31 dicembre 2012

Capitolo 4: Unfinished Dialogues: Notes toward an Alternative History of Art and Anthropology


In questo capitolo Arnd Schneider analizza il confine tra discipline come l’arte, l’antropologia e la storia dell’arte. Ci propone tre esempi di personificazione, travestimento e performance della fine del XIX secolo: l’interpretazione di Franz Boas della danza Kwakiutl Hamatsa nel 1895; la maschera Hemis kachina indossata da Aby Warburg tra gli Hopi nel 1896; l’interpretazione di Alfred Court Haddon di un mito delle isole dello Stretto di Torres.
Boas ha ricreato il rituale Hamatsa per l’America Museum of National History. Ha posato anche vestito da Eskimo. Ha voluto interpretare lui stesso due scene invece che fare gli schizzi oppure prendere dei veri attori al posto suo. Il risultato non è la copia di quello che sono le realtà dei due popoli studiati, ma di come Boas li ha visti.
Lo storico Aby Warburg ha descritto il rituale del serpente degli Hopi e ha posato per un fotografo con una maschera Hemis Kachina. E’ stato criticato per questa foto in quanto la maschera non fu indossata in modo corretto. Questo gesto testimonia, secondo Freedberg, che Warburg non ha capito il vero senso del rituale. Con la maschera indossata correttamente avrebbe visto con occhi diversi la danza. Altri però si chiedono se Warburg non avesse spostato la maschera solo per la foto. L’esempio dimostra come la foto riproduce fedelmente un momento, ma non ci dà spiegazioni sul perché il quel particolare momento il protagonista si comporta in un modo o nell’altro.
L’ultimo esempio di Alfred Courd Haddon riguarda i suoi studi sulle isole dello Stretto di Torres. Il suo scritto è accompagnato da schizzi e brevi film che vedono attori del posto interpretare la morte dell’eroe locale Kwoiam.
I giornali Documents e Mexican Folkways sono due esempi di collaborazione tra l’antropologia e l’arte. Il primo fu pubblicato a Parigi nel 1929/30: tantissime pubblicazioni di artisti che consideravano l’arte dal punto di vista antropologico e antropologi che rielaboravano “artisticamente” soggetti antropologici ed etnologici. Anche in Germania e Austria, in quell’epoca, gli espressionisti visitavano i musei etnografici, ma non si arrivò mai a un vero abbattimento del confine tra le due discipline. La stessa cosa si può dire anche della Gran Bretagna, dove scambi transdisciplinari non erano frequenti.
Anche il giornale Mexican Folkways fu testimone della collaborazione tra l’arte, l’antropologia e la storia dell’arte negli anni 1920-1930. Fu pubblicato nella Città di Mexico da un americano, Frances Toor, laureato in antropologia presso l’Università di California. Gli autori furono spesso artisti, antropologi, scrittori che si dividevano tra gli Stati Uniti e Messico e i loro articoli riguardavano l’arte locale, l’arte creata per i turisti americani. Il giornale fu anche una sorta di pubblicità per il commercio di articoli prodotti per gli americani. Il Mexican Folkways era molto meno radicale, dal punto di vista formale e teorico, del Documents.
Maya Deren, una regista che studiò il movimento del corpo e la danza, è stata un esempio della collaborazione tra arte e antropologia. Nel 1946 ottenne una borsa di studio Guggenheim con l’aiuto di Gregory Bateson e usò i soldi per compiere un viaggio a Haiti per studiare sul campo la cultura Vodun e i suoi riti. Raccolse numerose ore di materiale filmato sui riti locali e in particolare quelli legati alle performance di possessione. L'interesse per il Vodun fu così grande che si trasformò infine in una vera e propria adesione ai principi spirituali di questa religione.
L’iniziale intenzione della Duren era di produrre un film documentario sui riti Vodun ma dopo aver provato personalmente la possessione, decise che un libro era il modo migliore per testimoniare questa esperienza. L’esperienza della possessione consisteva nel sentire la presenza degli Dei che entravano in contatto con il posseduto. Essendo invisibili, questi Dei possono essere raccontati da chi ha sentito la loro presenza, ma non visti dagli spettatori. Questo è un esempio dove il film come mezzo visivo non può essere utilizzato.
Per molto tempo l’antropologia dell’arte faceva distinzione tra l’arte occidentale, quella che ha fatto la storia dell’arte, e l’arte non-occidentale, quella dei primitivi, dei popoli esotici. Il primo che ha preso seriamente in considerazione l’arte africana è stato Carl Einstein nel 1915. Ha riconosciuto il valore artistico dell’arte sub-Sahariana e la sua importanza per artisti “moderni” come Picasso e Braque.
L’antropologia dell’arte del XX secolo cerca di mantenere una divisione tra l’arte occidentale e non-occidentale per studiare meglio quest’ultima e l’influenza che gli Europei hanno avuto su di essa.

28 dicembre 2012

Capitolo 3: Visual Anthropology and the Built Environment: Interpretations of the Visible and the Invisible

