28 febbraio 2014

registrazione crediti

Ciao a tutti,
solo per informare frequentanti e non frequentanti che in gg ho inviato i dati in amministrazione per la registrazione dei crediti.
elenco approvati: Pozzi, Fava, Lunari, Fumagalli, Paba, Micheletti, Facchinetti, Donarini, Vivaldelli, Mainin, Capon, Porcaro, Mantovani, Angelova.
Complimenti, avete lavorato tutti molto bene

per eventuali chiarimenti sono disponibile via mail.
un caro saluto
sara

19 febbraio 2014

Video Sagra delle Castagne e delle Nocciole - Aritzo

Ciao a tutti!
Per concludere il mio lavoro ecco il video della Sagra delle castagne e delle nocciole 2013 di Aritzo (Sardegna).
Ho seguito questo schema:

Introduzione: mostra la posizione del paese arroccato tra le pendici del Gennargentu e alcune immagini dell’ingresso del Paese.

1 Capitolo: mostra i protagonisti di questa festa, le castagne e le nocciole, e il loro utilizzo nel campo dolciario che è caratteristico di Aritzo.

2 Capitolo: mette in evidenza la componente umana, mostrando sia gli avventori della festa che chi opera attivamente nella produzione (cuocitori di castagne, musicisti tradizionali).

3 Capitolo: ha il compito di rappresentare i prodotti in lavorazione e finiti (carapina, torrone, carne e formaggi).

Conclusione: chiude con altre immagini del Paese e del paesaggio e di un caratteristico muletto.

Il mio obbiettivo con questo video è quello di mettere in evidenza il lavoro manuale di questa popolazione che ha saputo creare un filo conduttore e di sviluppo tra passato e modernità. Le tecniche antiche, testimoniate dai murales nel paese (e non solo) vengo riproposte in un evento che si inserisce perfettamente in un contesto moderno (le bancarelle con i prodotti di alta qualità venduti su scala più estesa rispetto al passato). La conclusione ha proprio il compito di mandare questo messaggio mediante le immagini della lunga fila di bancarelle, del paesaggio, ritornando al punto di partenza, ed infine del muletto, antico mezzo di trasporto.

Ho utilizzato poche riprese panoramiche, per lo più per dare l’idea della posizione del Paese e della difficolta nel raggiungerlo; della folla attratta da quest’evento (nel 2013 circa 30000 persone in un Paese di 75,60 km2 – fonte: servizio d’ordine e Comune di Aritzo).
Ho usato per lo più dei close-up per concentrarmi sulle mani e la produzione perché è nelle azioni di queste persone che vi è concomitanza di adattamento all’ambiente e sviluppo con i tempi.

Ho effettuato circa 180 video, utilizzati 60. Il tempo del video è di una giornata, evidenziato dai cambi di luce e della scelta di mostrare il paese da lontano da due punti diversi, per rendere l’idea dell’entrata e dell’uscita da Aritzo. Per il montaggio ho annesso una musica tradizionale suonata con le launeddas (Stefano Pinna – Mediana pipia) come sottofondo che con l’utilizzo di tecniche di fade – in e fade – out permette di entrare nella sagra vivendone i suoni. Le scene sono state unite mediante dissolvenza entro ogni capitolo e paragrafo, mentre tra i capitoli ho utilizzato una dissolvenza in nero per determinare lo stacco. Questa scelta ha reso il video montato più omogeneo. 

LINK DEL VIDEO: VIDEO SAGRA DELLE CASTAGNE

15 febbraio 2014

Conclusioni al percorso sulPane



Se il Riso rappresenta l’Oriente e il Mais identifica il continente Americano, il grano identifica l’Occidente ed in particolare il mediterraneo.  Il pane, nelle sue diverse forme e fatture, rappresenta, da circa 6000 anni, la fonte primaria di sostentamento dei popoli del bacino del Mediterraneo. Per migliaia di anni il grano e il pane sono stati la principale fonte calorica delle genti, in modo particolare dei contadini e dei poveri, rappresentando fino all’80 % della dieta giornaliera.
Il grano si è così venuto a trovare nel doppio ruolo di fonte di vita e di tiranno per gli uomini, condizionando i fatti della vita, i sistemi di coltivazione, le gerarchie, i periodi di carestia e di prosperità.
Questa centralità ha determinato l’importanza del pane nelle culture, fino ad arrivare a rappresentare il corpo del Dio.
Le quantità di pane consumate dall’uomo sono arrivate fino al chilo e mezzo/due chili al giorno, incarnando così l’unica  fonte di sostentamento e dall’altro lo stigma della povertà. Oggi il mutare delle diete ha portato a preferire un apporto proteico di origine animale fino a veder diminuire la quantità di pane giornaliero consumato pro capite a circa 150 grammi. Anche dopo essere passato attraverso tutte queste modificazioni, il pane rimane nell’immaginario un elemento ricco di significati  e la ricerca che ho realizzato, pur nella sua brevità, mi consente di  riflettere su questo cambiamento.
Avvicinandomi all’Associazione del Pane Quotidiano ho potuto riscontrare che Il pane incarna nel suo significato più profondo il concetto di nutrimento.  La denominazione associativa già fortemente evocativa della mission che ogni giorno fa funzionare l’organizzazione, deve la sua origine più che centenaria ad un impulso umanitario e filantropico ovvero assicurare il giusto sostentamento alle persone povere, il pane quotidiano appunto. Oltre alla vera distribuzione di circa 2500 chili di pane al giorno l’associazione riesce a distribuire circa 3000/3500 razioni di generi vari ad altrettante persone in coda ogni giorno.
Il pane rappresenta poi una possibilità lavorativa, come ho potuto verificare presso la Fondazione Umanitaria. La scuola fornisce  un percorso formativo per persone in difficoltà, una alternativa per chi ha perso il posto di lavoro e per altri, la possibilità di costruire una professionalità di riserva da utilizzare in caso di necessità. La scuola diventa quindi percorso in cui trasferire competenze professionali, capacità e imprenditorialità in un settore che non conosce tramonto come quello della manifattura del pane.
In linea con la scuola, la visita a Gustolab ha rappresentato la logica prosecuzione del periodo formativo ovvero un negozio con annesso il laboratorio del pane, uno spazio di reale inserimento lavorativo per persone con differenti disabilità. Attraverso la panificazione e la vendita si realizza l’effettivo affacciarsi al mondo del lavoro di persone che, anche a causa della crisi economica, avrebbero altrimenti poche speranze di accedervi.
Un ulteriore passo avanti nella mia ricerca è avvenuto visitando due panetterie che rappresentano l’evoluzione del concetto di panetteria stesso. In particolare il Panificio di Davide Longoni ci mostra una immagine nuova del pane e  un legame con il territorio di Milano realizzato grazie al progetto di recupero dei grani e di coltivazione nel Parco Sud, sposando così la filosofia, tornata di moda ma in realtà molto antica, del chilometro zero. Nel panificio, che si presenta con una location moderna e interessante,  oltre ad una varietà di pani vi è la possibilità di consumare e degustare una serie di prodotti bio locali,  evolvendo così il concetto di pane e panetteria.
Abbiamo poi visto che il pane, la sua storia e gli strumenti della panificazione sono elementi da preservare e mostrare al pubblico anche attraverso specifici musei che permettono di comprendere ed imparare segreti, storie legate al folklore e ricette, partecipare a laboratori didattici per apprendere tecniche o semplicemente addentrarsi nella sua storia.
Da ultimo, ma per me è stato il primo post, ho incontrato il pane nella sua trasfigurazione artistica. La visita alla mostra che del pane ha fatto la metafora della nutrizione e che lo ha rappresentato a volte in maniera reale ma spesso attraverso rielaborazioni e scomposizioni surreali.

Il tema di fondo della mia ricerca è stato il considerare il pane attraverso i concetti di moderno e antico e devo dire che questi aspetti traspaiono in ogni situazione incontrata, a volte in maniera netta e a volte maggiormente sfumata. Il pane è un elemento che si presta ottimamente ad interpretare entrambi i ruoli temporali. Attraverso il lavoro abbiamo incontrato la scuola ed il negozio che rappresentano il legame con l’antico tramandarsi delle botteghe artigiane in cui i garzoni lavoravano e imparavano un mestiere, ma anche un forte legame con la modernità del concetto di inclusione sociale delle persone disabili e dei percorsi di apprendimento per le categorie protette; il concetto poi di pane come nutrimento, ritrovato nel luogo che distribuisce il sostentamento quotidiano ai poveri, di sempre, ed ai nuovi poveri delle moderne società del consumo; come moderno è il concetto di museo per conservare e mostrare una realtà quotidiana come il pane;  i luoghi che più incarnano questa dicotomia sono però i moderni negozi del pane dove l’antico è il mestiere stesso e il moderno sono i luoghi raffinati , sono anche i luoghi in cui la ricerca dell’antico e del genuino ci fanno incontrare una strana realtà in cui ricercata è solo una finta nostalgia di un qualcosa che non è mai esistito, come se l’antico fosse il buono ed il genuino ed il moderno fosse qualcosa di artificiale e cattivo. Quell’antico riferito al pane è invece legato al problema della fame e ad un pane spesso realizzato con cereali minori e a volte surrogato con castagne, ghiande e legumi.
Il pane quindi incarna perfettamente questa antitesi, moderno e antico, fame e abbondanza, tradizione e innovazione e ancora una volta, se ce ne fosse la necessità, motiva e sostanzia il suo essere antropologicamente al centro dell’alimentazione occidentale nell’antichità come oggi…

