29 maggio 2013

Interculturalismo e seconde generazioni nell’hinterland milanese. TRAILER video.


Buongiorno,

Finalmente dopo tanti mesi e altrettanti post è giunto il momento di presentare la nostra indagine, o quantomeno parte di essa.

Seguendo il link qui sotto potete visualizzare il “trailer lungo” (15 minuti) del documentario completo di circa un’ora, questo sarà disponibile tra qualche giorno, stiamo capendo se e come pubblicarlo su youtube, nel frattempo questo quarto d’ora di filmato mi pare già un significativo spaccato di quanto raccontato nei vari post.

Grazie

Vittorio
 

Potenzialità e risorse dei mezzi audio-visivi in ''Film as etnography'' di Peter Ian Crawford e David Turton.

Parte prima

Nonostante lo strumento audio-visivo costituisca, rispetto a quello testuale, una ''thin description'' (analogamente a quanto postulato da Geertz), con esso è possibile enfatizzare l'attenzione sulla forma, al contrario del secondo caso nel quale è il significato ad essere creato come ragion d'essere; lo strumento visivo rappresenta metonimicamente la realtà, esperita attraverso un medium accattivante e stimolante tanto per il ricercatore che per il pubblico. (Hastrup 1985)

La possibilità di poter vedere e rivedere più volte i documenti carpiti permette inoltre il manifestarsi di un ''blow-up effect'': la realtà si presenterà agli addetti ai lavori come non la si era mai vista (Sontag 1979), oltre a permettere il ragionamento riflessivo (Collier 1988), tanto sull'oggetto della ricerca, quanto sul proprio operato in relazione alle modalità di ripresa, capendo quindi anche meglio se stessi.

Il documento audio-visivo può inoltre proficuamente essere implementato di una forma testuale, così da migliorare il materiale ottenuto, rendendolo, ritornando a Geertz, più ''thick'' e complesso così da permettere la comprensione, per esempio, di informazioni più attente dell'elusivo rapporto tra informatore e ricercatore, rispetto alle sole note di campo.

Qualora un determinato film volesse invece focalizzare l'attenzione maggiormente sulle forme visive, piuttosto che su di un processo esegetico di analisi e spiegazione a fondo delle dinamiche in esame (come per esempio in Forest of Bliss di Robert Gardener, emblematico a riguardo, dato che il film-maker non utilizza alcun commento, traduzione del parlato e sottotitoli) spetterà allora alla genuina curiosità dello spettatore il compito e la possibilità di ricerca tramite altri lavori accademici.

Ancora il film tende a comunicare un ''understanding'' mentre il testo fornisce una sorta di ''explanation''. Esso è ricco semanticamente ma scarso sintatticamente al contrario di quest ultimo (Wilden 1987). Attraverso il film si può fornire una sorta di sensazione di essere realmente nei luoghi raccontati. La distanza tra oggetto e soggetto, la cui descrizione costituisce appunto il lavoro antropologico, viene ricreata attraverso una ''digital device'' costituita dalle parole (come per esempio la narrazione).


