina non sono poche. È lo spazio della relazione che il soggetto attiva nei confronti con dello spazio in cui si trova a dare origine al movimento (del corpo, estrinseco) e alla consapevolezza (interna, del soggetto). Discipline simili costruiscono non poco il carattere dei soggetti e sono, a certi livelli, comparabili e tramutabili in filosofie di vita: gli ostacoli materiali si metaforizzano in quelli della vita e il rapporto di analisi, strategia, consapevolezza e fluidità si applica così dall’azione nello spazio all’azione nella vita.

Il tipo di osservazione che desideriamo perseguire quindi, come si è potuto leggere precedentemente, si focalizza primariamente sull’analisi del rapporto spazio/soggetto. Da questo vorremmo trarre degli spunti di ricerca verso: il movimento nel Parkour come unione attiva di questa dicotomia; l’arte dello spostamento e le sue finalità (Parkour e Free Running); la modificazione delle categorie mentali del soggetto conseguentemente all’apprendimento della disciplina; le modalità di insegnamento della pratica in questione.
Questa analisi sceglie di utilizzare il mezzo visuale in quanto ritenuto fondamentale per permettere ai fruitori di cogliere le suggestioni date da questa disciplina, che si struttura come essenzialmente visiva e visuale nei suoi modi, nei suoi intenti e nelle sue pratiche, sia di efficienza che estetiche.

Attraverso delle interviste ai soggetti che hanno aperto la più grande scuola di Parkour a Milano, i Milan Monkeys, desideriamo poter cogliere il punto di vista di chi pratica la disciplina ad alto livello, confrontando ciò che abbiamo potuto conoscere a livello teorico con la pratica dei soggetti, mettendo quindi anche alla prova la consapevolezza implicita ed esplicita delle asserzioni precedentemente descritte. Con delle brevi interviste agli allievi della scuola che i Milan Monkeys hanno creato, e con la visione della palestra Total Natural Training che utilizzano per i loro allenamenti indoor, desideriamo mostrare come si modifica il disciplinamento sia corporeo sia cognitivo nel corso del tempo e dei progressivi allenamenti, nonché le motivazioni che spingono i soggetti a compiere un percorso tanto particolare come quello dello svolgimento del Parkour.
A livello metodologico intendiamo conoscere anzitutto la palestra, che pare essere oltre che il fulcro dell’associazione, anche la prima forma concreta di avvicinamento alla disciplina in oggetto per chi la pratica per la prima volta. Successivamente vogliamo poter documentare l’azione su di un effettivo campo urbano andando così a coprire, come abbiamo delineato precedentemente, sia l’esperienza dell’allenamento sia quella della pratica sul campo urbano effettivo.
A livello registico la nostra ambizione è quella di poter far succedere sia il parlato che l’immagine, sicuramente più spettacolare ed evocativa di tante parole, di modo da offrire con la produzione del filmato un assaggio del particolare mondo del Parkour e delle suggestioni che ci ha fornito sotto forma di domande di ricerca.

Componenti del gruppo:
- Laura Floreani
- Melissa Fiameni