L’architettura è fatta per avere un impatto visivo sull’uomo e non può essere studiati senza l’impiego dei metodi visivi. L’antropologia che studia l’architettura riguarda le relazioni tra quest’ultima e l’ambiente, la parentela, la suddivisione dei ruoli maschili e femminili, i rituali, la storia e lo stile di vita.
La costruzione della casa, con o senza l’aiuto dell’architettura, è da sempre un universale impulso culturale. Avere un posto da condividere con persone con cui si ha una relazione, possedere una casa fa parte della natura umana. Le case possono essere di vari tipi in base alla cultura delle persone che vi abitano. Possono essere case disegnate per durare nei secoli oppure essere mobili, come nel caso dei nomadi che si spostano con le loro tende in continuo; possono essere imponenti oppure quasi invisibili (i ripari di foglie dei Punan nelle foreste del Borneo). In tutti questi casi abbiamo bisogno di vedere e capire le trace visibili che ci offrono le diverse costruzioni per comprendere la cultura dei loro abitanti.
Con architettura vernacolare si intendono le forme architettoniche-edilizie che appartengono alla tradizione più antica dell’uomo (dalle tende dei nomadi alle tombe celtiche fino ai portici come dispositivo urbano) e che non sono attribuibili a nessun progettista o autore in particolare. Nel passato quasi la totalità delle abitazioni veniva costruita dai propri abitanti. Secondo Paul Oliver, negli anni Ottanta soltanto il 5% delle abitazioni è stato costruito con l’aiuto di professionisti, ma quelli disegnati da architetti erano meno dell’1%.
In Africa le donne sono le principali costruttrici delle case di fango e materiale vegetale. Il film Building Season in Tiebele è un documentario sulla costruzione delle tipiche case in terra cruda dei kassena (etnia del distretto Tiebele di Burkina Faso, Africa). Le costruzioni hanno forma arrotondata, senza finestre verso l’esterno e hanno le pareti esterne affrescate con disegni geometrici realizzati dalle donne sposate. I disegni rappresentano oggetti di vita quotidiana e animali. Il particolare impianto di questi villaggi aveva scopo difensivo. Le case costruite da molte società dell’Asia Sudorientale sono, invece, opera degli uomini adulti, molto abili nella lavorazione del bamboo e del legno.
Questi sono due esempi di architettura vernacolare che riflette le culture, le usanze, le storie dei popoli. Questa architettura è molto più interessante per gli studi antropologici degli edifici costruiti dai professionisti. Gli antropologi studiano anche l’architettura moderna opera degli architetti, tenendo conto, però, che gli edifici progettati rispecchiano il loro stile e non quello di chi vi abiterà. L’architettura vernacolare è in netto contrasto con quella moderna e spesso è vista in modo negativo dagli architetti in quanto non-moderna.
Gli antropologi sono molto attenti al significato sociale dell’architettura ma poco pratici nel disegnare e analizzare le tecniche di costruzione. Gli architetti, al contrario, possono riprodurre perfettamente gli edifici ma prestano poca attenzione al loro lato sociale e al loro significato. Una soluzione sarebbe insegnare le tecniche di disegno e fotografia agli antropologi ma, per quanto portati, non avranno mai le qualità degli architetti. Un’altra soluzione potrebbe essere una collaborazione, ma spesso gli architetti sono troppo ambiziosi per “perdere tempo” a prendere misure e disegnare case antiche per poi lasciare l’interpretazione del significato sociale agli antropologi.
Il contributo più significativo per lo studio dell’architettura vernacolare è stato dato da Paul Oliver. Dopo svariati studi sul campo in zone colpite da calamità naturali, ha introdotto il master in International Studies in Vernacular Architecture all’Oxford Brookes University. Ha pubblicato anche l’Encyclopedia of Vernicular Architecture of the World in tre volumi.
Molto importanti sono anche le ricerche e gli studi di Labelle Prussin (African Nomadic Architecture: Space, Place and Gender), che si definisce “architetto e storico dell’architettura”. Ha studiato alcune società nomadi dell’Africa e il modo di trasportare con sé tutta la loro vita. Impacchettare la propria casa e caricarla su un cammello sono abilità straordinarie, riservate alle donne, che solo se provata dai ricercatori riesce a essere apprezzata veramente. La Prussin ha raccolto fotografie e disegni che testimoniano queste straordinarie tecniche, che le ragazze imparano ancora in tenera età giocando con tende in miniatura.
Molte culture hanno dovuto fare i conti con i tempi moderni. E’ il caso delle tradizionali case balinesi. L’aumento della popolazione urbana (quintuplicata a Denpasar) ha portato la popolazione locale a usufruire dell’architettura moderna per trovare spazio per tutti. Non è possibile riprodurre le case tradizionali come in campagna e si cerca con l’aiuto dei professionisti ad adattare lo spazio che si ha a disposizione al numero sempre crescente di persone che abitano in città. Un cambiamento molto importante è stato la suddivisione interna come nelle case occidentali (stanze con funzioni diverse).
L’antropologia visiva, nel caso dell’architettura vernacolare, dovrebbe servirsi più spesso dei media visivi, come il video. Il caso del film Building Season in Tiebele documenta tutto il processo della costruzione delle case tradizionali, ci dà un quadro completo del lavoro svolto, della suddivisione dei lavori, dell’importanza del lavoro femminile in questa società.
Lo studio dell’architettura vernacolare è un ramo molto importante dell’antropologia, sottovalutato nel passato, che consente di conoscere il modo di vivere di tanti popoli nel mondo. Per farlo nel migliore dei modi deve ricorrere ai media visivi e alla collaborazione tra architetti e antropologi.

26 dicembre 2012

Teatro Milanese - Aggiornamento al 26/12

Ciao a tutti,
al momento il nostro lavoro di analisi e decostruzione delle interviste ci ha portato ad individuare 4 macro-argomenti che stanno alla base dello sviluppo analitico del nostro oggetto di ricerca.
Come avrete notato dai video postati in precedenza, abbiamo selezionato degli spezzoni da ciascuna intervista, che abbiamo poi classificato all'interno delle 4 tematiche e da questi siamo poi partite per comporre la nostra story board.
I 4 macro-argomenti che abbiamo affrontato e che vorremmo presentare nella nostra microetnografia sono:

  1. Chi sono i Barlafuss e qual è il loro modo di fare teatro?
  2. Cosa viene rappresentato nella commedia "Fortunna e daneè hinn semper dispiaseè"?
  3. Cos'è il dialetto milanese e cosa rappresenta per loro?
  4. Cosa li spinge a portare avanti il teatro dialettale milanese al giorno d'oggi?
A presto,
Alessandra e Sonia

23 dicembre 2012

Teatro Milanese - Aggiornamento al 23/12

Ciao a tutti,
 
il weekend scorso (nonostante le condizioni meteorologiche un po' avverse :) ) siamo riuscite a incontrare Alfredo Vigo (presidente della compagnia), che ci ha gentilmente permesso di filmare e riprendere la loro sede, accompagnandoci personalmente all'interno della struttura.
Abbiamo potuto riprendere la chiesa (dall'esterno), l'ingresso dell'oratorio, il salone dell'oratorio, il piccolo ma ben attrezzato teatro, il palco, la cabina di regia e lo scantinato dove realizzano le scenografie.
 
Queste riprese ci saranno utili per realizzare l'introduzione del video. Nonostante le prime incertezze, abbiamo infatti deciso di optare per la prima opzione (tra le due esposte nel precedente post), ovvero di cominciare con una ripresa ambientale della sede, mantenendo una voce fuori campo che illustri brevemente la compagnia.
 
Per quanto riguarda l'introduzione, però, siamo ancora indietro, nel senso che non abbiamo chiare idee di come realizzarla. Ci penseremo e vi faremo sapere.
Ciao,
Alessandra e Sonia

21 dicembre 2012

Teatro Milanese - Aggiornamento 21/12

Ciao a tutti,
vi postiamo questi video: in questo momento stiamo lavorando sulle singole interviste e nello specifico sul ruolo degli attori dello spettacolo che abbiamo visto "Fortuna e danee hinn semper dispiasee", e insieme sulla tematica della casa di ringhiera.

Ciao
Sonia e Alessandra

http://youtu.be/vfFb5s8hQ9Y
http://youtu.be/rcjss4rcN7s
http://youtu.be/gnDF76GP1_w