14 febbraio 2014

"COSPLAYER": PASSIONE & ARTE

Il mio progetto consiste nell'intervista ad una “cosplayer”.
Il termine cosplayer (contrazione dei termini “costume” e “play” nell'accezione di “interpretare, giocare”) indica la pratica di indossare un costume che rappresenti un personaggio riconoscibile in un determinato ambito e di interpretarne il modo di agire.
Il fenomeno ha avuto inizio alla fine degli anni '70 quasi contemporaneamente negli Stati Uniti (dove travestirsi da supereroi come Batman e Superman era già una pratica diffusa) ed in Giappone dove le persone vestono come personaggi dei cartoni animati (“anime”), dei fumetti (“manga”) o dei videogiochi, benchè ultimamente costituiscano fonte di ispirazione anche opere occidentali di fama internazionale (la trilogia de' “Il signore degli anelli”, “Harry Potter”,...).
Mentre in Oriente si organizzano per lo più delle rassegne nelle quali i cosplayer si incontrano per condividere la stessa passione e per farsi fotografare, in Occidente è molto più marcato l'aspetto interpretativo (delle vere e proprie scenette di combattimento, ballo, canto, mimo a seconda del personaggio) ed agonistico (gare).
Dal momento che agli occhi di un occidentale tali eventi possono sembrare simili alle sfilate di Carnevale, occorre fare alcune precisazioni:
  • mancano l'aspetto religioso e di rinnovamento simbolico (non è un periodo di festa durante il quale il caos sostituisce l'ordine costituito, che riemergerà rinnovato e garantito una volta terminati i festeggiamenti) e la violenza (cfr Carnevale di Ivrea);
  • la maschera non è un oggetto usato per celare la propria identità, al contrario un cosplayer sceglierà sempre un (o più) personaggio al quale si sente di assomigliare, spesso anche fisicamente.
Fondamentale è la realizzazione del costume e degli accessori, che deve essere accuratissima e spesso è molto impegnativa.

Il video è composto da più parti:

  • breve sigla introduttiva nella quale si vedono le vie di Lucca gremite di persone ed alcuni cosplayers;
  • intervista a Yamamoto (ogni cosplayer ha un nome d'arte tratto dalla cultura giapponese o fantasy) per mostrare come una cosplayer vive questa passione e forma d'arte e come si prepara a partecipare al “Lucca Comics&Games 2013”, la più importante rassegna del settore in Italia, seconda in Europa e terza al mondo (dopo il “Comiket” di Tokyo ed il “Festival international de la bande dessinée” di Angoulême in Francia) ma assolutamente unica perchè, a differenza di tutte le altre, si svolge per le strade della città, all'aperto e non al'interno di padiglioni appositi o in luoghi chiusi (palazzetti, capannoni);
  • ampia sezione dedicata alla scelta e rielaborazione del personaggio (il Cappellaio Matto di “Alice nel Paese delle Meraviglie”), sezione nella quale mi sono soffermata sui bozzetti preparatori, sulla realizzazione del costume e degli accessori e sul trucco;
  • riprese della cosplayer per le strade di Lucca, effettuate nelle zone meno frequentate (c'erano 200000 partecipanti, record assoluto dal 1993!) per poterla mettere meglio in risalto;
  • sigla finale con immagini del “Lucca Comics & Games” 2013.

Ho cercato di utilizzare diverse tecniche di ripresa (close up shot, medium shot, long shot, aerial shot, zoom shot, POV, head on shot ), di soffermarmi sui particolari quando possibile ed in fase di montaggio, per rendere più coinvolgente lo scorrere delle immagini, ho inserito musiche e canzoni spesso utilizzate come colonna sonora di sfilate cosplay e videogiochi.
Viola Donarini

http://www.youtube.com/watch?v=BSk_h_wnu1A

13 febbraio 2014

Info laboratorio

Buon giorno, innanzitutto mi scuso se utilizzo questo canale per contattarla (ma non credo di avere il suo indirizzo mail corretto). Lo scorso anno ho seguito il laboratorio, tuttavia, per alcune vicissitudini personali, non ho potuto presentare il video che avevo preparato. Chiedo se può esserci occasione in cui farle visionare il lavoro. La ringrazio per la sua disponibilità,
cordiali saluti, Claudio Gelmi.

12 febbraio 2014

GUSTOLAB Buoni come il pane



Il Forum delle Politiche Sociali di Milano, quest’anno giunto alla sua terza edizione ha presentato, ed è stata inaugurata, tra le altre interessanti proposte una  proposta che coniuga persone con disabilità, inserimento lavorativo e pane. Si tratta dell’iniziativa denominata GUSTOLAB a cura dell’Associazione l’Impronta, giovane e vitale realtà cittadina attiva principalmente nel territorio sud cittadino e attenta alle necessità della città.

GUSTOLAB si pone come proposta innovativa nel panorama cittadino, si tratta di un negozio, una panetteria con annesso laboratorio con una particolarità importante, impiega persone con disabilità in tutte le fasi del processo dalla panificazione alla vendita realizzando in un colpo solo gli obiettivi della promozione e valorizzazione delle capacità delle persone con disabilità attraverso l’elemento pane.
Ancora una volta attraverso il pane ritroviamo la possibilità di realizzare progetti di promozione umana con un alto valore simbolico prima che commerciale. Attraverso la farina, di provenienza BIO acquistata in un mulino del piacentino e la panificazione l’Associazione sarà in grado di impiegare persone che, complice la crisi economica e, troppo spesso la diffidenza e l’incapacità, non troverebbero una collocazione nel competitivo mondo commerciale.

Il pane diventa quindi un veicolo sociale che oltre a sfamare promuove la dignità umana, la valorizza e la pone al centro di un progetto sociale.
Possiamo ben dire che questo progetto sfama due volte, chi compra i prodotti e chi dalla produzione di questi prodotti segna un percorso verso l’inserimento sociale e la dignità umana.




Considerazioni finali su "Memorie di un pugile. La speranza non muore mai"

In questo video ho raccolto la testimonianza di Petru Sabau, pugile romeno emigrato in Italia per trovare lavoro, e ora insegnante di pugilato.
Petru è inserito in un contesto biografico particolare in quanto proviene da una famiglia di lottatori per tradizione che ha subito una serie di eventi travagliati dovuti a povertà, mancanza di risorse, malattia. Il mio intento iniziale era quello di capire il ruolo dello sport nelle dinamiche di rielaborazione dell'identità nel contesto della migrazione.
Le riprese effettuate in palestra, luogo in cui si relaziona con gli altri atleti e nella casa, dove vive con la moglie e i quattro figli, mirano a descrivere la sua quotidianità, evidenziando gli elementi che appartengono al passato, ovvero ricordi ed elementi biografici, e appartenenti al futuro, come la speranza di una vita migliore, che insieme danno forma alla vita presente.
Il prodotto finale è frutto di una negoziazione tra me e Petru, a partire dalle riprese fino alla selezione delle scene, poiché egli ha capito fin da subito che per ottenere un buon risultato doveva partecipare attivamente alla ricostruzione delle sue esperienze. Questo però ha anche portato alla messa in discussione del mio intento iniziale, che è stato influenzato dall'esigenza di Petru di voler decidere come apparire, cosa raccontare e chi intervistare. Ciò è dovuto al fatto che tramite il discorso sul pugilato ci si addentra in aspetti della vita intima che è difficile narrare con leggerezza.
Sono poi riuscita a portare nuovamente il video sulla traiettoria iniziale grazie alle tecniche di ripresa, alla selezione delle scene e al montaggio che permettono di guidare lo spettatore attraverso la complessa storia personale del protagonista, e nel contempo evidenziano il mio intervento su di essa.
Con le tecniche di ripresa establishing shot, long shot e medium shot, ho cercato di dare un'idea del contesto in cui si trova Petru, come si svolgono le sue lezioni e come interagisce con gli altri pugili.
Tramite le riprese close up ho spostato l'attenzione sul volto dei soggetti per far trasparire le loro emozioni, il coinvolgimento durante il racconto e spesso l'imbarazzo verso la telecamera. In questi momento ho cercato di tenere l'inquadratura fissa sul protagonista, in modo da permettere allo spettatore di non perdere il filo della narrazione.
Grazie al lavoro di editing sono riuscita ad unire presente e passato. Ho affiancato il racconto del ricordo alla vivida testimonianza delle immagini. Con la collaborazione di Petru sono riuscita a recuperare video appartenenti alle sue esperienze passate, che si sono dimostrati di grande rilevanza nella comprensione del presente.
Il lavoro di montaggio mi ha anche permesso di affiancare i video in cui Petru citava le persone che più l'hanno aiutato nel suo percorso, alle opinioni e ai ricordi di quelle stesse persone, che si sono mostrate ben felici di contribuire a questo progetto.
http://www.youtube.com/watch?v=wXKyFQCaVOk&list=UUULW4rrCoLq2jM1kBmHmFBw&feature=c4-overview