24 maggio 2013

La decodificazione visiva nella ricerca antropologica


FOTOGRAFIE PER LA RICERCA:
IL METODO DELA DECODIFICAZIONE VISIVA
NELLA RICERCA ANTROPOLOGICA


La mia riflessione verte sul metodo di decodificazione visiva e sulla caratteristica della multivocalità o polisemicità propria dei segni visivi, concetti ai quali la Pennacini dedica un capitolo del suo saggio Filmare le culture (2005) (cap 2: La fotografia antropologica e la nascita della ricerca etnovisiva; par. 2.7: Interpretazione, elicitazione e restituzione). La studiosa, illustrando la tecnica dell’elicitazione basata sulla fotografia o sul cinema, mostra come per mezzo di essa si possa realizzare il concetto geertziano di circolo ermeneutico caratteristico dell’antropologia interpretativa, che permette di avvicinare gli sguardi culturali in un dialogo fatto di negoziazioni e scambi di soggettività interpretative. La lettura delle pagine dedicate a questo argomento mi ha permesso di entrare in relazione con un saggio di Anzoise e Mutti. Il saggio, dal titolo Guerra e trasformazioni socio-territoriali. Una ricerca audiovisuale sulla città di Mostar (2006),  approfondisce il tema del metodo di ricerca sociovisuale in situazioni post-belliche. Credo che si possa stabilire un dialogo tra i due testi, rappresentanti l’uno l’aspetto teorico, l’altro un interessante esempio di applicazione sul campo.
La ricerca prende il via da Mostar, città capitale dell’Erzegovina e città-simbolo della devastazione umana, sociale, culturale e urbanistica provocata dalla guerra scoppiata nel 1992. La disintegrazione urbana di questa città, così come di molte altre nella ex-Jugoslavia, fu tale da ispirare il celebre architetto, nonché ex sindaco di Belgrado, Bogdan Bogdanovic nella coniazione del termine “urbicidio”. Nel 2004, durante un viaggio a Mostar dei due autori e ricercatori, l’impatto visivo che la città ebbe su di loro fu così forte da spingerli a raccogliere immagini e fotografie di alcuni luoghi al fine di poter condurre una ricerca comparata di essi e del sotteso tessuto sociale prima e dopo la guerra.
L’idea di fondo che ha sostenuto il lavoro di ricerca era quella che si potesse indagare il cambiamento socio-terrotoriale della città attraverso dei segni visibili, in quanto segni mediante i quali una società si rappresenta. Inoltre, l’interpretazione che gli abitanti avrebbero dato a questi segni e simboli, avrebbe permesso ai ricercatori di esplorare e costruire le loro mappe mentali, il loro sguardo sul mondo.
Il lavoro sul campo si è servito di strumenti diversi: le esplorazioni video, la fotografia e la rifotografia, l’intervista con foto-stimolo. Il carattere della ricerca, come si potrà a questo punto intuire, non è stato meramente sociovisuale, ma anche etnografico e biografico.
La tecnica di elicitazione attraverso foto-stimolo ha permesso di raccogliere non solo storie di vita, ma ha anche consentito di mettere in atto un processo interattivo e collaborativo tra intervistatore e intervistato. La fotografia, infatti, o meglio la sua interpretazione, è influenzata dai vissuti soggettivi reciproci; il linguaggio non è solamente un veicolo di senso, ma anche un suo costruttore. Per questo si può affermare che una metodologia di questo tipo mette in atto quella negoziazione di significati a cui l’antropologia oggi aspira. Così utilizzata, la fotografia avvicina osservatore e osservato in una comunicazione e interazione che non è altro che uno scambio di visuali: il ricercatore può vedere le cose dal punto di vista del soggetto a cui rivolge la sua osservazione, dei suoi vissuti e, soprattutto, della sua visione (o meglio, percezione) del mondo.
La raccolta e l’analisi di racconti di vita, realizzata sia in forma scritta che orale, ha dato voce agli abitanti della città di Mostar, permettendo ai ricercatori di costruire mappe e chiavi di lettura dei fenomeni e dei mutamenti sociali percepiti dalla cittadinanza nella ricostruzione del paesaggio urbano devastato dalla guerra. La tecnica della rifotografia è stata fondamentale, in quanto ha introdotto la variabile tempo necessaria alla ricerca.
Le testimonianze hanno rivelato una relazione molto forte tra la trasformazione urbanistica dovuta alla ricostruzione e l’identità degli abitanti: l’interpretazione dei segni visibili (cioè dei luoghi) che i cittadini hanno costruito osservando e decodificando le immagini proposte, ha espresso i significati culturali, sociali e identitari da loro percepiti nella Mostar post-bellica. Il caso più sintomatico è stato lo sdegno e la rabbia mostrata nella lettura della rifotografia della chiesa ortodossa rasa al suolo dai croati e dai musulmani e non ancora ricostruita (“La chiesa deve essere come prima, uguale… come tutte le altre chiese e moschee che sono state ricostruite”).
Il lavoro di ricerca così condotto ha rivelato che la percezione dei cittadini (cioè la loro visione del mondo) non solo è stata una delle principali cause del conflitto, ma guida oggi le scelte operate nella ricostruzione fisica dell’impianto urbanistico della città e struttura le interazioni socio-identitarie che in essa si svolgono. Il processo del percepire e ridefinire visivamente l’ambiente in cui si vive, si svolge sempre in una dimensione sociale.
La guerra nella ex-Jugoslavia è l’emblema della guerra moderna che, travestita da conflitto etnico, mira deliberatamente alla smemorizzazione del paesaggio per colpire l’eredità culturale e identitaria della popolazione e la sua capacità di ricordare il passato. La ricerca sociovisuale di Anzoise e Mutti nella Mostar post-bellica rivela che i segni visibili di un paesaggio non sono mai neutrali, ma comunicano e veicolano messaggi politici e culturali, divenendo simboli polisemici.
Se l’aspirazione dell’antropologia è quella della creazione di uno spazio negoziale all’interno di un circolo ermeneutico che si nutre di reciprocità, incontro e dialogo, allora le metodologie e gli strumenti di tipo visivo sono quelli che oggi offrono maggiormente la possibilità ai ricercatori di realizzare i loro obiettivi, nella consapevolezza che indagini condotte seguendo un criterio settoriale debbano lasciare il posto ad una ricerca che divenga sempre più interdisciplinare e integrata.