Capitolo 2: Material Visions: Dress and Textiles



Non solo è stata prestata pochissima importanza dagli antropologi ai tessuti e agli abiti, ma quelli che, comunque, l’hanno fatto, li hanno trattati come elementi materiali e non visivi dell’antropologia. L’abito è visto oltre che come un qualcosa che avvolge il corpo anche come una seconda “pelle sociale”.
Tessuti e abiti sono spesso trattati separatamente nel campo dell’antropologia visiva. Per Eicher e Roach-Higgins, il vestito è l’insieme di modifiche e aggiunte apportate al corpo, mostrate dalle persone durante la comunicazione con gli altri esseri umani. Eicher la inoltre definito il vestito come un sistema sensoriale codificato di comunicazione non verbale, che aiuta le persone nell’interagire con gli altri nel tempo e nello spazio.
La relazione tra l’antropologia visiva e i tessuti/abiti è rappresentata nei media visivi (foto e film documentari) che analizzano i tessuti e i processi di produzione, consumo e utilizzo di questi tessuti. Questa documentazione può essere diretta o indiretta, i tessuti potrebbero essere l’oggetto prescelto dei media oppure possono semplicemente apparire casualmente nelle foto o nei film che rappresentano altro.
I materiali visivi sono stati utilissimi nelle descrizioni e classificazioni dell’abbigliamento di popoli multiculturali. E’ stato grazie a questi materiali che a volte involontariamente sono state immortalate usanze e costumi di alcuni popoli. Nell’Ottocento fotografi come James Henry Green, dedicarono particolare attenzione allo studio di una vasta quantità di tessuti dalla Birmania. Nel Ventesimo secolo l’interesse dell’antropologia nei confronti dell’abbigliamento diminuì significamene, e di conseguenza sono stati pochissimi i casi in qui i vestiti sono stati i protagonisti per i media visivi. C’è stato poi un ritorno d’interesse verso l’abbigliamento e le decorazioni del corpo negli ultimi 20 anni.
Gli abiti e i tessuti non sono solo soggetti della rappresentazione visiva, ma sono loro stessi un potente media visivo. I film etnografici rappresentano le relazioni tra l’abbigliamento, i valori umani e le identità. Uno di questi film, il documentario Highway Courtesans, racconta del cambiamento della sua protagonista che dopo la fine della storia con il suo fidanzato finisce per fare la prostituta e uno dei segni più espressivi del suo cambiamento è l’abbigliamento. I jeans, un capo che il suo ex non approvava, segno di ribellione, di un taglio netto con il passato, non sarebbero niente di particola su una ragazza europea ma, nel caso di una ragazza indiana, portano un preciso messaggio.
Grazie alla moda, spesso si riescono a portare abiti appartenenti ad altre epoche, si rimane legati al passato. Nelle grandi città, dove si ramane estranei molto di più che nei piccoli centri rurali, tramite la moda e l’abbigliamento si riesce a comunicare con gli altri con i vestiti, con un proprio stile che le persone scelgono.
I capi d’abbigliamento possono condizionare i movimenti e gli atteggiamenti della persona che gli indossa. Possono nascondere o mostrare; ogni persona dà qualcosa della sua personalità ai capi che indossa e viceversa. Un esempio di abito che si modella sulla persona è il sari indiano.
I capi di abbigliamento possono oltre che valorizzare e mostrare certe caratteristiche del corpo anche nasconderle. E’ il caso del velo che utilizzano le donne nel mondo musulmano. Il ruolo di questo particolare capo è duplice: da una parte nasconde la donna, protegge la sua intimità, dall’altra, però la rende più visibile come parte di una comunità. E’ difficile non notare una donna velata e associarla alla sua cultura anche se rimane nascosta la sua persona.
Dobbiamo tenere conto del fatto che gli abiti oltre a rappresentarci sono anche in contatto con il nostro corpo. Il corpo senza vestiti così come i vestiti non indossati non hanno senso, sono senza anima. Il corpo che gli abiti avvolgono gli dà vita, movimento, personalità.
I capi d’abbigliamento hanno, certamente, anche un posto importante come elementi materiali. Al contrario del colore, il taglio, lo stile che sono visibili a tutti, il rumore che producono certi tessuti è a portata solo delle persone che sono abbastanza vicine da poterlo sentire. Lo stesso vale della morbidezza, dell’odore che hanno i vestiti e chi li indossa.
Gli abiti sono un modo di comunicare con il mondo, un modo di dare un’idea della nostra personalità anche a chi non ci conosce. Ovviamente anche come appariamo agli occhi altrui, dipende molto da come loro hanno imparato a vedere il mondo, come abbiamo visto nel primo capitolo. Gli stessi capi possono essere belli o meno belli negli occhi delle altre persone.

 

 

19 dicembre 2012

Capitolo 1: Skilled Visions: Toward an Ecology of Visual Inscriptions


Cristina Grasseni analizza, in questo primo capitolo del libro Made to be Seen, le abilità visive come un atto sociale, un interagire attivo con il mondo, l’insieme delle esperienze personali in un ambiente strutturato che ci portano ad avere una visione personale del mondo.

Le diverse culture portano le persone a vedere la stessa cosa in modo diverso. L’ambiente in cui viviamo influenza il nostro modo di vedere il mondo. Uno degli esempi a conferma di questa teoria è lo studio etnografico, effettuato dalla stessa Grasseni, sugli sguardi degli allevatori di una razza di mucche da latte (Italian Brown).

I bambini degli allevatori giocano con miniature di mucche che sono perfette dal punto di vista fisico per gli standard di questa razza (un modello perfetto). Sono influenzati da questi manufatti e dai discorsi dei genitori che descrivono le mucche. Questi bambini, grazie al contesto sociale in cui si trovano, imparano ad apprezzare caratteristiche di questi animali, che negli occhi degli altri non sono niente di speciale. Osservando quotidianamente le miniature "perfette", i figli degli allevatori incorporano lo standard. L’“essere un bell’animale” dipende da come uno impara a vedere questa “bellezza”.

La questione principale nei dibattiti epistemologici dell’antropologia visiva è: E’ possibile avere un giudizio visivo universale? Come facciamo a essere d’accordo su com’è il mondo? Ci aspettiamo che tutto quello che è sotto gli occhi di tutti, è visto da tutti nello stesso modo, mentre accettiamo il fatto di sentire i gusti o gli odori in modo diverso. Abbiamo la presunzione di pensare che siamo capaci di riprodurre rappresentazioni giuste del mondo.

Mentre Bruno Latour sottolinea la codifica convenzionale dei giudizi, dei registri, dei logbook, e di tutte le regole di verifica che i pedologi, i botanici e gli antropologi seguono al fine di garantire uno scambio d’informazioni valido tra le loro inscrizioni e il mondo (lo studio del suolo a Boa Vista con lo schema Munsell), Goodwin, sottolinea proprio gli aspetti idiosincratici di queste regole, il fatto che riportano sempre gli schemi e le norme dei contesti locali in cui vengono applicate queste regole (“La nerezza del nero”).

Il contesto sociale in cui viviamo e il modo in qui impariamo a vedere le cose sono responsabili delle fotografie e delle rappresentazioni che faremo delle cose che ci circondano.

16 dicembre 2012

Teatro Milanese - Aggiornameto al 16-12

Ciao a tutti,

in questo momento stiamo procedendo con due tipi di lavoro:
- da un lato stiamo riguardando il video che ci ha consegnato il presidente della compagnia con la riprese dello spettacolo, per individuare le scene più suggestive ed esaurienti che possano mettere in risalto l'esplorazione della nostra ricerca (come dicevamo nel post precedente), in modo tale da estrapolarle ed inserirle in seguito nel filmato
- dall'altro, a seguito dell'analisi delle interviste, abbiamo suddiviso in tematiche i vari spezzoni, così da rendere il tutto più gestibile e da poterci ora concentrare sullo sviluppo logico e analitico del futuro filmato.

Ci risulta ancora difficile dare un inizio al video (oltre ovviamente al logo e al titolo). Seguendo lo schema Cedrini (come consigliato da Sara) abbiamo pensato di iniziare
- o con una presentazione ambientale del luogo presso cui la compagnia i Barlafuss si incontra, usando la modalità del voiceover che illustra l'ambientazione, il luogo e introduce la compagnia teatrale
- o direttamente con l'esplicazione di uno dei membri della compagnia sulla compagnia stessa.

Alessandra e Sonia

13 dicembre 2012

Teatro Milanese - Analisi Interviste

Ciao a tutti,

vorremmo aggiornarvi sugli sviluppi del nostro lavoro riguardante il teatro dialettale milanese.