CAMERA ETNOGRAFICA STORIE E TEORIE DI ANTROPOLOGIA VISUALE Parte Quarta (4/6)




4. Osservare e documentare



1. Prima di Nanook



La data di nascita del film etnografico può essere fissata al 1898, anno in cui ebbe luogo la spedizione allo Stretto di Torres coordinata da William C. Haddon, il quale ritenne indispensabi1e imbarcare insieme ai vari strumenti del laboratorio antropologico anche una macchina da presa. Successivamente Haddon non esitò a suggerire a Baldwin Spencer in partenza per l’Australia di portare con sé tutto l’occorrente per effettuare riprese cinematografiche.
I film di Haddon, quelli di Spencer, di Pöch e, prima ancora, le cronofotografie etniche di Régnault, sono produzioni tutte collocabili nel paradigma positivista, un atteggiamento visivo che qualcuno, con scarso rispetto per la seria opera scientifica di quegli studiosi, ha qualificato come “voyeuristico” e addirittura “pornografico”. Ma, l’importanza dei film realizzati allo Stretto di Torres sta, forse, nel loro valore attestativo: per la prima volta l’antropologo poteva tornare in patria con documenti inequivocabili sulla sua permanenza fra le popolazioni studiate. I film, più delle fotografie, testimoniavano che l’antropologo era stato “là” e incrementavano la sua autorità etnografica.
Si trattava di riprese di breve durata, di impianto “teatrale” - le macchine da presa erano molto pesanti e venivano collocate su un cavalletto durante la ripresa -; dal punto di vista dello spettatore di quel tempo, l’esperienza visiva da esse offerta non era troppo differente da quella dei life groups.
Il termine life group fu utilizzato per la prima volta da Franz Boas a indicare le ricostruzioni in vetrina di indigeni al lavoro, realizzati da abili artigiani che riproducevano le figure umane con manichini realistici.
Ripensando alle esperienze a cavallo fra la fine del secolo XIX e il primo ventennio dei secolo XX, si potrebbe dire che il passaggio da uno stile osservativo a uno stile partecipativo si era consumato nel corso dei primi venticinque anni di storia del film etnografico, passando dalle riprese etnocinematografiche di Haddon al celebre Nanook of the North di Robert Fiaherty.
Il film di Flaherty ha mostrato che lo stile e il metodo non sono dipendenti dalla tecnologia disponibile. Prima di Flaherty, le macchine da presa non erano dotate di una testata in grado di fare agilmente panoramiche: la cinepresa era una sorta di macchina fotografica che scattava fotografie in rapidissima sequenza tutte nella stessa direzione. La testata giroscopica delle due macchine da presa inventate da Carl Akeley nel 1916 e utilizzate da Flaherty permetteva di panoramicare a destra o a sinistra e dal basso verso l’alto o viceversa (Christopher, 2005 p, 424, nota 91).
Non sempre, però, lo stile è indipendente dalla tecnologia. La forza di quest’ultima può insinuarsi fino a condizionare inconsciamente il filmmaker. E per esempio il caso di Jean Rouch che, pur passando da una cinepresa 16 mm a molla, da ricaricare ogni 20 secondi, a una cinepresa capace di girare per 3 minuti, ha conservato nel piano sequenza la scansione per inquadrature cui era costretto con la precedente macchina da presa, muovendo la macchina da un oggetto d’attenzione all’altro ogni venti secondi circa (Paganini, 2006).
In ogni caso, collaborativismo e camera partecipante, un binomio che contrassegna lo stile di Jean Rouch, non sono indissociabili. Si può, come fece Flaherty, collaborare con i nativi e allo stesso tempo descriverli come se fossero osservati a distanza.
Nanook introduce così alcune questioni sulle quali non si smette mai di discutere, quella del collaborativismo, quella della ricostruzione (staged authenticity) e quella della ri-presentazione (re-enactment).
Film, memoria, ricostruzione e autorappresentazione trovano un punto di convergenza e un campo di espressione negli indigenous videos e nei video locali, forme di autorappresentazione etnocinematografica che si sono sviluppate e diffuse negli ultimi due decenni – vd prox capitolo.
Eric Barnouw ha scritto che «l’urgenza di fissare sul film la natura di culture che stanno rapidamente scomparendo è stata perseguita anche da antropologi, i quali hanno dato a quest’opera il nome di etnografia di salvataggio (salvage ethonografy). Flaherty stava svolgendo quest’opera per ragioni strettamente personali piuttosto che per ragioni di studio, ma il risultato fu identico: un’operazione romantica”, dal momento che non stava registrando un modo di vivere attuale,
ma uno filtrato attraverso le memorie di Nanook e della sua gente. Inevitabilmente il film riflette la loro immagine della vita tradizionale. Tuttavia una immagine di sé della gente può essere un elemento cruciale nella loro cultura, e degno di essere registrato. Gli antropologi, sebbene consapevoli della prospettiva distorta, la studiano con cura. In effetti, è quello che ha fatto Flaherty» (Barnouw, 1974, cit, in Ruby, 2000, p. 89). Ruby ricorda che questo modo di rappresentare l’Altro prima dell’incontro con l’Occidente, fissandolo in un tempo astorico, definito presente etnografico.
(Ruby, 2000, p. 90). Ruby conclude la sua riflessione su Nanook osservando che Flaherty ha avviato una tradizione di filmmaking partecipativo che è poi continuata con il The Netsilik Eskimo Film Project di Asen Balikci e con i film di Jean Rouch Petit à Petit, Jaguar, Cocorico, Monsieur Poulet. E anche quell’atteggiamento di «romantico attaccamento a un mondo primitivo immaginato» lo ritroviamo oggi nei film di Robert Gardner e John Marshall. La peculiarità di Flaherty è stata quella di combinare insieme le «due tendenze dominanti nel cinema del suo tempo — gli episodici “spaccati di vita” ripresi dai viaggiatori, che soddisfacevano il desiderio di guardare un mondo esotico, e i racconti drammatici di finzione».
Anna Grimshaw coglie in un’affermazione di Flaherty una importante concettualizzazione della sua esperienza filmica con Nanook. Riferendosi alle riprese del 1926 andate perdute in un incendio, Flaherty scrive: «era un brutto film, era noioso era poco più che un film di viaggio. Avevo imparato a esplorare, ma non avevo imparato a rivelare». La distinzione fra esplorazione e rivelazione è fondamentale, afferma Grimshaw, nel cinema di Flaherty e altrettanto nell’antropologia di Malinowski. Tutti i film di Flaherty sono fondamentalmente statici e si distinguono per «la trama, la profondità o la struttura, piuttosto che per il movimento» (Grimshaw, 2001, p. 49), L’autore di Nanook costruisce, scrive Grimshaw, «una serie di fotografie in cui le persone e gli oggetti sono collocati all’interno di un paesaggio e le relazioni all’interno dell’inquadratura sono poste in primo piano su quelle che si estendono oltre.. Rifiutando la tecnica del montaggio, Flaherty mette in pratica ciò che Bazin chiama “l’unità spaziale di un evento”, e mostra “tutte le cose da dire senza spezzettare il mondo in piccoli frammenti”» (ivi, p. 50).
Un altro concetto chiave che Anna Grimshaw fa emergere dalle memor della moglie di Flaherty (Hubbard Flaherty, 1960), è quello di a-preconcettualità (non-preconception), con il quale si esprime un atteggiamento non prevaricatore e lo sforzo di non pre-interpretare ciò che si osserva, lasciando che l’evento appaia nella sua forma senza forzature. «La parole che ho scelto è “non-preconcezione”, un termine da esploratore. La non-preconcezione è la pre-condizione per la scoperta, perché è uno stato della mente. Quando non hai preconcetti, allora cominci a ricercare. Non c’è altro che bisogna fare. Cominci a esplorare. “Tutta l’arte” ha detto Robert Faherty, “è un modo di esplorare”» (Hubbard Flaherty, 1960)
Anna Grimshaw individua un’analoga retorica romantica anche nel lavoro di Malinowski, il cui progetto consisteva in «un ritorno all’esperienza piuttosto che in uno sviluppo di sempre più sofisticati saperi o tecnologie scientifici per la raccolta dei dati durante la ricerca sul campo… La visione era centrale per la nozione malinowskiana di indagine scientifica; ma, nell’innalzarla a nuova importanza come fonte di conoscenza sul mondo, egli cercò, come Flaherty, di recuperare la vista e di riportare l’occhio al suo originario stato d’innocenza» (Grimshaw, 2001, p. 52).
Anche l’approccio di Malinowski fu costruito sulla «distinzione fra esplorazione e rivelazione», scrive Grimshaw. Come Flaherty, il metodo di Malinowski prescrive una rimozione — impossibile, come rivelerà il diario pubblicato nel 1967 — della propria cultura e dei propri pregiudizi per percepire il punto di vista dell’altro da uno stato di innocenza (l’occhio innocente).
I testi di Malinowski, come i film di Flaherty, sono illusori, aperti solo apparentemente, ma, di fatto sono chiusi. I loro segreti sono accessibili solo agli inziati, a coloro che desiderano incontrare empaticamente il mondo descritto nel testo. Inoltre i mondi evocati dal cinema di Flaherty e dalle monografie di Malinowski sembrano essere stati “trovati” piuttosto che costruiti. Pertanto entrambe le forme di rappresentazione celebrano la totalità o integrità della vita nativa esistente all’interno di uno spazio artificialmente demarcato. La visione di Malinowski e di Flaherty comporta un rifiuto del montaggio, espressione formale di movimento, complessità e contraddizione del mondo del XX secolo. Lo sviluppo di Flaherty di una particolare estetica filmica costruita attorno alla trama piuttosto che al movimento, all’esperienza piuttosto che all’analisi, può essere visto come un tentativo di fissare l’idea di aura che circonda l’opera d’arte originale» (Grimshaw, 2001, p. 56).