 
BIBLIOGRAFIA

Pennacini C., Filmare le culture. Un’introduzione all’antropologia visuale, Carocci, Roma, 2005.

Anzoise V., Mutti C., Guerra e trasformazioni socio-territoriali. Una ricerca audiovisuale sulla città di Mostar, in Marina Calloni (a cura di), Violenza senza legge. Crimini di guerra nell’età globale, UTET Università, Torino, 2006.

 

"Filmare le culture", C.Pennacini


FILMARE LE CULTURE. UN’INTRODUZIONE ALL’ANTROPOLOGIA VISIVA

- Cecilia Pennacini -

 
L’antropologia visiva formalizza una prima definizione di se stessa nel congresso dell’American Anthropological Association tenutosi a Chicago nel 1973.
Il saggio della Pennacini muove i suoi passi dal concetto di visione e, quindi, dal rapporto tra essa e la cultura. Esponendo alcune delle teorie psicologiche e antropologiche più note sulla visione, come ad esempio la Gestaltpsycologie, la studiosa illustra la definizione semiotica dell’immagine: ciò che normalmente definiamo visione naturale dell’immagine è in realtà una percezione, il prodotto di scelte e selezioni operate attraverso procedimenti e costruzioni culturali e sociali. La comunicazione visiva, dato l’alto coefficiente di indessicalità delle immagini, viene ad essere, così, una rappresentazione di rappresentazioni, svelando il potenziale comunicativo transculturale dei segni visivi. Per questo oggi l’antropologia considera questi linguaggi/strumenti importanti per condurre e sviluppare le sue ricerche.
Tale prospettiva teorica è piuttosto recente ed è nata a seguito della vecchia concezione positivista che vedeva, e utilizzava, invece, le immagini fotografiche o cinematografiche come strumenti di osservazione e ricerca oggettivi, neutrali, scientifici e inconfutabili per documentare le società studiate. Le prime fotografie etnografiche, come dimostrano la famosa spedizione di Haddon, Rivers e Seligman allo Stretto di Torres (1898-99), il testo di Darwin sulle espressioni delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) e le immagini antropometriche del Royal Anthropological Institute (1870), rispondono ad una logica di musealizzazione delle culture umane, in quanto si fondano ancora sull’idea illuminista della costruzione di un museo o di un’enciclopedia visiva.
Se già l’osservazione partecipante di Malinowski alle isole Trobriand (1921-22) fece nascere l’esigenza nell’antropologo polacco di documentare quelli che lui chiama gli “imponderabili della vita reale” mediante documenti visivi, furono in realtà Gregory Bateson e Margaret Mead ad inaugurare la ricerca etnovisiva. Durante il loro campo di ricerca a Bali tra il 1929-1936, i due antropologi raccoglieranno un corpus di documentazione formato da diverse migliaia di riprese fotografiche e cinematografiche. L’idea di fondo di Bateson, affrontata nel suo studio dal titolo Naven sugli Iatmul della Nuova Guinea (1936), era quella che le culture possiedano un ethos che struttura le culture stesse; fotografare una cultura, quindi, permette di indagare e cogliere quegli aspetti emotivi che a una descrizione verbale solitamente tendono a sfuggire. Davanti all’obiettivo, sostiene l’antropologo, il personaggio osservato assume l’atteggiamento richiesto dal suo status, vale a dire si mette in scena deliberatamente per autorappresentarsi. Nonostante la visione di Bateson sia ancora legata alla tradizione empirista inglese dello struttural-funzionalismo, per alcuni versi essa anticipa le tendenze ermeneutiche degli anni Settanta.
Nella seconda parte del saggio (capp.3-4-5), la Pennacini si concentra sul linguaggio cinematografico.
Il ruolo di precursore del cinema etnografico si attribuisce al medico francese Regnault, quando nel 1895, nel corso dell’Esposizione etnografica di Parigi, con un apparecchio cronofotografico realizzò alcune riprese dei movimenti corporei di alcuni abitanti dell’Africa occidentale e del Madagascar portati nella capitale francese per essere mostrati al pubblico nei padiglioni dell’esposizione. Il paradigma teorico di fondo che supportava il lavoro, naturalmente, era quello positivista ed evoluzionista; lo scopo delle riprese era quello di raccogliere documentazioni oggettive per gli studi dei ricercatori.
Le prime vere e proprie sequenze cinematografiche verranno realizzate nel corso della famosa spedizione inglese allo Stretto di Torres (1898-99), a cui seguirono quelle di Franz Boas.