Qualche giorno fa abbiamo terminato le interviste con alcuni attori della compagnia i Barlafuss che si sono resi disponibili ad incontrarci dopo una settimana passata tra telefonate e appuntamenti telefonici per trovare i migliori incroci tra impegni nostri e loro.
Siamo riuscite a fissare ed effettuare 3 interviste per un totale di 4 intervistati (in una di esse abbiamo infatti incontrato in contemporanea marito e moglie che recitano insieme).
A tutti gli intervistati abbiamo sottoposto le stesse domande, cercando di esplorare attraverso la loro esperienza l'importanza che conferiscono al dialetto, la loro passione per il teatro, le motivazioni e il senso che li spinge ancora oggi a perseguire questa modalità di comunicazione e intrattenimento.
Nelle risposte alle nostre domande si possono trovare delle somiglianze, ma anche delle riflessioni personali e delle esperienze di vita che ci sembra importante inserire durante lo sviluppo dell'elaborato finale.
Quello che ci è sembrato particolarmente interessante è che, oltre alle risposte dirette alle nostre domande, sono emersi durante le interviste anche nuovi aspetti e nuovi spunti di riflessione. Sono anche capitati momenti di emozione e commozione, sia nostra che loro. Ad esempio, è stato emozionante vedere la signora Gemma (protagonista femminile della commedia) che si è commossa un paio di volte nel ricordare attimi della sua vita che ben si rispecchiano nelle scene rappresentate sul palco. Ed è stato molto divertente assistere e riprendere i "battibecchi" della coppia di coniugi (rispettivamente la portinaia e il brigadiere della commedia). Tutti questi momenti hanno contribuito a caricare la nostra ricerca di sentimento, ilarità e rapporti personali.
Al momento stiamo rivedendo e analizzando le interviste in modo tale da decostruirle, ordinarle e archiviarle a seconda delle domande che ci eravamo poste a inizio ricerca. Il tutto con il supporto di appunti e schemi su ogni singola intervista, che ne riassumono il contenuto, le domande-risposte e i diversi passaggi. Dobbiamo dire che la "trascrizione schematica su carta" dell'intervista ci è molto utile, ci permette di avere tutto sott'occhio e di non perderci dei passaggi che andrebbero altrimenti dimenticati con la sola visione del video.
Nel concreto, oltre a essere sommerse di fogli e foglietti, siamo ancora in fase di sperimentazione col programma i-movie, col quale stiamo pian piano prendendo confidenza.

Oltre alle riprese effettuate durante le interviste, abbiamo anche del materiale che ci è stato consegnato dal presidente della compagnia (un DVD) e qualche ripresa effettuata da noi durante lo spettacolo del 10 Novembre, che vorremmo utilizzare per per arricchire la ricerca (con immagini relative alla sceneggiatura, alla gestualità, alla pratica linguistica...).
Concludiamo postando alcuni video fatti fino ad ora.
Alessandra e Sonia

12 dicembre 2012

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 6. Poetiche del film etnografico

Nel sesto capitolo si tenta di individuare alcuni modelli teorici del film etnografico: Marano analizza così quelle che chiama poetiche oggettivanti, soggettivate e enattive.
Le prime sono quelle proprie di autori che hanno messo in rilievo la forza riproduttiva delle immagini e di conseguenza la necessità di occultare il filmmaker dal processo di realizzazione del film, così da poter evitare una modifica della realtà dovuta alla sua presenza.
Si possono includere nel campo delle poetiche oggettivanti tutte le opere prodotte in quel particolare periodo storico in cui si credeva di dover dare valore scientifico al film etnografico.
Alle poetiche soggettivate invece si possono ascrivere tutti i lavori in cui si va oltre la registrazione e la documentazione, quando il film smette di essere uno strumento che può solo mostrare e comincia ad essere uno strumento che deve anche interpretare.
Il filmmaker non deve più nascondersi, al contrario si rende visibile, diventando portatore di un punto di vista, commentando con la voce.
Il fatto di essere “visibile”, presente solo con la voce, crea nello spettatore l’illusione di vivere il film in prima persona.
Chi guarda è ora in primo piano al posto del soggetto filmato.
Un ulteriore spostamento di focus si ha nel modello delle poetiche enattive, nelle quali in primo piano si ha la partecipazione, l’esplorazione del Sé e dell’Altro, la relazione fra soggetto e oggetto.
Rouch fu uno dei primi a stabilire come la presenza del filmmaker e della macchina da presa producano gli eventi, in modo tale che il filmmaker stesso possa vedere le sue teorie modificarsi sul set/campo.
Colui che filma e colui che è filmato cominciano a far parte di uno stesso campo di forze modificato da qualsiasi movimento dell’uno o dell’altro, ciascuno dei soggetti e la relazione che li lega sono quindi costantemente in “movimento”, in trasformazione.
Il film è il luogo in cui avviene questo incontro, in cui si supera la soglia tra chi filma e chi è filmato e di conseguenza è allo stesso tempo il luogo in cui si sviluppa una conoscenza reciproca e di se stessi. Il film diventa interazione, luogo in cui si produce una realtà.
La realtà non è più assoluta ma è ciò che accade nel momento in cui il regista comincia a filmare; in questo senso le parole di Trinh Minh-Ha, autrice che può essere collocata nel campo delle poetiche enattive, mi sembrano esplicative: «Io posso riprendere lo stesso soggetto più di una volta, ma alla fine la prima volta risulta sempre la migliore, perché quando si ripetono i gesti si diventa sicuri di se stessi, cosa che la maggior parte dei cineasti apprezzano. Ma ciò che io prendo in considerazione è l’esitazione o qualsiasi cosa accada quando per la prima volta incontro ciò che sto vedendo attraverso l’obiettivo. Così il modo in cui si guarda diventa totalmente imprevedibile». E ancora: «La parte più affascinante sono gli ostacoli, il procedere alla cieca, gli incidenti che hanno qualcosa di magico».
Utile richiamare qui un concetto fondamentale: mi riferisco a quella che Fabietti chiama serendipity, un’antropologia del fiuto e del caso.
E’ palese la rinuncia al controllo attraverso l’osservazione, l’immersione totale in una realtà flessibile e la cancellazione di quella gerarchia “classica” che vedeva il filmmaker/antropologo un gradino più su del soggetto filmato/nativo.
Questi tre tipi di poetica nella pratica si contaminano e sarebbe sbagliato collocarli in una specie di percorso evolutivo in cui ciascuno di essi perfeziona il precedente, se è vero che in realtà ogni modello risponde a obiettivi specifici dettati da esigenze storiche.
Un quarto possibile modello che potrebbe nascere dalla necessità di dover sostenere una densità culturale che oggi si riconosce alle società e dalla voglia di inserire nel film tutte le informazioni possibili senza appesantirlo è quello che si potrebbe chiamare poetica dell’ipermedialità.
Oggi infatti tutte le informazioni sui protagonisti del film, sul contesto in cui il film è stato prodotto, sui primi contatti con i soggetti filmati vengono scartate per una questione di durata del film che sarebbe altrimenti eccessiva.
Secondo alcuni autori combinare più tecnologie potrebbe essere un modo per ovviare a problemi di questo genere: quando si parla di ipermedialità si intende infatti la necessità di utilizzare più supporti per presentare i documenti.
Il fruitore, a seconda dei suoi interessi, potrà scegliere il percorso di navigazione all’interno del “testo”, non ci saranno infatti inizi o finali già prestabiliti, tutto sarà “aperto”.
Ovviamente l’ipermedialità non è uno sviluppo del film; sarebbe però interessante far dialogare i due media tenendo sempre conto che anche in questo caso quella che si presenta non sarà mai una copia integrale della realtà bensì un’interpretazione della realtà stessa.
I lavori prodotti tenendo presente una determinata poetica non saranno più antropologici di altri, per ciascun tipo di poetica il film infatti potrà essere considerato etnografico se detiene alcune particolari caratteristiche.
Secondo la prospettiva oggettivante un film è etnografico se è “puro”, se non è contaminato dalla soggettività del filmmaker, perché solo così potrà fornire informazioni scientifiche.
Le poetiche soggettivate invece considerano etnografico un film quando contiene i crismi di uno studio antropologico e quando l’autore palesa il suo metodo.
Come scrive Rollwagen: «Coloro che non sono antropologi non possono fare film antropologici, perché non hanno il quadro concettuale necessario a trattare il soggetto in modo che sia illuminato dalla teoria antropologica».
Secondo le poetiche enattive il film stesso deve essere un’esperienza per i soggetti filmati e il filmmaker e lo strumento grazie al quale entrambi comprendono se stessi e la propria cultura; il metodo è flessibile, continuamente in discussione, si muove e riduce la differenza di potere fra il sé e l’altro, smettendo di cercare le differenze per analizzare invece le contaminazioni.
Non credo sia sufficiente l’intenzionalità dell’autore per far si che il suo film venga percepito come veramente etnografico, antropologico, ma occorre anche che lo spettatore lo accetti come tale.
Il filmmaker può usare delle strategie grazie alle quali il film può sembrare “scientifico”, questi segnali possono essere di diverso tipo: testuali o extratestuali.
Ascrivibile al primo tipo è, per esempio, la voce dell’antropologo fuori campo che ogni tanto spiega con tono neutro alcune scene (la cosiddetta “voce di Dio”), mentre al secondo la scelta di proiettare il film in determinati festival o la scelta di trailer e copertina.
Detto questo, non bisogna dimenticare che ciò che è considerato etnografico cambia a seconda del contesto culturale e storico in cui quella categoria viene utilizzata.