2. Franz Boas e il film etnografico



Boas fu il primo ad usare la macchina da presa per raccogliere dati sul comportamento in modo da analizzarli alla moviola. La novità consisteva nel fatto che i comportamenti documentati con la macchina da presa erano ripresi nel loro ambiente naturale, non in laboratorio, sebbene al di fuori del loro tradizionale contesto comunicativo Questa sperimentazione fu effettuata da Boas verso la fine della sua carriera per studiare il movimento e il ritmo nelle danze Kwakiutl.



3. Margaret Mead e Gregory Bateson



Margaret Mead ha avuto un ruolo di primo piano per lo sviluppo e il riconoscimento dell’antropologia visuale come sottodisciplina di dignità pari ad altre nel più ampio campo di studi dell’antropologia culturale. Jay Ruby la de finisce la “madre” dell’antropologia visuale negli Stati Uniti (Ruby, 2001) Una data fatidica, che può segnare la nascita dell’antropologia visuale come subdisciplina, è il 1973, quando a Chicago ebbe luogo la International Conference of Visual Anthropology, sezione dedicata all’antropologia visuale all’interno del Congress on Ethnological and Anthropological Sciences, i cui atti furono pubblicati nel 1975 a cura di Paul Hockings nel noto volume Principles of VisualAnthropology (Hockings, 1995).
Nel corso della ricerca condotta a Bali tra il 1936 e il 1939 Margaret Mead e Gregory Bateson realizzarono decine di migliaia di fotografie e utilizzarono alcune migliaia di metri di pellicola cinematografica. Margaret Mead è considerata la massima esponente della scuola di cultura e personalità. L’antropologa, come il suo maestro Franz Boas i riteneva che fosse la cultura a determinare il comportamento sociale, non la natura biologica degli esseri umani. Secondo Marvin Harris (L ‘evoluzione del pensiero antropologico) la fotografia e il film furono utilizzati dalla Mead con l’intenzione (fallita) di provare la realtà del carattere configurazionale della cultura e non come prodotti autonomi della ricerca. Il libro Balinese Character. A Photographic Analysis fu per molti anni un tentativo ineguagliato di integrazione fra testo e fotografia, dove però l’immagine svolgeva un ruolo meramente illustrativo; era cioè diretta a confermare le tesi espresse attraverso la scrittura.
Il lavoro di Bateson e Mead sembra rientrare nel modello positivista della fotografia come dato oggettivo capace in sé di mostrare in modo trasparente la realtà. Le immagini tornano a essere utilizzate come documentò da studiare a tavolino in quanto parte integrante della ricerca antropologica: esse possono fissare e rivelare aspetti che l’occhio umano da solo non riesce a cogliere; inoltre permettono la comparazione. La fiducia di Margaret Mead nell’etnografia visuale, è fondata su due principali tesi: a) il realismo degli strumenti di registrazione cinefotografica può catturare l’ethos di una cultura, quegli “aspetti intangibili” che la caratterizzano e che difficilmente si possono tradurre nel linguaggio scritto; b) la capacità del film e della fotografia di fissare le forme culturali per renderle disponibili a successive analisi (cfr. Russell, 1999, p. 201).
Tanto Ruth Benedict che Margaret Mead usarono comparare le culture i dimostrare come la diversità del comportamento umano dipendesse dal contesto culturale in cui l’individuo era cresciuto e si era formato.
Piault (2000, pp. 119420) pone l’accento sulla ricerca di oggettività implicita nelle immagini di Margaret Mead, una oggettività necessaria affinché le immagini potessero essere utilizzate come testimonianze inoppugnabili, e cita un brano dove Bateson e Mead precisano le loro intenzioni e rifiutano l’idea di un uso della fotografia e del film a fini “documentari” «Ci siamo sforzati di afferrare ciò che accadeva normalmente spontaneamente, invece di decidere seguendo delle regole prestabilite e di ottenere successivamente che i Balinesi corrispondessero a questi comportimenti nel contesto appropriato» (Bateson, Mead, 1942, p. 49). Piault osserva che il commento parlato nel film di Bateson — pensiamo per esempio a Trance and Dancce in Bali — non aggiunge nulla a ciò che le immagini già mostrano, come se volesse ridurne la polisemia (la possibilità di interpretazioni diverse) e guidare lo spettatore verso un significato essenziale e unico. «Questo processo di enfatizzazione invade letteralmente l’immagine: non lascia tregua all’attenzione (la mantiene sempre impegnata su un’unica direzione interpretativa). L’oggetto, illusoriamente sottomesso all’indagine attraverso l’immagine è in effetti già doppiamente interpretato, dall’inquadratura stessa e da un commento che orienta sistematicamente lo sguardo con il rischio di accecarlo.
L’intenzione enunciativa è talmente forte,la densità della parola talmente alta che, paradossalmente l’attenzione è saturata e improvvisamente l’immagine quasi riprende la sua autonomia. Allora, al di là dell’osservazione di laboratorio, appare una sensibilità che percepisce e vede, si lascia condurre da movimenti e gesti, perde la sequenza delle azioni messe in prospettiva analitica e ritrova a un tratto il suo intento. Bisogna fare l’esperienza di guardare le immagini di Bateson eliminando il commento della Mead. Tale discorso attraverso le immagini va collocato, dice Piault, in un momento in cui l’antropologia tentava di guadagnarsi un posto fra le scienze “rispettabili” attraverso la produzione di ingenti quantità di materiali di ricerca. Una direzione che la stessa Margaret Mead correggerà riconoscendo l’importanza di osservare il comportamento non verbale prima ancora di codificarlo e concettualizzarlo con la parola.
Con Mead e Bateson, secondo Marc Piault, ritorna nell’antropologia visuale la tendenza alla descrizione, che insieme alla narrazione costituisce uno dei due principali atteggiamenti nei confronti dell’immagine (ivi, p. 119) 



4. Il cinema diretto



Quasi contemporaneamente, negli anni Sessanta, in Francia e negli Stati Uniti emersero due scuole documentaristiche sensibili ai cambiamenti permessi dalle nuove tecnologie. I principi ispiratori della prima possono essere sintetizzati con le parole di Roberto Nepoti: «è cinema diretto quello che pretende di cogliere una realtà autonoma (non ancora presa in un immaginario sociale) e autosignificante, che il cinema sarebbe in grado di riprodurre e restituire senza mediazioni di senso» (Nepoti, 1988, p. 91). Si tratta, in questo caso, di un perfezionamento in senso oggettivista e positivista dell’approccio documentalista, volto a catturare la realtà e a fissarne l’essenza nel documento cinematografico, aggiungendo un senso di presenza nei fatti che il cinema precedente non riusciva a produrre, simulando l’assenza del filmmaker e omettendo le relazioni che necessariamente questi intrattiene sul campo/set.
Questo approccio è stato chiamato cinema diretto, con termine proposto d Mario Ruspoli da 1963, oppure cinéma verité, secondo Jean Mitry.



5. Il film uniconcettuale



In Germania, nel 1956, viene fondato l’Institut für den Wissenschaftljchen Film (Istituto per il Film Scientifico, Iwf ). Obiettivo dell’Iwf era la creazione di un grande catalogo di film realizzati con ben precise regole affinché fossero sufficientemente simili nella forma per poter essere comparati. Pertanto il film doveva essere uniconcettuale (single-concept film), cioè focalizzato su una sola unità tematica nella quale l’azione fosse predominante; «potevano essere usate solo le riprese che mostravano persone agire come se la macchina da presa non fosse stata lì. Se l’uomo che stava tessendo un tappeto avesse alzato la testa e guardato in macchina, quella ripresa sarebbe stata buttata! 