Ma è solo nel 1922 che l’etno-cinematografia diviene un genere vero e proprio. L’anno coincide con l’uscita del film-documentario di Robert Flaherty, Nanook of the North, un regista non etnografo che riuscì a realizzare il primo vero documento sulla vita di una popolazione esotica ripresa in loco (gli Inuit della Baia di Baffin). Ciò che, infatti, differenzia il film di Flaherty dai precedenti filmati di campo è il fatto che il regista non si limita a registrare i dati posti di fronte all’obiettivo, ma, attraverso un complesso e articolato linguaggio cinematografico e una struttura filmica totalmente innovativa (montaggio delle sequenze, sguardi in macchina, ecc…) costruisce la realtà da lui osservata, e quindi la sua interpretazione di essa. Nanook of the North esprime, pertanto, il tema della relazione tra soggettività e oggettività tipica dell’osservazione etnografica, così come il concetto della reciprocità di sguardi che sempre si incrociano nell’incontro culturale.
A seguito di Nanook, negli anni Venti e Trenta, la produzione di film documentari si intensifica e sul mercato viene introdotto il 16mm; per il sonoro bisognerà, invece, aspettare gli anni Cinquanta.
Nel panorama del cinema sperimentale di avanguardia rientrano Maya Deren, con il suo film sulla danza rituale vudù e la transe ad Haiti L’Haitian film footage (1947-1955), e Jean Rouch, con il film sul movimento religioso degli Hauka del Niger Les maitres fous (1954-55). Il film di Rouch può considerasi un vero e proprio saggio sulla possessione, la quale, secondo il cineasta-antropologo, svolge un funzione psico-sociale all’interno della comunità per la loro integrazione con il sistema coloniale. Come la Deren, quindi, anche Rouch è interessato alla rappresentazione dei riti di possessione come ricerca di una visione dall’interno, ma, al contrario della studiosa che abbandonerà le riprese convinta che esista un limite (l’evento della possessione, appunto) oltre il quale l’occhio e l’obiettivo non possono spingersi, egli, accettando la finzione spettacolare della transe, riuscirà ad oltrepassare il confine della percezione normale per entrare nel mondo “trans-umano” della performance. Rouch utilizza l’espressione cine-transe per spiegare la sua tecnica, una condivisione profonda di sguardi tra osservatori e osservati che si attua nella ripresa cinematografica. Il suo cinema diviene, così, uno strumento epistemologico utile alla ricerca antropologica.
La Pennacini prosegue con l’illustrare l’esperienza dei cosiddetti “Bostoniani” (Marshall, Gardner, Ash), che lavorarono negli anni Sessanta con una metodologia vicina all’impianto teorico del “cinema di osservazione”, e la sperimentazione etnovisiva di Mac Dougall sugli aborigeni australiani. Il suo lavoro, svolto in collaborazione con la comunità dei nativi, aveva come obiettivo quello di costruire un dialogo tra le culture accorciando le distanze culturali; in altre parole fare antropologia con le immagini. Attraverso l’osservazione delle vicende e delle esperienze individuali dei soggetti cinematografici, è possibile riconoscere le proprie e questo processo di identificazione e comprensione è, appunto, ciò che permette di superare le frontiere culturali. In questo senso il cinema può fornire all’antropologia un linguaggio e uno strumento in grado di veicolare l’incontro tra culture.
Il saggio termina con la riflessione riguardante il sodalizio possibile tra cinema e antropologia. La prospettiva ermeneutica nata intorno agli anni Settanta considera le culture come sistemi di segni (si veda la metafora di Geertz della cultura come testo). La ricerca antropologica diviene un dialogo, un’interpretazione, una negoziazione di significati tra antropologo e nativi. Ma i segni possono essere verbali e visivi insieme, anche perché la rappresentazione etnografica risente oggi di una certa difficoltà nell’adeguare le forme tradizionali di rappresentazione ai nuovi metodi d’indagine e a un mondo che cambia così velocemente. Il linguaggio cinematografico possiede, infatti, capacità e potenzialità che la scrittura non possiede; a quest’ultima si devono aggiungere anche i limiti rappresentati dall’acquisizione/comprensione linguistica e dal carattere scientifico delle monografie, che le rende destinatarie spesso solo di un pubblico esperto.
Per questo la prospettiva di ricerca per il futuro, secondo la Pennacini, potrebbe essere quella di non operare più una separazione tra l’antropologia scritta e l’antropologia visiva, ma integrare le metodologie in una molteplicità di approcci comuni all’intero ambito antropologico nel suo insieme.

