31 gennaio 2013

Capitolo 9: Native Intelligence: A Short History of Debates on Indigenous Media and Ethnographic Film

Dagli Anni 70 le popolazioni indigene hanno iniziato a produrre film e video etnografici, che una volta li vedevano come oggetto degli studi antropologici. Hanno creato anche le loro reti televisive, come l’Aboriginal People’s Television Network (APTN) in Canada nel 1999 e la Maori TV nel 2004.
Nel 2007 cominciò la protesta degli aborigeni contro la Telstra, la più grande società australiana di telecomunicazioni che creò The Pond, l’isola virtuale che rappresentava l’Australia nel mondo virtuale di Second Life 3D. La Telstra aveva riprodotto nel mondo virtuale uno dei luoghi sacri degli Anangu. Nel mondo reale dal 1987 i non-Aborigeni non possono fotografare o filmare senza l’autorizzazione della popolazione locale. Il portavoce della Telstra ha confermato che la società non aveva alcun permesso per utilizzare le fotografie per scopi commerciali. Questo esempio ci fa capire come non si possono più considerare gli indigeni come oggetti di studio che appartengono di diritto agli antropologi.  
A partire dagli Anni 80 i media indigeni hanno attirato l’attenzione degli studiosi. Molti dei loro progetti sono identificati con il termine “attivismo culturale”. La distribuzione e la facile reperibilità di tecnologie a basso costo hanno permesso agli indigeni di produrre film e video che rappresentano non solo la loro cultura e tradizioni ma anche il desiderio e i progetti di emancipazione.
Gli antropologi si domandano sull’effetto che la tecnologia possa avere sugli indigeni, mentre questi ultimi sono impegnati ad adattare queste tecnologie ai propri bisogni. Nel suo libro Our Own Image (1990), Barry Barclay introduce il termine Fourth Cinema per identificare il cinema indigeno.  Una cosa che caratterizza i produttori di film indigeni è che quasi mai lo scopo della distribuzione sia di tipo economico.
Ormai sono circa quarant’anni che la televisione è entrata a far parte della vita degli indigeni, partendo dalle TV con sistema di ricezione analogica per poi arrivare ai canali terrestri e satellitari. E’ uno strumento per far conoscere la propria cultura nel mondo. La prima rete aborigena è stata l’Inuit Broadcasting Corporation in Canada (1982). Negli Anni 80 sono nate reti indigene in Australia e negli Anni 90 negli Stati Uniti, Brasile, Bolivia e Messico. Comunità come, First Peoples, sono una forma mediale che permette di creare progetti di sviluppo tra le popolazioni indigene nel mondo, di collegarle con l’Occidente e persino di usare il loro sapere per risolvere alcuni problemi del mondo moderno.
I prodotti dei media indigeni sono distribuiti nel mondo oltre dai canali televisivi anche tramite DVD, film e portali Internet. Serie documentarie come, First Australians e We Shall Remain, sono state trasmesse per raccontare la storia delle popolazioni locali a partire dal periodo precoloniale.
I lungometraggi prodotti dagli indigeni raccontano le loro culture da un punto di vista diverso rispetto a quello degli antropologi. Dimostrano che i testi antropologici non sono sufficienti per descrivere la loro vita senza tener conto dei prodotti mediali indigeni.
Ultimamente si discute su come le tecnologie digitali possono essere adattate alle esigenze degli aborigeni. Anche se su Internet si trovano tantissimi materiali sulle popolazioni indigeni, il loro spazio è molto limitato. Nel mondo moderno quasi tutto passa almeno parzialmente dalla rete e lasciare fuori le popolazioni analfabete equivale a lasciar morire la loro lingua, cultura ed economia. Per loro l’unico modo per raccontarsi nella propria lingua è sfruttare le nuove tecnologie offerte da Internet 2.0.
I media indigeni hanno conosciuto un grande sviluppo negli ultimi decenni che, insieme alle forme mediali di produzione propria, danno la possibilità alle popolazioni locali di adattarsi al mondo moderno e di sopravvivere.