Questo testo credo abbia messo in evidenza come realizzare un film etnografico sia un’arte discorsiva che comporta centinaia di scelte.
Le cose sono sicuramente cambiate da quando il film era visto come uno strumento per supportare o comunicare le teorie dell’antropologo o agevolarlo nella ricerca sul campo registrando dati oggettivi, oggi che lo spettatore viene stimolato ad essere consapevole, perfino critico nei confronti di ciò che passa sullo schermo e, allo stesso tempo, aperto e disponibile a creare egli stesso i significati del film.
Credo che sia giusto lavorare ad un film partecipativo che metta in campo le diverse soggettività e le faccia dialogare arricchendo il documentario e facendolo diventare polivocale.
Bisogna lavorare all’idea di un cinema partecipativo e necessario, come lo sono tutte le persone che si sono incontrate nel film per realizzarlo.
Nulla è esterno nel film.
Questa contaminazione arricchirà sicuramente il prodotto favorendo un superamento dei confini, senza mai dimenticare che utilizzare una macchina da presa o una macchina fotografica non significa rendere il lavoro più scientifico ma resta sempre una presentazione di un punto d’osservazione.
Siamo sempre di fronte ad uno sguardo limitato (vediamo quello che può essere inquadrato) e le riprese sono sempre il frutto di “pre-giudizi”, mappe mentali, habitus, che ognuno di noi ha sviluppato attraverso le sue esperienze di vita. Le cose non sono solo ciò che appaiono.
C’è sempre una messa in scena, una realtà ‘registrata’, quindi mediata, ‘impura’.
Inoltre non bisogna mai smettere di fare attenzione alle trappole dell’oggettivismo. Con i mezzi audiovisivi si può lasciare molto spazio al fruitore, facendogli credere di poter scegliere un punto di vista, creando quasi l’illusione di poter disporre della realtà rischiando però di essenzializzarla.
Nonostante la sua complessità sia infatti sempre più restituita dai lavori moderni, non si deve dimenticare che quello che viene presentato è sempre un punto di vista e mai una totalità.
Complessità solo illusoriamente tangibile, afferrabile dal fruitore che ha l’impressione di poter vedere tutto quello che è degno di essere raccontato.
Il filmmaker dovrebbe tenere in considerazione per la realizzazione della sua opera innumerevoli prescrizioni.
Alla luce di tutto questo quello che MacDougall scrive sulle potenzialità e risorse dell’utilizzo dei mezzi audiovisivi mi sembra molto più chiaro e prezioso.
L’ammonimento ad “esplorare la percezione, l’esperienza e il vissuto attraverso la sua iscrizione nei corpi, gesti, sguardi”, lo sviluppo progressivo della conoscenza di cui parla, la consapevolezza che “l’esperienza è in parte la conoscenza che non può sopravvivere al processo di traduzione” e che “i significati risiedono nella performance” mi sembrano punti fermi, cardini da tenere sempre presenti.

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 5. Interagire e collaborare