21 maggio 2013

Sguardi sul nudo - Prime linee-guida

Ancora prima di mettere bene a fuoco le linee-guida, è stato lo strumento della telecamera a farmi sollevare diverse domande. All'Osservatorio, ero abituata ad un'atmosfera concentrata, caratterizzata da una forma del silenzio tutta sua: posare è avvertire il mondo intorno a sé, i rumori delle matite che disegnano, i cambi di postura degli artisti, la musica bassa in sottofondo, ma il tutto come se si fosse in una sorta di sospensione. 
Anche il "palcoscenico", il tavolo da posa, fa parte di un "teatro" molto più grande, ossia la Camera delle Pose: un teatro dove, durante la posa, palcoscenico e quinte sembrano essere in perfetta sintonia. 
Introdurre la telecamera è stato un passo difficoltoso: anche se usata con rispetto e cautela, essa finisce sempre per essere un elemento di disturbo, fa avvertire una dissonanza. 
Ho deciso comunque di portare avanti il progetto, contestualizzando lo strumento audiovisivo come mezzo per catturare la "concretizzazione" dello sguardo dell'artista sul corpo della modella, oltre che per trasmettere il racconto di diverse "storie": di chi dipinge, di chi a volte dipinge a volte posa, di chi posa. Credo che queste storie possano, insieme, offrire la possibilità, a chi è esterno, di gettare uno sguardo sulla eterogeneità dei vissuti e dei modi di fare arte di chi vive l'Osservatorio. 
Per elaborare le linee-guida, ho deciso di scomporre la presa dal vivo in tre momenti.:
- la relazione della modella con il "palcoscenico": come la modella "recita" con il proprio corpo? 
- la relazione tra la modella in posa e l'artista: da quali gesti, rumori e dinamiche è abitata questa relazione? 
- lo sguardo dell'artista: come si crea il dipinto? Quali preconcetti sull'immagine femminile entrano in gioco o non entrano in gioco quando si crea? Questi preconcetti, se esistenti, sono rielaborati e fatti nuovi dall'artista?
Queste sono le linee di partenza. Come in ogni ricerca, esse difficilmente rimarranno fisse: il senso della ricerca è anche quello di cambiare le proprie prospettive di partenza, a seconda del contesto e degli interrogativi sempre nuovi che vengono fuori man mano che l'etnografia prosegue. 

Sguardi sul nudo - Il campo

Il campo della microetnografia è l'Osservatorio Figurale, noto atelier del quartiere Isola di Milano. Entrarci in contatto per questo lavoro è stato relativamente semplice, dato che saltuariamente vi poso come modella di nudo.
La storia dell'Osservatorio Figurale inizia negli anni Novanta, per mano di Enrico Lui: attore di teatro, artista e pittore, il suo atelier viene definito quasi come un "palcoscenico" per le modelle, palcoscenico su cui la modella sale non solo con il suo corpo fisico, ma anche con le sue emozioni, con il suo carattere, con la sua vita. Il centro di tutto è la persona che posa: ogni sessione di disegno è un evento, legato alla singola modella - da qui il nome di "Osservatorio". Dopo la morte di Lui, i suoi allievi hanno continuato a tenere in vita l'atelier, facendolo diventare un circolo Arci - anche come stimolo alla "apertura" al quartiere e alla città.
Fino all'inizio di questo lavoro, sono sempre entrata all'Osservatorio come modella. Entrarci con una telecamera, cambia moltissimo, e non solo dal punto di vista dei rapporti con le persone (modelle, artisti) che prendono parte ai corsi di nudo, ma anche per quanto riguarda il mio sguardo, che a un certo punto ho avvertito come sdoppiato: da un lato, il ricordo delle pose, della difficoltà a tenere certe posizioni, della curiosità verso i lavori degli artisti, le occhiate incessanti al mio corpo (l'atelier è pieno di specchi, quindi chi posa può vedersi in qualsiasi momento); dall'altro, il mio sguardo da esterna.
La mia presenza con una telecamera in mano mi ha posto non pochi problemi: innanzitutto, mi pareva ovvio che non fosse il caso di riprendere le modelle, fatto che obbliga l'analisi di un tale contesto a prendere vie alternative per parlare di un corpo che - di fatto - non si può vedere. Ho deciso però di riprendere alcuni artisti (non tutti gradiscono essere filmati mentre creano) nel vivo del loro lavoro: dai primi schizzi alla figura che prende forma, al colore che vi cala, alla definizione dei dettagli. E', secondo me, una scelta che, pur tagliando il corpo vero e proprio della modella, può servire a concentrarsi sulla "concretizzazione" dello sguardo che si intende indagare.