6. Il documentarismo informato

Nel suo libro Anthropologie et Cinéma, Piault (2000) distingue tra documentarismo e documentarismo informato: «Il documentarismo sarebbe un tentativo per trasmettere dati appoggiandosi a una concezione del reale come di rettamente catturabile dall’immagine, semplice operazione di trasferimento. in qualche modo un compattamento di tre dimensioni in due dimensioni facilmente trasferibili e riducibili. Il documentarismo si fonda su due a priori: c’è un oggetto e c’è un buon modo di guardare e dunque di comprendere quest’oggetto. Il documentarismo informato, invece, colloca i dati riguardanti i modi che gli uomini hanno di costruire e vivere le loro società nella prospettiva di uno sguardo particolare e in quella di relazioni suggerite dagli stessi dati.» (ivi, pp. 94-95), Il criterio proposto da Piault suggerisce, per quanto riguarda il documentarismo, non solo un riferimento diretto all’oggettivismo positivista e all’idea di poter duplicare la realtà nel documento, esponendola “così com’è” senza intervento del produttore, ma anche a uno stile estetizzante privo di problematizzazione della realtà.
Il documentarismo informato suggerisce l’idea di un fim che presenti allo spettatore tanto diversi punti di vista sulla realtà filmata, quinto un punto di vista autoriale preciso e capace di leggere la realtà al di sotto delle apparenze o, ancora, di presentare il punto di vista di un “gruppo”, come quello dei minatori di Borinage. Si tratta evidentemente, di scelte stilistiche e metodologiche non commensurabili fra loro e allora, con “documentarismo informato” Piault sembra essenzialmente intendere un metodo etnocinematografico che eviti l’ingenuo oggettivismo positivista secondo cui la macchina da presa è capace di riprodurre la realtà “quale essa è”.



7. MacDougall e il cinema d’osservazione



Nel 1975 David MacDougall pubblicò un importante saggio dal titolo Beyond the Observational Cinema dove metteva a fuoco lo statuto “osservativo” del documentario etnografico criticando la tendenza a evitare il contatto fra soggetti filmati e filmmaker.
Quando si tratta di scene corali, in cui sono coinvolti molti partecipanti, risulta facile per il filmmaker restare inosservato, ma quando i protagonisti del film sono in numero ridotto il filmmaker non può evitare il contatto, e allora diventa importante far diventare familiare la presenza del cineasta e della macchina da presa, risultato facilmente conseguibile grazie alle dimensioni ridotte delle cinepres
Il fine del cinema di osservazione è chiaramente quello di riprendere quegli avvenimenti che sarebbero accaduti anche se il regista non fosse stato presente» (ivi, p. 90).
Questa ultima osservazione, se vogliamo ingenua — riprendere gli eventi come se il regista non ci fosse (lo stile fly on the wall) —, è corretta dalla consapevolezza che «questo sforzo che il regista fa per estraniarsi dalla scena, lo porta ad assumere un atteggiamento passivo mentre la partecipazione attiva con i suoi soggetti presuppone uno stato psichico totalmente diverso» (ivi, p. 91).
Questo tipo di approccio alla realtà etnografica, in cui il filmmaker osserva a distanza, costruisce un tipo di spettatore che osserva la realtà con gli occhi del filmmaker: «osserviamo i soggetti del film senza essere visti, nella certezza che non possono interagire con noi. Ne consegue la nostra impossibilità ad attraversare lo schermo e incidere sulla loro esistenza, sicché coesistono in noi l’illusione del contatto diretto e la coscienza di un limite invalicabile .Se l’obiettivo di un film etno grafico si riduce alla raccolta di una serie di dati, allora non è necessario fare dei veri e propri film. Ma ci si può limitare a delle riprese su cui basare poi gli studi futuri» (ivi, p. 92).
La prospettiva del cinema d’osservazione non è sbagliata, «ma è meno interessante dell’analisi delle situazioni di fronte a cui ci si trova. La presenza di una macchina da presa, usata dal portatore di una cultura in un mondo completamente diverso dal suo, è un evento così straordinario che la ricerca dell’isolamento e dell’invisibilità sono prive di significato. Nessun film etnografico può essere in fatti solo una registrazione dei modi di vita di una popolazione, ma è invece sempre la registrazione di un incontro tra due culture. Se si vogliono superare i limiti imposti dalla visione idealistica che ha dominato l’antropologia tradizionale bisogna allora decidersi a entrare in contatto con le realtà che si incontrano» (ivi, p. 94). Bisogna andare dunque, sostiene MacDougall in questo saggio del 1975, oltre il cinema d’osservazione e praticare un cinema di partecipazione, il cui precursore è stato Robert Flaherty con i suoi film Nanook e Moana, e che trova in Jean Rouch il cineasta che fm dagli anni Cinquanta applica questo me todo consapevolmente. Nel cinema di partecipazione i soggetti filmati diventano entità consapevoli della natura rappresentativa del film; essi possono addirittura recitare una parte come nel film Jaguar di Jean Rouch, e così il filmmaker, conservando comunque il suo progetto iniziale, «accresce il valore degli eventi ripresi, come prova di ciò che si era prefisso di dimostrare. Dando accesso nel film ai suoi soggetti, egli riesce a raccogliere un numero di informazioni e di chiarimenti maggiori sulla loro vita ed è grazie a un simile scambio che il film può divenire un riflesso del modo in cui le popolazioni riprese percepiscono la realtà che li circonda».
Questo brano mostra chiaramente come la partecipazione sia, per Mac Dougall, subordinata al metodo e alle tesi che il filmmaker intende dimostrare — siamo in questo caso nel campo delle poetiche soggettivate (cfr. cap. 6) e in ogni caso strumentale al cinema d’osservazione.
E’ rilevabile inoltre una contraddizione: come si possono infatti conciliare una visualizzazione della realtà diretta a descrivere «ciò che il filmmaker si era prefisso di dimostrare» e il fatto che il film debba essere «un riflesso del modo in cui le popolazioni riprese percepiscono la realtà»? Se intendiamo questa “bifocalità”, questo sovrapporsi di due sguardi, quello del filmmaker e quello dei nativi, come un processo capace anche di contraddire le tesi che il filmaker vuole dimostrare, allora la pratica del filmare diventa un processo di conoscenza in fieri e si configura come un’esperienza — ecco che ci approssimiamo alla partecipazione come intesa da Jean Rouch.
Eppure, nella corrente pratica etnocinematografica MacDougall sembra poco coinvolto nella relazione con i soggetti che filma e spesso si fa accompagnare da un interprete per dialogare con loro. Da questo approccio deriva l’uso di riprese lunghe: una necessità, più che una scelta, dal momento che il filmmaker non può preventivare la sua azione basandosi su ciò che i soggetti filmati stanno dicendo. Allo stesso tempo la ripresa lunga offre ai soggetti uno spazio per l’autorappresentazione. Per distingue re questo atteggiamento da quello più direttamente aperto all’esperienza di autori come Rouch e Minh-Ha, si potrebbe definire, questo di MacDougall, cinema di interazione per differenziano dal vero e proprio cinema di partecipa zione quale è stato praticato da Jean Rouch.
Non c’è dubbio che MacDougall interagisca con i soggetti, ma non sembra esserci partecipazione né collaborazione, e così l’interazione più che altro resta un espediente attraverso il quale ottimizzare l’osservazione.
il racconto del soggetto è spesso più importante di quello del filmmaker» (Mac Dougall, 1998, p. 156).