Se, come già sottolineato, nei lavori di MacDougall mancava un’interazione profonda e consapevole con i soggetti filmati, chi invece è riuscito ad esplorare in profondità l’Altro è stato Jean Rouch, cineasta francese che nei suoi lavori ha coinvolto realmente i soggetti da lui filmati in una intima e diretta collaborazione; realmente perché, a differenza di altri, per Rouch la partecipazione non è uno stratagemma per riuscire ad osservare meglio.
Convinto che la presenza della macchina da presa avrebbe condizionato il comportamento degli “attori”, il cineasta francese non cercava di limitare questi comportamenti dettati dal disagio, al contrario li considerava come rivelazioni più profonde di una parte nascosta ma più reale di noi stessi.
È facile notare come Rouch decostruisse, così facendo, alcuni dei punti che erano stati considerati dall’etnografia visualista fondamentali fino a quel momento, rappresentare la realtà in modo oggettivo infatti non è più possibile, non esiste più una realtà che va scoperta a disposizione del ricercatore, il soggetto ripreso e il filmmaker sono coinvolti in un processo dialogico dettato da piena collaborazione e complicità.
Il film diventa una relazione: «Tutti i film che ho fatto hanno sempre lo stesso soggetto: una scoperta dell’Altro, una esplorazione della differenza, una differenza che non è una restrizione ma un’aggiunta» (Rouch, 2003).
Quella di Rouch si può definire come antropologia condivisa: il più importante aspetto è quello che l’autore chiama controdono audiovisivo, tecnica che consiste nel mostrare ai soggetti filmati il film una volta terminato, come se immagini e suoni fossero restituite a coloro senza i quali non sarebbe stato possibile realizzare il lavoro.
Grazie a questa pratica, mutuata da Flaherty, non solo i nativi possono “controllare” come siano state rappresentate la loro cultura e la loro società ma anche l’antropologo può ricevere nuovi suggerimenti.
Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento di collaborazione che, a partire dalla fase preparatoria, si estende oltre la fase di postproduzione del film, fino alla sala di proiezione.
Jean Rouch infatti chiude il montaggio solo dopo aver richiesto l’autorizzazione all’intera tribù attraverso la proiezione pubblica del suo film.
Un altro aspetto dell’antropologia condivisa consiste nell’avvalersi dei nativi come collaboratori, dai tecnici del suono agli attori; il cinema allora diventa un’opera condivisa e distribuita con la complicità dei soggetti-attori che sono sempre coautori delle immagini che si registrano.
Alla base del modo di riprendere di Rouch quindi si trova un’interattività tra l’autore, il quale mette in gioco il proprio corpo e partecipa così a quello che possiamo definire il rituale filmico, e i soggetti filmati che agiscono e re-agiscono alle riprese.
Chi è davanti all’obiettivo intraprende un cammino comune con chi sta dietro.
Il concetto di collaborazione critica supera quindi contemporaneamente l’epistemologia della distanza propria del positivismo, il cinema d’osservazione (modello fly on the wall) ma anche il cinema d’interazione di MacDougall dove collaborare era solo una strategia del filmmaker per riuscire a vedere più aspetti della realtà filmata e raggiungere più facilmente i propri scopi.
Il cinema di Rouch non cerca una realtà già data, la produce, per proprio conto inoltre la macchina da presa non mostra significati che la realtà detiene, bensì è uno strumento per crearne una.
Una volta analizzata a grandi linee la visione del cinema di Rouch è facile capire quanto questa si discosti da quella di MacDougall: senza ribadire quanto è stato già detto del cinema di quest’ultimo mi limiterò a precisare che per Rouch si può parlare di cinema di ripresa, mentre per MacDougall di un cinema di montaggio. In altre parole l’improvvisazione si oppone alla precisione tecnica e artificiosa del montaggio.
Nel 1957 Rouch inaugura un nuovo filone della sua produzione cinematografica, quello
dell’etnofiction, in cui il filmmaker decide di ricostruire assieme ad alcuni amici songhai le loro migrazioni stagionali dal Mali verso il Ghana per cercare lavoro.
Il film, inizialmente senza sonoro, fu post-sonorizzato con i commenti degli attori e l’introduzione dei sottotitoli, consentendo di dar voce ai soggetti filmati che si esprimevano direttamente nella propria lingua, grazie alla traduzione delle loro parole rese così comprensibili al pubblico.
Nasce così Jaguar che apre il cinema ad un nuovo modo di fare fiction, girando senza screenplay, con soltanto un percorso di viaggio da seguire deciso di comune accordo con i tre attori protagonisti, con lo scopo di raccontare una realtà che altrimenti sarebbe stata impossibile da ridurre ai tempi filmici.
La finzione o etno-finzione, come Rouch la definisce, diventa qui il mezzo per affrontare e raccontare il reale.
Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere se è davvero possibile una vera collaborazione fra soggetti che stanno comunque vivendo una relazione asimmetrica, dato che nonostante tutto Rouch è sempre stato un bianco colonizzatore mentre i suoi attori i colonizzati.
In seconda istanza, è lecito porsi il problema di quanto gli attori “guadagnassero” da un rapporto così stretto con un bianco, almeno da un punto di vista sociale e simbolico.
In effetti, nei lavori di Jean Rouch i soggetti filmati hanno acquisito ruoli sempre più importanti fino ad arrivare, negli anni settanta, ad essere veri e propri autori di film etnografici.
La globalizzazione ha comportato una spinta al dialogo, rendendo sempre più necessario lo sviluppo di linguaggi che consentano il confronto tra culture e aiutino nello stesso tempo a ridefinire la propria identità.
Anche coloro che un tempo erano relegati al solo ruolo di soggetti filmati o addirittura di spettatori divengono produttori, registi ed operatori.
Lo sviluppo delle nuove strumentazioni audiovisive si è trovato a coincidere con il movimento di decolonizzazione degli anni sessanta, quando antropologi/filmmakers hanno in parte ceduto i loro strumenti a coloro che avevano fino ad allora filmato.
I modelli della comunicazione utilizzati dai nativi vanno dalle produzioni documentarie, fino alle sortite nel campo della ricostruzione storica e del giornalismo televisivo.
Le produzioni spesso espongono problemi di carattere sociale, il film diventa quasi un elemento di lotta nei confronti del potere dominante, uno strumento utilizzato per rivolgersi ad un pubblico il più vasto possibile. La videocamera offre alle culture native un potente mezzo espressivo, svincolato dai poteri dominanti dei media e delle istituzioni governative.
Le comunità native, attraverso le produzioni cinematografiche cercano di preservare la propria cultura, sempre più contaminata, usano il film come forma di autopromozione rivolta ad un pubblico occidentale, cercando contemporaneamente di catalizzare l’attenzione delle società nazionali ed internazionali verso la situazione dei diritti delle minoranze.
Inoltre possono usufruire dei filmati come mezzo di scambio di informazioni tra diversi gruppi indigeni.
Attraverso i media si cerca, quindi, di difendere un’identità culturale a rischio; ma, se questo è vero, è indiscutibile che dal lato opposto la diffusione delle nuove tecnologie potrebbe paradossalmente aprire la strada ad un assalto finale alla cultura e alle conoscenze tradizionali.
Da un punto di vista eurocentrico, la problematica è intesa nei termini di un timore per la perdita dell’autenticità culturale, quasi un auspicio ad una chiusura piuttosto che ad un mutamento culturale.
Il nativo che utilizza i media è quello che “perde” la sua “vera” identità.
Da un punto di vista oggettivista il “nativo tecnologizzato” potrebbe risultare meno interessante perché ormai in tutto e per tutto moderno, come se non si potesse più destoricizzare la cultura “Altra”. Al contrario, credo che tutto ciò non voglia dire che ci sia necessariamente stata una perdita di identità etnica, bensì forse un rafforzamento, dovuto all’imposizione da parte del nativo del suo diritto ad essere “visto” e compreso da più culture.
Inoltre il materiale audiovisuale sulle tematiche indigene ha avuto una grande diffusione nelle scuole. Ha aiutato a far rispettare internazionalmente il riconoscimento dei diritti ad un’educazione differenziata ed è diventato parte del materiale di insegnamento. Per i bambini indigeni l’accesso a questi materiali è fondamentale per combattere l’invasione culturale.
Ha potuto rivitalizzare molti rituali, registrarli, conservarli e riproporli anche alle future generazioni.
È cosi che le popolazioni indigene smettono di configurarsi e rappresentarsi come l’Occidente, inizialmente dei colonizzatori e dei missionari ed oggi dei media, ha inscenato per loro, riuscendo così ad uscire da questa realtà tanto imposta quanto fittizia.
Mi trovo perfettamente d’accordo con antropologi come Jay Ruby e Sol Worth che hanno preso atto dello spostamento dall’antropologia visuale all’antropologia della comunicazione visuale, dal film come registrazione delle culture “Altre” al film come fatto culturale e quindi come oggetto da studiare esso stesso.
Abbiamo visto come nel corso della storia dell’antropologia visiva, le immagini etnografiche si siano trasformate pian piano da documenti “segnaletici” a rappresentazioni dell’incontro tra tre mondi, quello del filmmaker, quello dell’“attore” e quello dello spettatore.
In realtà, a ben guardare, ripensando al mondo terzo di cui parla Geertz, che nasce dall’incontro tra il mondo dell’antropologo e il mondo del nativo, credo che in questo caso possa entrare in gioco un quarto mondo, scaturito dall’incontro degli altri tre, in un gioco di interpretazioni e re-interpretazioni continue o, come direbbe Geertz, di interpretazioni di interpretazioni.