13 maggio 2013

Sguardi sul nudo - Microetnografia

Cara Sara e colleghi,
finalmente riesco a scrivervi sul blog e ad aggiornarvi in merito alla microetnografia che sto svolgendo.
L'ambito che ho scelto di affrontare, come accennato tempo fa a Sara, è quello dei corsi di disegno e pittura del nudo d'arte in un studio d'arte di Milano: uno scenario denso, quella della posa e della sua riproduzione grafica, al cui interno si muovono diversi attori, diverse modalità del corpo, diversi modi di intendere e rappresentare lo stesso.
Mi sto focalizzando in particolar modo sul corpo della donna, visto che la stragrande maggioranza delle persone che posano in atelier sono donne: credo che sia comunque un punto di partenza interessante, viste le dimensioni che si intersecano su di esso - lo sguardo alla ricerca della "grazia femminile", la riproduzione del corpo della modella in base a criteri estetici o volutamente diversa da essi, il modo in cui la modella lavora con il proprio corpo sul tavolo da posa che diventa quasi un palcoscenico.
A breve vi manderò una precisa elaborazione delle linee-guida tematiche e un racconto dettagliato delle osservazioni che sono già stata in grado di fare.
A presto
Alessandra

12 maggio 2013

Interculturalismo e seconde generazioni nell’hinterland milanese. Cap 13.


Le ultime riprese di svolgono nuovamente nel laboratorio teatrale di Pioltello. Anche qui, complice la confidenza e fiducia instauratesi, i risultati appaiono sorprendenti. Giulia e Giulia hanno in programma una lezione di “racconto”, ognuno si racconta a partire dalle proprie paure.

La prima cosa da sottolinearsi è l’indifferenza verso le telecamere, i ragazzi, anzi le ragazze soprattutto, si aprono come se noi non ci fossimo. Nessuno guarda più in macchina, nessuno fa un po’ di show per lo schermo (come avveniva le prime volte) e, soprattutto, viene messa da parte la timidezza e la chiusura, fino a tirar  fuori delle paure e riflessioni molto profonde e talvolta crude. Come accaduto con Hassan e Mirko anche qui vediamo l’intrecciarsi della quotidianità e delle difficoltà di un adolescente dei giorni nostri con la differenza, il posizionamento e anche lo scontro interculturale che, ad esempio una ragazza egiziana, rivela parlando dei suoi timori legati all’amore e l’approvazione dei suoi sentimenti da parte dei genitori, in particolare del padre.

Terminata la lezione, ancora una volta seguita attentamente dalla signora Virgillito, veniamo invitati da quest’ultima in una cascina in cui si svolgono delle attività con alcune donne marocchine. Si tratta di un invito a pranzo, infatti arrivati a destinazione tutti insieme si cucina un cous-cous molto ricco. Ennesimo fuori programma in cui non possiamo sottrarci dal tirar fuori nuovamente le telecamere!

8 maggio 2013

Interculturalismo e seconde generazioni nell’hinterland milanese. Cap 12.


Contrariamente a quanto dichiarato nella risposta ad un commento dei precedenti post, Giovanni, il coordinatore del corso d’italiano per stranieri non ha preso molto bene la proposta di girare una lezione tenuta interamente dai ragazzi pakistani che insegnano italiano insieme a lui.

Se inizialmente si è dimostrato entusiasta della cosa, poi si è un po’ irrigidito, sentendosi forse messo da parte. Nessun rapporto tra noi e lui o lui e i tre ragazzi si è compromesso, ma c’è voluto un po’ di tempo e tante chiacchiere per convincerlo.

Come già detto, una lezione tenuta interamente dai ragazzi pakistani era una cosa che gli stessi volevano e cercavano da tempo, in questo, la possibilità di avere delle responsabilità e indipendenze in più all’interno della proposta del centro. La nostra presenza non ha stravolto nulla ma accelerato un processo in atto fornendo un’occasione.

La lezione tenuta “pakistana” è stata a tratti esilarante, rigidi come sempre sul fatto di parlare unicamente in italiano durante la lezione, si sono cimentati, ad esempio, nell’apprendimento del lessico riguardante il corpo umano e le principali malattie che si possono contrarre (a loro avviso un bagaglio linguistico indispensabile per chi vive in un territorio nuovo). Trovare sinonimi dell’anatomia umana o delle patologie per spiegare sintomi e rimedi fuori dai tecnicismi ha generato discorsi pindarici spesso comici, inseguiti da ironia e auto-ironia di “professori” e “studenti”. Alla fine le informazioni sono passate adeguatamente, il clima tutt’altro che didattico, molto famigliare e informale. Interessantissimo confrontare questa lezione molto spontanea e scanzonata con la prima filmata in cui, un po’ ingessati per le “telecamere” hanno raccontato la differenza nel concetto di “diritto”.