8. La poetica della contemplazione nel cinema di David MacDougall






Il cinema d’osservazione sembra, così, ben radicato nel paradigma positivista. La macchina da presa, in molti film di MacDougall punta il suo obiettivo verso la situazione e attende che qualcosa accada. L’autore finge di non esserci, sta a guardare.
In questo film, i soggetti filmati parlano rivolgendosi all’interprete, e questo sottolinea il desiderio del filmmaker di collocarsi in una zona d’ombra: egli se ne sta in disparte, non fa esperienza dell’Altro come farebbe Jean Rouch.
Non potendo comprendere, perché non conosce la lingua, può invece contemplare, termine che ci rinvia a quell’atteggiamento romantico di osservazione, della natura per esempio, alla ricerca di invisibili legami fra le cose terrene e soprannaturali (in senso lato), fra il particolare e l’universale. Contemplare e contemplazione provengono dai termini latini contemplari e contemplatio, entrambi derivati di templum (= spazio circoscritto per l’osservazione del volo degli uccelli [a fini augurali, aruspicini]) Templum è, insomma, il “perimetro ritagliato” di terra (o di cielo) dal quale (o entro il quale) si osserva il volo degli uccelli, per predire su questa base il futuro secondo una pratica di origine etrusca. Il circoscrivere la propria attenzione, vale a dire l’inquadrare, nel rettangolo in cui i soggetti filmati alla fine restano chiusi è un modo per aspettare — da qui la sensazione di immobilità — che il senso emerga “naturalmente”. Questo atteggiamento osservativo tipico di MacDougall è stato interpretato come una sua «sensibilità particolare all’ascolto» e il «distacco osservativo [ diventa discrezione e si fonde con un senso di empatia che si comunica allo spettatore» (Marazzi, 2002, p. 118). Anche se MacDougall ha scritto che una delle strutture dominanti del cinema d’osservazione è la «logica della conversazione» (MacDougall, 1998, p. 157), occupare una posizione defilata, come starsene in disparte mentre le cose “accadono”, talvolta è più una necessità che una libera scelta, poiché senza la conoscenza del la lingua è impossibile interagire consapevolmente con le persone che vogliamo descrivere.
Un tale approccio lascia la gestione dell’inquadratura (apparente mente) nelle mani dei soggetti filmati e apre il film all’autorappresentazione e a una interpretazione da parte dello spettatore libera da rigide indicazioni del filmmaker. MacDougail osserva che «il filmmaker non può essere la persona migliore per decidere per lo spettatore i termini in cui il film deve essere letto, Essi devono essere trovati nei film stesso».
Sebbene, una volta finito il film, noi possiamo osservare e ascoltare ciò che in A Wife among Wives i nativi dicono quando dialogano fra loro e con l’interprete, grazie anche ai sottotitoli, dell’atteggiamento contemplativo di MacDougall il film conserva ovviamente la traccia, tanto che potremmo parlare, in questo caso, non di cinema d’osservazione ma di cinema di contemplazione, concetto nel quale mi sembra di poter condensare la poetica etnocinematografica di MacDougall.
Ciò non ha impedito a MacDougall di restituirci delle etnografie complesse e sensorialmente dense, come i tre film della Turkana Conversations Trilogy, un’antropologia sociale in cui si intrecciano i temi della poliginia, della tradizione, della parentela, del pastoralismo.
MacDougall è stato fra i primi a difendere il film etnografico per le sue potenzialità di rappresentare, meglio della scrittura, l’esperienza sensoriale. «La rappresentazione visiva esprime facilmente il comportamento emotivo esteriorizzato e gli indizi visivi legati all’identità che la descrizione scritta esprime solo con qualche difficoltà» (MacDougall, 1998, p. 257).
Lo studioso e filmmaker australiano giunge a proporre uno specifico campo di studi antropologico, gli experiential studies, che potrebbe essere più ampiamente definito come antropologia della coscienza — che studierebbe «il flusso di coscienza nella vita quotidiana, quella mistura di esperienza sensoriale e cognitiva che la coscienza percepisce come un campo integrato» (ivi, p. 272)
Ma, il punto fondamentale resta la centralità del dialogo e della conversazione come luoghi in cui si costruisce la relazione intersoggettiva, pur riconoscendo alla condivisione sensoriale — per esempio nelle situazioni di commensalità dove l’antropologo condivide sapori, odori, sensazioni tattili — un ruolo chiave nel creare un ponte di comunicazione verso l’altro.
La capacità del film di rappresentare l’esperienza sensoriale e il mondo interiore delle persone, come qualsiasi altra cosa, non è una caratteristica dello strumento in sé ma una conseguenza della qualità della relazione umana esistente fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del film. Se così non fosse, se la relazione umana fosse irrilevante, si potrebbe tornare a riprendere gli altri nella loro diversità osservandoli da lontano e zoomando sui loro volti, come se fossero animali in un documentario naturalistico. Dunque, affermare la priorità del dialogo esprime la centralità dell’etnografia la cui identità scientifica è fondata sul metodo dialogico, oltre che sull’osservazione partecipante. AI film non resta che visualizzare i significati emersi nel corso della vita sociale filmata, della relazione con l’etnocineasta e il ruolo che i sensi hanno nella loro costruzione.






9. Il cinema d’osservazione come etnografia pratica



Paul Henley ha esplicitamente affermato che: «il termine “cinema d’osservazione” è stato applicato a una varietà di diverse pratiche di filmmaking documentaristico, alcune di esse basate su principi e strategie reciprocamente contraddittori. A un estremo il termine è stato usato per indicare il filmare senza nessun coinvolgimento con i soggetti, i quali sono ripresi a distanza, come se si fosse su una torre di controllo, allo scopo di conservare una supposta oggettività “scientifica”. All’estremo opposto, può essere usato da documentari televisivi con un po’ più di riprese lunghe, un po’ meno commento e un pò meno interviste di quanto normalmente si veda in tali produzioni» (Henley, 2004, p. 109).
Così come si insegnava alla fine degli anni Sessanta all’Ethnographic Film Training Program della University of California di Los Angeles (Ucla) il cinema d’osservazione si basa sull’idea che con «la rigorosa osservazione dei dettagli delle interazioni e degli eventi sociali, è possibile giungere a signifi cative intuizioni, non solo per quanto riguarda le peculiari e personali motivazioni dei soggetti, ma anche per le più ampie realtà sociali e culturali del loro mondo sociale. Il filmmaking fondato su tale processo di osservazione dà particolare rilievo al seguire le azioni dei soggetti e a registrarle nella loro interezza, piuttosto che a dirigerle secondo un progetto culturale o estetico preconcepito. Tuttavia, molto importante, rispetto all’enfasi sull’osservazione, è anche l’intenzione di essere partecipativi, nel senso che l’osservazione deve idealmente avere luogo all’interno di una relazione di comprensione e rispetto del tipo che può sorgere solo quando il filmmaker ha attivamente partecipato al mondo dei soggetti per un lungo periodo di tempo» (ibidem).
Un tale tipo di metodo etnocinematografico, nonostante tutte le sue varianti, presenta fortissime analogie con l’osservazione partecipante, il metodo antropologico per eccellenza: l’assenza di giudizi morali sulle persone “osservate”, l’interesse per le vite quotidiane di persone ordinarie, l’indifferenza per il “bello” stile della descrizione etnografica, sono elementi comuni fra coloro che fanno “cinema d’osservazione”.
il film è uno strumento di ricerca fondamentale: «il potenziale del film d’osservazione [ è quello di] rendere gli aspetti soggettivi e incorpati dell’esperienza umana così frequentemente omessi dai resoconti scritti» (ivi, p. 112). Ecco allora che il film etnografico è una vera e propria «etnografia pratica», come scrive Henley; e allora, innanzitutto, bisogna «distinguere il potenziale del cinema d’osservazione come uno strumento per produrre conoscenza antropologica dal suo potenziale di strumento per rappresentare tale conoscenza» (ivi, p. 116).
In effetti, il cinema d’osservazione comporta due processi temporalmente distinti di scoperta e partecipazione: prima quello del filmmaker che segue le azioni dei suoi soggetti invece di lavorare a una sceneggiatura predeterminata; e poi quello dello spettatore «dal momento che è invitato a dare un significato al materiale che il film gli presenta» (ibidem). In questo contesto produttivo, il commento della voce off o l’enfasi sugli aspetti estetico-formali del film diventano inopportuni, poiché «diminuiscono quella congruenza fra il soggetto [ film] come esperito dal filmmaker e il film come esperito dallo spettatore».
Inoltre bisogna ricordare che non è soltanto il filmmaker a partecipare alla vita dei soggetti che filma, ma sono anche questi ultimi che possono partecipare alla realizzazione del film, discutendo e collaborando con l’etnocineasta sui modi di realizzazione del film.
La Labanotation è un sistema per rappresentare e analizzare il movimento umano, in particolare la danza, elaborato dallo studioso Rudolf von Laban vissuto fra il 1879 e il 1958. Lab pubblicò i primi risultati della sua ricerca nel 1928 con il titolo Kinetographze.


CAMERA ETNOGRAFICA STORIE E TEORIE DI ANTROPOLOGIA VISUALE Parte Sesta (6/6)


6. Poetiche del film etnografico


1. Teorie del realismo cinematografico: Kracauer e Bazin
 
Nel primo capitolo abbiamo accennato a come l’antropologia sia passata da modelli “bidimensionali” volti alla “mappatura” delle culture a modelli “tridimensionali” che cercavano le strutture profonde della realtà, le matrici della cultura, i significati impliciti dei fatti culturali. Queste due immagini, insieme dell’antropologia e del realismo etnografico — realismo etnografico co me descrizione degli elementi che compongono una cultura e realismo etnografico come rivelazione di un senso più profondo — trovano una corrispondenza con due fondamentali teorie del cinema, il realismo fisico di Kracauer e il realismo ontologico di Bazin (cfr. Casetti, 2002).
Per Kracauer, il film, come la fotografia, «riproduce la realtà fisica veramente esistente, il mondo passeggero in cui viviamo» (1962, p. 87).
Come sintetizza Casetti, «per Bazin la base realistica del cinema nasce da una partecipazione; per Kracauer si concreta in una capacità di documentazione. Partecipazione e documentazione, o verità delle cose e realtà dei fatti: le due tendenze sono chiare. E su di esse che la teoria del realismo cinematografico si misura; è attorno a esse che la ricerca in definitiva ruota» (ivi, p. 42). Non può sfuggire la relazione fra queste teorie del realismo cinematografico e il film documentario.
Non riconosciamo soltanto una distinzione tra fiction e documentario, ma due atteggiamenti e concezioni del rapporto fra realtà e rappresentazione cinematografica.
La teoria di Kracauer vede nella macchina da presa uno strumento rivelatore, prolungamento dell’occhio umano che mostra la verità nascosta dei fenomeni - si pensi al film di Dziga Vertov L’uomo con la macchina da presa (1929).
Per Bazin la realtà è afferrabile attraverso la partecipazione e la figura principale di una tale retorica visiva è la profondità di campo, poiché «pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che egli ha con la realtà.
Francesco Casetti ha individuato nelle teorie del cinema tre fondamentali paradigmi teorici. Per teoria si deve intendere «un insieme di assunti, più o meno organizzato, più o meno esplicito, più o meno vincolante, che serve da riferimento ad un gruppo di studiosi per comprendere e spiegare in che cosa consiste il fenomeno in questione» (Casetti, 2002, p. 2).
Il primo paradigma è quello delle teorie ontologiche che si sono sviluppate intorno alla domanda “che cos’è il cinema?” e che al di là dei possibili e molteplici modi di realizzare un film cerca il nocciolo comune, la sua essenza.
Il secondo tipo di paradigma è quello delle teorie metodologiche, ambito in cui ci si pone il problema di analizzare il cinema da un particolare punto di vista: «l’attenzione si sposta dunque verso i modi in cui è impostata e condotta la ricerca: ciò che viene in primo piano è la necessità di scegliere un’ottica determinata e di modellare su questa tanto la raccolta dei dati quanto la loro presentazione» (ivi, pp. 16-17).
Il terzo paradigma è quello delle teorie di campo; qui «ciò che emerge non è più né un’essenza né una pertinenza, ma piuttosto un campo di interrogativi, o se si vuole una problematica . Più che il bisogno di definizioni o la volontà di analisi, qui domina il gusto dell’ esplorazione» (ivi, pp, 17-18).