11 dicembre 2012

Aggiornamento

Buongiorno Sara, ho saputo da Sonia che l'incontro finale è previsto per l'11/12 Febbraio: io, però, ho un esame il giorno 11, per cui non sarei in grado di intervenire. E' vero che, inizialmente, avevo detto che non pensavo di essere in grado di consegnare il lavoro prima di Settembre/Ottobre 2013, ma ora credo di riuscire a completarlo in tempo. Sabato, infatti, sarò presente alla festa di Natale della comunità cingalese, dove seguirò i miei soggetti per filmarli nell'interazione con i connazionali e dove avrò anche occasione di parlare con il loro sacerdote, magari approfondendo l'argomento dell'apprendimento dell'italiano come L2. Durante le vacanze prevedo di rifilmare Montini e sua moglie (il custode del mio palazzo) e, finalmente, di filmare il colloquio anche con l'altro soggetto, finora preso da impegni lavorativi. Dato che il mio primo esame è alla fine di gennaio, penso di riuscire a montare l'etnografia durante il mese. Non si potrebbe eventualmente prevedere di fare due incontri, uno a gennaio e uno a febbraio, come per gli appelli d'esame? Sarò comunque in aula lunedì 17, per cui ne possiamo parlare.
Saluti a tutti
Anna

10 dicembre 2012

Saluti

Ciao a tutti,

purtroppo nemmeno oggi sono riuscita a venire.

Se qualcuno avesse voglia di scrivere due appunti in merito a queste ultime lezioni, li leggerei volentieri.
Auguro a tutti buon lavoro e ci aggiorniamo via blog.