Oltre al corso d’italiano abbiamo poi seguito Hassan e Mirko, i due compagni di classe, nel passaggio che Mirko con la sua Ape-car ha dato ad Hassan per tornare da scuola. Un momento particolare: due amici, due adolescenti che parlano della loro giornata con le analogie (spesso quelle scolastiche) e differenze, prevalentemente culturali. Hassan porta anche Mirko nel prato in cui lui, i suoi amici e altri pakistani giocano a cricket. Il racconto che fa Hassan della pratica di questo sport ricorda molto l’indagine di D. Zoletto nel suo “Il Gioco duro dell’Integrazione”.

7 maggio 2013

Trasformazione del paesaggio

Aggiorno Sara Bramani e i colleghi sulla mia ricerca dopo una lunga pausa.
Pausa dovuta  alla riflessione sull'opportunità di attendere la primavera (o il suo avvicinarsi) per fare riprese meno tetre, dato che molte di esse dovrebbero essere in mezzo alla natura! E anche per incorrere più facilmente nella possibilità di incontrare le persone di mio interesse in piena attività, e in modo comunitario. Mi spiego meglio. Oltre alla riflessione sul confine trasfigurato di Castano Primo, con l'esperienza visiva di mio papà al centro, pensavo di estendere lo sguardo ad una fetta importante (e limitrofa) del territorio, quella della via Gaggio: strada che attraversa un tratto vergine di brughiera minacciato dalla costruzione della terza pista di Malpensa.
Ritenendo che questo potrebbe rendere l'idea di che tipo di mutamento antropologico stia investendo il territorio e che possa ben esemplificarne la tipologia (la trafigurazione), ho pensato che sarebbe stato meglio, per incontrare gli attivisti e le comunità coinvolte, attendere la bella stagione, in cui di solito si organizzano passeggiate, incontri all'aria aperta, etc.
Infatti sono reduce da uno di questi primi appuntamenti primaverili, che, investito da un acquazzone, si è svolto per l'appunto al chiuso della ex cascina ristrutturata, oggi sede del comitato di via Gaggio..
Si è trattato di una biblioteca vivente: tavoli sistemati ad una certa distanza l'uno dall'altro per permettere ai lettori di ascoltare i libri, cioè alcune persone, con una storia da raccontare. Si consulta il catalogo, si sceglie il libro, ci si siede davanti e inizia la lettura.
Ho pensato fosse un modo per raccogliere storie dal territorio e per incontrare personaggi da condurre con me in passeggiata lungo la via Gaggio per illustrarmi la memoria del paesaggio e le sue trasformazioni. Non si trattava invece di persone legate al territorio così da vicino, e questa è stata una prima delusione. Invece poi "leggendo" tre signore che hanno organizzato una banca del tempo ho scoperto il primo degli stimoli interessanti della giornata. Le tre signore vengono da zone geografiche diverse (una è svedese) ma hanno sentito l'esigenza di radicarsi, di fare rete, di creare una realtà relazionale nuova. Benché cercassi strutture relazionali radicate nella storia rurale di questi luoghi, mi sono trovata di fronte a questa, che essendo un'esigenza, è molto reale. E mi ha aperto gli occhi alla seconda intuizione, discutendo con una delle organizzatrici della giornata e membro del comitato di via Gaggio. Mi ha parlato dell'impegno forte a rivitalizzare, a riaprire alle relazioni, alla comunità questa area di territorio. Un po' come ammettere che si riconosce un vuoto (dovuto alla fine dello stile di vita di sussistenza contadino in zona-che poi anche qui ci sarebbe da discutere) che si vuole riempire con una proposta nuova.
Allora mi è venuto in mente che è stata proprio la minaccia della costruzione della terza pista di Malpensa, quindi l'annullamento di questo tratto di natura originaria, a scatenare la creatività sociale di alcuni abitanti dei paesi limitrofi (sarebbe interessante poi indagare in che modo si sono aggregati, sfruttando quali reti di relazioni precedenti, fasce di età, livello di istruzione..cosa che a prima vista sembra molto eterogenea).
"Prima di questa minaccia, che cos'era questo posto?" "Niente."
C'era la cascina, la sua identità era agricola. Fino agli anni '80. Poi l'abbandono. Infine il recupero della memoria e la fondazione della cooperativa che rivalorizza i prodotti caseari e agricoli locali (del Parco del Ticino). Quali aspetti erano interessati a recuperare con la memoria, quali sono stati selezionati? Che tipo di lavoro di memoria è stato fatto?
Il posto, o come si sente più sanguignamente chiamare, "il territorio" (perché c'è della terra), grazie alla minaccia, si fa risorsa, per la comunità. Quale comunità? Quella locale, ma quale? Chi si sente attratto?
Via Gaggio e i territori affini e limitrofi son importanti (ipotizzo) perché rappresentano uno stendardo per dare un nome ad una lotta, una lotta nuova, apartitica che si gioca sulla scelta di uno "stile di sviluppo" (parole usate in una conferenza di pochi giorni fa dal presidente del comitato), in definitiva uno stile antropologico(=io voglio questa forma di vita).
Questo tipo di lotta ha bisogno di fissarsi sui luoghi, sui posti. Altrimenti sarebbe sfocato e inascoltato idealismo.
Spero di riuscire a far seguire qualche estratto delle mie riprese in breve tempo.
Buona giornata a tutti,
Alessandra