2. Il documentario: in cerca di una definizione

E' utile tentare di dare una definizione di film documentario partendo da una distinzione tra film di finzione e film documentario. Una prima differenza sta nella presenza o assenza di una realtà alla quale il testo fa costante riferimento. Ciò tuttavia non garantisce che l’autore del documentario non sia intervenuto sulla realtà per manipolarla fino a “falsificarla”. Di conseguenza il criterio con cui distinguere un documentario da un fim di finzione non può essere quello del riferimento o meno a una realtà extratestuale pre-esistente.
Non è sufficiente l’intenzionalità dell’autore, il desiderio che il suo film venga percepito come “documentario”; occorre anche «un patto enunciativo all’interno del quale anche lo spettatore lo accetti come tale».
Con quali marche enunciative l’autore di un film può orientare il lettore verso una “lettura documentarizzante”? I segnali che l’autore può lanciare affinché il suo film venga letto come documentario possono essere di diverso tipo, ma possiamo individuare almeno due ampie tipologie: marche testuali e extratestuali.
Le prime appartengono al testo audiovisivo e possono riguardare tanto gli aspetti visivi che sonori del film.
Tra gli elementi extratestuali che intervengono dobbiamo considerare, per cominciare, il contesto in cui il film è proiettato. Un cineasta, sottoponendo il suo film al comitato di selezione di una manifestazione dedicata al documentario, intende essere identificato come un autore di documentari e chiede che la sua opera sia ascritta al genere documentario. Altri aspetti extratestuali attraverso cui “segnare” il film come “documentario” sono il trailer, la copertina della videocassetta, i canali e il circuito di distribuzione e, infine ma non in ultimo, le recensioni che il film riceve e le riviste dove vengono pubblicate. Dalla parte dello spettatore, si hanno aspettative differenti nei confronti del film se stiamo per assistere a una proiezione nell’ambito del Festival dei Popoli piuttosto che del Festival del cinema di Venezia.
Il genere cui il film viene ascritto discende dal patto comunicativo che l’autore propone allo spettatore, e che i significati che attribuiamo alle aggettivazioni “documentario” e “etnografico” sono storicizzati, cioè determinati dal contesto culturale, storico e sociale in cui quelle categorie vengono utilizzate in relazione alle coeve pratiche filmiche e riflessioni teoriche.
il termine teoria indica uno o più enunciati fra loro correlati che spiegano coerentemente il funzionamento di fenomeni che si svolgono attualmente o che si sono svolti nel passato.


3. Poetiche oggettivanti

Nel caso del film etnografico, le teorie ontologiche dello schema casettiano corrispondono all’ingenuità positivista e alla distinzione fra arte e scienza. Il positivismo riteneva di poter trasferire fedelmente nel documento prodotto la verità del fenomeno osservato, cioè di poter riprodurre in esso l’essenza, la struttura essenziale dell’evento. E’ il metodo scientifico che garantisce l’oggettività del documento prodotto, e se que sto metodo prescrive la distanza e la rimozione della soggettività, allora l’arte, che è creazione soggettiva, non può produrre scienza e deve restare lontana da quest’ultima. Quest’area epistemologica appartiene alle poetiche che, nel corso del film etnografico, chiameremo oggettivanti.


4. Poetiche soggettivate

La seconda prospettiva, in analogia con Casetti, è la prospettiva metodologica. Qui si preferisce utilizzare il concetto di poetiche soggettivate. Il concetto di soggettivazione richiama un processo in cui un soggetto si definisce e si afferma come tale. Nel nostro caso il termine si aggancia in questo modo alla storia dell’antropologia e in particolare a quel momento storico in cui la disciplina si è professionalizzata, rivendicando un suo metodo - l’osservazione partecipante - e ha fatto dell’antropologo un autore e un esperto. Qui, nelle teorie soggettivate, si va oltre la registrazione e la documentazione; un film, per essere etnografico, non può soltanto mostrare, ma deve anche interpretare la realtà applicando un determinato punto di vista, un metodo antropologico, una prospettiva teorica che illumina e “chiarisce” i fatti. Dal momento che l’autore si nasconde alle spalle dello spettatore, o fuori campo così come la voce off ci indica, la rappresentazione è costruita come se fosse lo spettatore in prima persona a vivere i fatti filmati, e durante la visione si crea l’illusione di una identità fra autore e spettatore.
C’è dunque uno spostamento di focus dall’oggetto documentato dal film al soggetto che osserva e filma.
Mentre nell’area delle poetiche oggettivanti si pone fiducia nello strumento stesso e nel suo corretto utilizzo secondo l’epistemologia della distanza, nelle poetiche soggettivate il rapporto fra antropologia e cinema si fa più stretto e integrato. Il focus si sposta dallo strumento al soggetto che lo utilizza. Viene richiesto al filmmaker, quindi, di agire etnograficamente, di seguire cioè un metodo riconosciuto come antropologico.
Jay Ruby, riduce tutto il cinema etnografico a «due fondamentalmente diverse concezioni della relazione fra chi filma e coloro che sono filmati. Questi approcci possono essere rilevati nei lavori di Dziga Vertov e di Robert Flaherty» (Ruby, 2000, p, 197). In realtà, il film etnografico non può essere ridotto all’opposizione fra la visione autore-centrata di Grierson e Vertov a quella nativo-centrata di Flaherty, e questi due approcci restano all’interno delle poetiche soggettivate, mentre è possibile individuare nelle poetiche enattive una reale alternativa al modello soggettivato.
Concludiamo questo paragrafo ricordando Nanook come film di confine:
l’intenzione di Flaherty di presentare la visione del mondo del protagonista fonda la qualità narrativa del film. Lo spostamento verso il modello oggettivante, invece, è rilevabile perché Flaherty tende a presentare la visione del mondo di Nanook come naturalmente emergente dalla sua stessa vita che, invece, sappiamo essere stata modellata dal filmmaker con scelte (far rivivere a Nanook tradizioni abbandonate) ed esclusioni (rimuovere i suoi contatti con il mondo occidentale). Nanook si colloca sul confine fra le poetiche oggettivanti e le poetiche soggettivate.