Cristina

7 dicembre 2012

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 4. Osservare e documentare

In questo capitolo sono presentate diverse rappresentazioni cinematografiche associate all’antropologia: dai primi film etnografici ad un “direct cinema” - film etnografico di pura osservazione - sino ad un cinéma vérité partecipativo. Si analizzano in particolare i cambiamenti di metodo e le questioni riguardanti la relazione tra regista/antropologo e i soggetti rappresentati.
Le origini del film etnografico si possono collocare alla fine del XIX secolo quando i primi strumenti di registrazione vennero impiegati nell’ambito di attività scientifiche per documentare alcune qualità culturali di popolazioni esotiche.
Felix-Louis Regnault, studioso francese, registrò nel 1895 alcune pratiche della tribù africana dei Wolof. Girata proprio in quella occasione, la sequenza di una donna wolof che costruisce un vaso viene generalmente identificata come il primo caso di film con valore etnografico.
Ma solo tre anni dopo, nel 1898, Alfred C. Haddon, durante la sua spedizione antropologica presso lo stretto di Torres, si doterà di macchina fotografica e macchina da presa per impiegarle come strumenti di studio. Da allora molti seguirono il suo esempio, tra questi l’austriaco Rudolf Poch presso i Boscimani e l’inglese Baldwin Spencer nelle sue ricerche sul campo in Australia.
Questi studiosi - ci muoviamo in un quadro epistemologico di stampo positivistico -
avevano completa fiducia nelle capacità della tecnologia, pensavano di poter catturare gli eventi senza mediazioni, perseguendo il loro scopo di rappresentare in modo scientifico la realtà.
L’intervento umano del filmmaker era considerato un elemento di disturbo, capace di “sporcare” il materiale filmato, e andava quindi limitato per lasciare alla macchina da presa il compito di riprendere in maniera “neutra”.
Il film non era inteso come una rappresentazione della realtà basata su procedimenti interpretativi, ma come una finestra sul mondo, dove la presenza dei dati permettesse di sostituire la realtà vissuta in prima persona dallo studioso. Il dato prodotto appariva ovvio ed indiscutibile.
Il lavoro di questi pionieri era inoltre guidato da quella che possiamo identificare come antropologia di salvataggio; questa impostazione di ricerca ha portato alla raccolta di materiali riguardanti diverse popolazioni indigene di cui si temeva la scomparsa a causa dell’avanzare del progresso.
Era necessario quindi un progetto per salvare delle tradizioni inevitabilmente destinate alla scomparsa.
Gli strumenti cinematografici e quelli fotografici apparvero efficaci per raggiungere uno scopo di questo tipo.
Spesso si decideva anche di “ricostruire” le azioni dei nativi davanti alla cinepresa per favorire la chiarezza visiva di ogni dettaglio e di ogni “attore”.
In questo primo periodo quindi la macchina da presa era usata come in laboratorio è usato un microscopio, per analizzare cioè la registrazione filmica considerata assolutamente imparziale e per comparare dati oggettivi provenienti da popolazioni diverse. 
Nel primo ventennio del XX secolo furono registi con uno sguardo più artistico che scientifico come Flaherty a cambiare il panorama inaugurando uno stile partecipativo.
Egli riuscì a tradurre in termini cinematografici il metodo dell’ “osservazione partecipante”, teorizzato nel 1922 da Malinowski. Come Malinowski nelle isole Trobriand, anche Flaherty visse per un lungo periodo tra gli Inuit ai quali, prima delle riprese del suo film, Nanook of the North (1921), il filmmaker spiegò quale fosse il suo progetto e dei quali ascoltò i suggerimenti. Nonostante questo riuscì a descrivere i nativi come se fossero osservati a distanza.
Flaherty avviò una tradizione di filmmaking partecipativo che è poi continuata con i film di Jean Rouch che come lui credeva nel potere che ha la macchina da presa di vedere, al di là delle possibilità dell’occhio umano, le qualità degli esseri e delle cose.
Altro concetto chiave del pensiero di Flaherty è quello di “non-preconcezione”, cioè lo sforzo che l’antropologo deve compiere per riuscire a non pre-interpretare ciò che osserva, tenendo sempre ben presente come solo senza preconcetti si possa cominciare a fare un tipo di ricerca veritiera.
Questo atteggiamento di sospensione di giudizio personale e di distanza dall’oggetto, tra l’altro condiviso da Malinowski, a mio avviso avvicina Flaherty al paradigma positivista del tempo.
I lavori di Malinowski e quelli di Flaherty sono aperti al punto di vista del nativo solo in apparenza ma in realtà sono soprattutto una presentazione del punto di vista dell’antropologo: è come se gli elementi del mondo reale, anche grazie alla ricostruzione di cui Flaherty faceva gran uso, vengano usati, e considerati come materiali grezzi da manipolare.
Il primo progetto che riuscì a coniugare competenze antropologiche professionali con un utilizzo consapevole del mezzo cinematografico si deve, come abbiamo già visto, a Margaret Mead e a Gregory Bateson che nel corso degli anni trenta filmarono e fotografarono gli Iatmul a Bali durante la loro ricerca tesa a mostrare, grazie all'ausilio delle immagini, i tratti fondamentali del carattere e dell’ethos dei Balinesi.
Negli anni Cinquanta importanti innovazioni tecnologiche influenzarono le metodologie di registrazione, le macchine da presa diventate sempre più piccole e maneggevoli facilitarono l’avvicinamento tra filmmaker e soggetti filmati e l’avvento del sonoro sincrono rese possibile la registrazione in presa diretta dei suoni, dei dialoghi, delle musiche, aumentando l'effetto di realtà ottenuto dai film.
In Francia, negli Stati Uniti e in Canada sorsero scuole documentariste sensibili a questi cambiamenti, uno di questi approcci aveva come scopo catturare la realtà simulando l’assenza del filmmaker e omettendo le relazioni, inevitabili, tra questi e i soggetti ripresi.
Il processo di osservazione era considerato centrale, si ricercava un’autenticità totale, si osservava come se si fosse presenti ad un evento ma senza essere visti (come se il regista fosse una “mosca sul muro”).
Questa modalità di ripresa genera una serie di questioni, come ad esempio: quanto di quello che si vede sarebbe davvero successo se non ci fosse stato il regista? O ancora, cosa sarebbe cambiato se la sua presenza fosse stata più accentuata?
Questo tipo di approccio, chiamato “cinema diretto” termine proposto da Ruspoli o “cinéma vérité”, si è sviluppato anche in altro modo, le macchine da presa sempre più piccole non sono state usate per occultare la presenza del regista bensì hanno permesso a quest’ultimo di diventare un tutt’uno con le apparecchiature.
Il filmmaker non finge di non esserci, non si fa mosca, tutt’altro, diventa una presenza palpabile che provoca riconfigurazioni continue della realtà; la situazione è alterata dalla sua presenza.
Rondolino puntualizza che: «tra i vari modi di praticare il cinéma vérité c'è anche quello di usare la cinecamera come 'agente provocatore', come stimolatore di reazioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione. In questo caso, la realtà e la sua 'verità' nascono dal cinema, sono il frutto del suo intervento diretto».
Questa prospettiva critica privilegia ciò che accade nell'interazione reciproca tra la macchina da presa al lavoro e una data situazione che sta per essere ripresa.
Questo è un esempio evidente di come gli stessi sviluppi tecnologici possano portare a cambiamenti metodologici estremamente diversi.
A partire dagli anni sessanta si sviluppò in nord America un tipo di documentario, conosciuto come  “cinema di osservazione”, che riprese modalità di rappresentazione usate dal cinema diretto, in particolare nell’attenzione verso i dettagli, i gesti, la quotidianità dei soggetti ripresi.
Questo tipo di film ricorre a pratiche osservazionali, evitando l’intervento del regista/antropologo che cerca di rimanere in una posizione defilata senza venire coinvolto nelle azioni da registrare.
L’idea al centro di tale approccio è la possibilità di realizzare un documentario evitando gerarchie tradizionali che pongano l’autore in una posizione privilegiata per raccontare la realtà: il film diventa appannaggio dei soggetti ripresi e dello spettatore.
Viene lasciato spazio ai soggetti ripresi rispettando i loro tempi e il regista seleziona gli eventi per lui importanti ma non guida più la comprensione dello spettatore.
Spesso però i ritratti prodotti da questo cinema non sono, al contrario di quello che si crede, freddi e distaccati, nonostante i loro intenti in genere perseguano una rappresentazione oggettiva e neutra della realtà.
Young sostiene nel suo saggio “Observational Cinema”, come lo scopo di tali documentari sia riprendere il “comportamento normale” delle persone nelle circostanze che comprendono anche la presenza della cinepresa e gli effetti che questa può avere sugli eventi.
Il film di osservazione nei principi enunciati da Young non segue quindi l’etica del  metodo cosiddetto “fly on the wall”: non tenta di ottenere un’utopica descrizione oggettiva della realtà, come sarebbe esistita anche in assenza del filmmaker. Si mira invece ad una rappresentazione più rispettosa degli eventi, dove siano evitate la retorica e la cornice interpretativa adottate da molte forme filmiche tradizionali.
Su questo argomento interviene anche MacDougall il quale sostiene che sia necessario andare al di là della mera osservazione, altrimenti si finirebbe per accettare di “vedere” solo ciò che i soggetti mostrano in apparenza senza poter comprendere ciò che essi ritengono implicito nelle loro pratiche.
MacDougall ritiene che la presenza del regista con la macchina da presa inevitabilmente inneschi dei comportamenti dei nativi influenzati da un evento stra-ordinario e che nessun film etnografico quindi possa essere solo registrazione di modi di vita di una popolazione bensì sia invece sempre una registrazione di un incontro tra due culture. Ciò che bisogna praticare è, allora, un cinema di interazione.
E’ importante definire questo, cinema di interazione e non di partecipazione, per non confonderlo con quello di autori come Jean Rouch.
Scrive infatti MacDougall: «dando accesso nel film ai suoi soggetti, il filmmaker  riesce a raccogliere un numero di informazioni e di chiarimenti maggiori sulla loro vita». Questa affermazione ci fa capire come in realtà MacDougall ritenga più importanti le informazioni e le tesi che il regista vuole dimostrare rispetto alla partecipazione dei soggetti che filma, con i quali il regista stesso non stringe relazioni.
Diventa necessario quindi distinguere questo tipo di atteggiamento da quello veramente partecipativo: sicuramente MacDougall interagisce con i soggetti filmati ma non collabora veramente con loro, l’interazione è solo un modo per avere più informazioni possibili e per ottimizzare l’osservazione.
Da questo approccio nasce l’uso di riprese lunghe, il filmmaker infatti spesso sta a guardare, aspettando che accada qualcosa, in disparte; a differenza di quanto farebbe invece Rouch, non collabora, si limita a contemplare.
L’autore stesso dichiara di appartenere al gruppo di filmmaker, corrente anglosassone, che predilige l’annullamento totale dell’osservatore dal quadro del contesto del film, mentre, al contrario, Rouch e i suoi seguaci adottano un atteggiamento interattivo con i soggetti ripresi.
Un tale metodo lascia il film all’interpretazione dello spettatore che non è influenzato da rigide indicazioni del filmmaker .
Praticare quello che può essere chiamato cinema di contemplazione non ha impedito a MacDougall di creare etnografie complesse e dense, al contrario , «Mac Dougall è stato il propositore principale di un approccio che incorporasse i sensi nella realizzazione di documentari etnografici» (Pink, 2006).
L’autore è convinto che il film etnografico possa rappresentare meglio della scrittura le esperienze sensoriali.
Credo che effettivamente il film sia lo strumento più giusto per restituire la sensorialità, per restituire quello che Sarah Pink chiama “untraslatable”, cioè quello che non si può “tradurre” in descrizioni scritte: «il film offre un modo alternativo di rappresentare l’esperienza sensoriale e le qualità di intersoggettività fra l’osservatore e l’attore sociale» (Pink, 2006).
Ma la capacità di un film di rappresentare la dimensione sensoriale è una conseguenza della qualità della relazione umana che si è venuta a creare fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del documento.
Fra filmmaker e soggetti ripresi, il dialogo, quindi, oltre alla condivisione sensoriale, rimane centrale.
A mio avviso è qui che si può muovere la critica più importante a MacDougall: l’autore, non conoscendo la lingua utilizzata dai soggetti ripresi, non ha mai potuto immergersi realmente nella loro realtà, non ha mai potuto dialogare con l’Altro e la mancanza di questa empatia credo possa portare alla realizzazione di lavori non sufficientemente profondi.