4 maggio 2013

Interculturalismo e seconde generazioni nell’hinterland milanese. Cap 11.


Per contestualizzare il nostro lavoro, decidiamo di girare alcune scene in esterno, riprendendo luoghi simbolo di Cernusco, di Pioltello e di Seggiano, luoghi caratterizzanti per i propri abitanti (piazze, mercati ecc) e  frequentati dalle persone che abbiamo incontrato nel corso delle riprese, luoghi di aggregazione, di lavoro, di quotidianitò, gli ingressi delle abitazioni dei nostri protagonisti ecc.

 Alcuni scorci  li abbiamo adocchiati frequentando il territorio in questi mesi, altri ci sono stati esplicitamente segnalati dalle persone che abbiamo conosciuto, per andare sul sicuro però ci facciamo accompagnare da un disponibilissimo Don Luigi in grado di mostrarci  prospettive molto interessanti.

 Mentre si gira e si passeggia per le vie dei paesi ovviamente si chiacchiera e si scambiano opinioni, durante un discorso  Don Luigi mette sul piatto una citazione da cui decidiamo che potrebbe arrivarci lo spunto per il titolo del documentario: “200 parole”. Riprendendo Don Milani che disse “Se una persona conosce 200 parole ed un'altra mille, la prima sarà sempre sottomessa dall'altra. La cultura ci fa uguali.”

Queste serie di riprese essendo in esterno e durante diversi momenti della giornata con esposizioni della luce diverse sono state girate su più giorni, anche subordinate alla poca clemenza atmosferica.

 

3 maggio 2013

Orules Lugano: sport e multicultura - 1


Buongiorno a tutti,

esordisco sul blog per presentare il mio progetto di documentario sull’esperienza della squadra degli
Orules Lugano. Si tratta di un gruppo di atleti, provenienti da varie situazioni agonistiche (in prevalenza ex
giocatori di rugby, ma non solo) che hanno letteralmente importato, tra Italia e Canton Ticino, la pratica del
Football Australiano. Uno sport di contatto, ma non violento, relativamente facile da imparare e nel quale
ogni tipo di corporatura può trovare il suo spazio e il suo ruolo.

L’esperienza degli Orules Lugano è significativa, perché il Football Australiano prima del loro arrivo… in
Italia semplicemente non esisteva. Il loro lavoro è dunque insieme agonistico e didattico: attraverso il
metodo dei “20 minuti e campo in miniatura” si introducono i neofiti con le conoscenze essenziali e le
poche posture che servono per giocare in sicurezza. Esistono squadre maschili e femminili, oltre a una
sezione – unica al mondo - riservata ai disabili psichici, con regole adattate.

E’ rilevante il fatto che nessuno dei giocatori delle varie squadre sia australiano, e che anzi si sia formato un
gruppo estremamente cosmopolita, ciascuno con la sua cultura sportiva di partenza e con il suo personale
atteggiamento nei confronti dell’agonismo, dell’imparare da zero uno sport completamente nuovo,
dell’affrontare l’idea di un contatto fisico non violento, ma più marcato che in altre discipline.

Il lavoro sarà composta da una serie di interviste a giocatori e tecnici, con lo scopo di mostrare l’impatto
dell’adozione da parte di un gruppo di una realtà sportiva e culturale completamente aliena, almeno in
partenza.

Federico Casotti