5. Poetiche enattive

Se è stato relativamente facile trovare delle correlazioni fra i primi due tipi di teoria di Casetti (teorie ontologiche e metodologiche) e le poetiche che abbiamo definito oggettivanti e soggettivate, più difficile è rintracciare all’interna del genere etnografico quelle che Casetti definisce teorie di campo.
L’opzione che il film etnografico si è dato nel tentativo di superare il focus sull’oggetto delle poetiche oggettivanti e il focus sul soggetto osservatore delle poetiche soggettivate, è quella della partecipazione come esperienza, come campo di esplorazione del Sé e dell’Altro, e come strumento per la riflessività. Il primo a teorizzare e a praticare il film etnografico come un’esplorazione della realtà nella quale il filmmaker è coinvolto è stato Jean Rouch negli anni Cinquanta.
In Rouch l’esigenza di fondare il filmmaking etnografico su una teoria antropologica diventa assolutamente secondaria: in primo luogo l’autore realizza il film per se stesso e per coloro che hanno donato la propria immagine all’obiettivo della macchina da presa: in questo modo l’antropologia degli altri diventa antropologia condivisa; il film va proiettato ai soggetti ripresi come controdono audiovisivo, dono di restituzione per le immagini ricevute durante le riprese. In secondo luogo il concetto di ciné-transe presuppone l’abbandono dei propri modelli culturali, delle teorie antropologiche e del cinema per riscoprire, come Rouch ha scntto, «la “barbarie dell’invenzione”» (Rouch in Feld, 2003,p. 100).
Per Rouch teoria e pratica del film etnografico, realtà e finzione, agiscono allo stesso tempo durante le riprese: una volta stabilito, come fa Rouch, che la macchina da presa produce gli eventi oltre che trasformarli, ne consegue che lo stesso filmmaker e le sue teorie possono sorgere o modificarsi sul “set”. Ovviamente, Rouch ha consapevolezza di ciò che fa, e la “assenza di metodo” diventa inevitabilmente un metodo.
Il punto principale della poetica etnofilmica di Rouch consiste nella consapevolezza, e nella conseguente messa in pratica sul “set”, che la macchina da presa non è un mero strumento di registrazione degli eventi, ma un catalizzatore di eventi; essa, con la sua presenza, li produce. Com’è noto questa non è una prerogativa dell’ etnografia filmica, ma una caratteristica di ogni ricerca sul campo; l’interazione dell’etnografo con gli interlocutori nativi produce sempre trasformazioni non solo nella cultura, ma anche nel sé dei soggetti che interagiscono.
Le teorie di Rouch costituiscono un momento di passaggio dal bipolarismo io-mondo a un modello cognitivo di tipo inattivo.
L’enazione comporta il superamento del dualismo soggetto-oggetto; essa presuppone che i due termini siano inseparabili e appartenenti a un unico fenomeno.
Per Rouch il film ha un du plice valore: serve per se stessi e per i soggetti filmati; quanto meno verrà visto da coloro che hanno collaborato.
La relazione di un soggetto conoscitore e un oggetto da conoscere muta radicalmente: entrambi finiscono per appartenere a uno stesso campo di forze e qualsiasi movimento dell’uno o dell’altro trasforma la relazione e ciascuno dei soggetti coinvolti. Stoller ci ricorda che, secondo Dewey, l’esperienza è un campo in cui pensieri, azioni, emozioni, sentimenti sono elementi inseparabili e dunque l’estetica, intesa come sensorialità, è intrinseca a qualsiasi tipo di esperienza, e di conseguenza non può esserci differenza tra film e scienza, arte e conoscenza.
Nei film di Jean Rouch, dunque, la conoscenza dell’Altro è inseparabile tanto dall’esperienza che il filmmaker fa del terreno di ricerca etnofilmica, quanto dall’esperienza stessa dei soggetti filmati che vengono ripresi nel corso di un’esperienza - quella della possessione, o del viaggio o del peregrinare in una città alla ricerca di denaro.
L’atteggiamento del filmmaker che opera secondo le regole del cinema d’osservazione risponde, invece, a una separazione fra soggetto e oggetto, e la partecipazione è solo strumentale a ottenere un equilibrio relazionale tale da non alterare il sistema.
Le osservazioni di Feld e Stoller ci introducono a una importante considerazione, anche in vista di una definizione del terzo tipo di pratiche/poetiche etnocmematografiche in cui tendenzialmente rientra l’opera di Rouch. Mentre le poetiche oggettivanti e le poetiche soggettivate tendenzialmente si oppongono per la diversa focalizzazione sui soggetti della rappresentazione, le prime centrate sull’oggetto della rappresentazione e le seconde sul soggetto che applica un punto di vista, le poetiche enattive fanno della relazione soggetto-oggetto il focus della rappresentazione: il film è il luogo dove quest’incontro avviene e si sviluppa, è occasione di un’esperienza e di conoscenza del Sé e dell’Altro.
Le poetiche enattive rifiutano i dualismi soggetto-oggetto di matrice cartesiana.
Riassumendo, possiamo dedurre come per ciascun tipo di poetica il film possa essere considerato “etnografico”.
Per la prospettiva oggettivante un film etnografico è tale quando fornisce informazioni scientifiche su una società o cultura nella sua globalità — scientifi che nel senso di “oggettive”, prive cioè di qualsiasi interferenza da parte della soggettività dell’ etno-filmmaker.
Le poetiche soggettivate considerano etnografico un film quando descrive aspetti di una cultura da una precisa ed esplicita prospettiva antropologica.
I film che si muovono nell’area epistemologica delle poetiche enattive, rappresentano tanto l’esperienza dei soggetti filmati quanto quella del filmmaker in un modo in cui il film stesso costituisce un’esperienza per entrambi e allo stesso tempo lo strumento at traverso il quale sia i soggetti che il filmmaker descrivono (e comprendono) se stessi e la propria cultura.


6. Verso una poetica dell’ipermedialità?

I tre modelli di rappresentazione - le poetiche oggettivanti, soggettivate e enattive - non si collocano in un percorso evolutivo, piuttosto, ciascun modello ha risposto a esigenze storiche specifiche e obiettivi che ancora oggi, in determinati contesti e casi, possono essere validi
Il film etnografico è concepito, oggi, come uno strumento di conoscenza che esplora la realtà avvalendosi della collaborazione dei soggetti filmati, producendo come risultato una rappresentazione nella quale alla fine si inscrive sia il sapere dell’antropologo che quello del nativo, una rappresentazione contrattata sul campo e talvolta anche in fase di montaggio. Il film etnografico non va più giudicato con un criterio di verità oggettiva, oppure di coerenza in relazione alla teoria antropologica che l’ha prodotto, ma per la sua capacità di entrare in profondità nel vissuto dell’incontro culturale tra il filmmaker e i nativi, per la facilità con cui riesce a connettere le pratiche dei soggetti ripresi alla rete di luoghi - sociali, culturali, personali con cui quelle pratiche sono imbricate fornendo così quella che Geertz ha definito una descrizione densa.
Si profila, dunque, un nuovo modello di film etnografico, dove il testo audiovisivo è terreno di rinvii intertestuali, di sguardi differenti sulla stessa realtà, dove il film è un forum in cui le diversità dialogano, si alleano, o confliggono.
Visto come una possibilità teorica, prima ancora che come una pratica concreta, il film etnografico polivocale, per soddisfare le esigenze dell’etnografia contemporanea, dovrebbe:
— privilegiare, ad un primo livello di rappresentazione, il dialogo e la conversazione a più voci rispetto alla relazione uno a uno;
— ad un secondo livello della rappresentazione, percorrere relazioni e interazioni fra i diversi punti della rete di voci, incorporare rappresentazioni reciproche e autorappresentazioni realizzate con diverse forme di comunicazione, facendo dell’intertestualità (MacDougall, cfr. cap. 2) una strategia retorica privilegiata;
— preferire le logiche meticce a quelle classificatorie: il film, evitando di definire identità, suggerendo piuttosto le dinamiche e i contesti dove vengono negoziate;
— interpretare gli eventi collettivi (per es, i riti) come arene in cui si scontrano diversi punti di vista e dove le persone costruiscono il proprio Sé;
— produrre una conoscenza etnografica densa, colta attraverso la comprensione del punto di vista nativo;
— complicare la relazione “chi filma-chi è filmato” e porre attenzione ad altri punti di vista sui fenomeni e ai nodi di relazioni che si creano fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del film e nei fatti sociali rappresentati;
— utilizzare documenti autobiografici e autoetnografici, autorappresentazioni visive sollecitate o autonomamente realizzate;
— utilizzare la video-elicitation e la photo-elicitation per problematizzare le immagini prodotte, ottenendo una lettura nativa, talvolta basata sulla me moria, e deprivarle del potere referenziale;
— storicizzare il lavoro sul campo, dichiarando le condizioni sociali e politi che in cui si è svolto l’incontro etnografico;
— esplicitare il punto di vista e il metodo utilizzato dall’etnografo, e finanche la sua soggettività (emozioni, sentimenti, sensazioni);
  • lasciare al lettore/spettatore la possibilità di scegliere il percorso di lettura/visione del testo offrendogli la possibilità di muoversi fra diverse ipotesi e punti di vista.

Sembra dunque, che il principale vantaggio offerto dalla ipermedialità consista in una migliore - nel senso di più ampia, più profonda, più densa - rappresentazione del contesto, della rete di rinvii testuali (l’intertestualità) in cui un fenomeno è inserito e del network di relazioni in cui opera un individuo. Non si tratta solo di un miglioramento, ma anche di uno spostamento nel significato del concetto di contesto. Ecco infatti che il contesto è una rete intertestuale dove ciascun nodo è importante ed è il risultato di una negoziazione fra le forze in campo (sociali, culturali, storiche, tecnologiche ecc.).
Non bisogna tuttavia concepire l’ipermedialità come uno sviluppo del film, così come non abbiamo concepito il cinema come una evoluzione della fotografia. Sono media differenti che ci offrono esperienze diverse e colgono aspetti differenti della realtà etnografica, senza presumere di restituircene copia integrale e fedele. Restano invece interessanti le possibilità di far dialogare questi media, di metterli in relazione cercando di restare coerenti con il linguaggio del medium primario, quale esso sia. E soprattutto saranno interessanti le sfide affrontate da ciascun linguaggio per cercare di essere, per quanto riguarda il film, polivocale e intertestuale e, per quanto riguarda i linguaggi ipermediali, di comunicare il rapporto fra la cultura e le esperienze sensoriali, i sentimenti e le emozioni delle persone coinvolte nella ricerca sul campo.