30 gennaio 2013

Capitolo 8: Digital Anthropology: Potentials and Challenges

Negli Anni 80, con l’uscita dei primi laser disk, si comincia a parlare della relazione tra l’antropologia visiva e i media digitali. Questi ultimi sono diventati parte integrale di tre aree dell’antropologia visiva: come uno dei metodi di ricerca; come forma di “cultura visiva” da analizzare; per rappresentare e diffondere il sapere audiovisivo. I media visivi mettono per la prima volta in discussione il dominio dei film etnografici nel campo dell’antropologia visiva.
Nel 2007 l’antropologo culturale Michael Wesch ha postato su YouTube il video digitale The Machine Is Us/ing Us che diventò in pochissimi giorni popolarissimo sul web. Wesch produsse questo video come parte di un articolo della prima edizione digitale del Visual Anthropology Review. Si accorse che a volte è più facile mostrare che descrivere alcuni argomenti.
Jay Ruby e Richard Chalfen individuano i tre elementi dell’antropologia visiva: 1) lo studio delle forme non-linguistiche della comunicazione per cui di solito utilizzano tecnologie visive per raccogliere e immagazzinare i dati; 2) lo studio di materiali visivi, come i film, per analisi etnografiche; 3) l’uso dei media visivi per le ricerche. A questi Sarah Pink aggiunge altri due elementi: il ruolo dell’antropologia visiva come sapere condiviso o pubblico e i progetti pedagogici.
Mentre gli antropologi visivi sono sempre più interessati ai media digitali, i sostenitori dell’antropologia digitale continuano sempre più spesso a utilizzare i media audiovisivi.
L’antropologia visiva digitale non è solo la versione digitale di quello che gli antropologi visivi hanno fatto per gli ultimi cinquanta anni, e cioè produrre film antropologici che mostravano ai festival, ma si è sviluppata in relazione con altre discipline e ha grande potenziale nell’antropologia academica.
Negli Anni 90 si inizia a parlare dell’antropologia visiva digitale e delle innovazioni negli ipermedia antropologici. Inizialmente si utilizzano le VHS e le camere SVHS poi verso la metà degli Anni 90 si passa al personal computer, per arrivare, negli ultimi anni, a poter scaricare da macchine fotografiche e videocamere direttamente sui computer portatili e conservare i dati in un hard disk esterno. Questi dati si possono condividere con gli altri antropologici attraverso CD, DVD o direttamente tramite la rete Internet.
I film etnografici sono stati utilizzati per insegnare l’antropologia sociale, anche se non nascono per questo scopo, tranne The Ax Fight, film diretto da Tim Asch con la collaborazione dell’antropologo Napoleon Chagnon sul conflitto nel villaggio Yanomano in Venezuela. E’ stato distribuito su CD-ROM mentre i mezzi pedagogici più recenti, come Experience Rich Anthropology (ERA) dell’University of Kent e Digital Anthropology Resources for Teaching (DART) della London School of Economics e Columbia University, utilizzano la rete per la loro distribuzione.
L’approccio visivo dell’etnografia sta prendendo piede negli ultimi anni. I media digitali danno la possibilità di sperimentare modi nuovi per fare antropologia. Oggi giorno, grazie ai progressi tecnologici, è possibile raccogliere in qualche settimana informazioni per cui nel passato servivano mesi e tornare a casa per analizzarle con l’aiuto di altri antropologi. I computer portatili, le camere digitali e i software moderni consentono di accelerare notevolmente processi che una volta duravano anni.
I siti web dove nel passato si potevano lasciare commenti su ricerche antropologiche sono stati sostituiti da nuove tecnologie digitali che permettono quella che Wesch chiama “etnografia collaborativa infinita”. Le persone possono aggiornare, condividere o commentare i materiali che sono stati pubblicati. I potenziali che Internet offre agli antropologi visivi sono ancora da approfondire.
Ormai quasi tutti gli antropologi visivi utilizzano i media digitali per produrre, conservare, pubblicare e distribuire i propri lavori, il che ci porta alla conclusione che stiamo vivendo nell’era dell’antropologia visiva digitale. Ci sono, però, ancora antropologi come Biella e Ruby, che nonostante l’uso della camera digitale, non creano progetti multimediali interattivi e non pubblicano i propri lavori su YouTube.
La produzione di documentari interativi su DVD è poco diffusa per i costi elevati che sono a portata solo di grossi cannali televisivi e case produttrici. Questo è un ostacolo per lo sviluppo dell’antropologia visiva e dei film etnografici poiché il DVD è un mezzo perfetto per lo studio e la conservazione di dati digitali.

29 gennaio 2013

incontro visione filmati e registrazione crediti

Ciao a tutti,
vi spero bene.
Un promemoria sull'incontro programmato nell'ultima lezione:
sono disponibile per entrambe le date da voi proposte:

lunedì 11/2 ore 10.00
lunedì 12/2 (come sopra)

nn ricordo esattamente le diverse questioni connesse con appelli et al.
mandate con commento vs preferenze e poi facciamo bilancio e decidiamo quando fissare

Ho visto il video postato sulla questione bilinguismo e avrei bisogno di comunicare con l'autrice al più presto: attendo mail

un caro saluto
sara

28 gennaio 2013

Multiculturalismo e Seconde Generazioni nell'Hinterland milanese. Cap. 1


         
Buongiorno a tutti,
      Faccio il mio ingresso in questo blog seguendo l’idea di un gruppo di abitanti dell’hinterland est di Milano (zona Cernusco S/N, Pioltello…), si vuole allo stesso tempo conoscere e raccontare come cambia radicalmente la società sul territorio.

Una zona tradizionalmente caratterizzata da una forte migrazione, un tempo proveniente dal sud Italia, oggi di stampo molto più globalizzato.

La presenza migrante, ormai sempre più di seconde generazioni, è cosa assodata in alcuni contesti e quartieri di queste località già considerate dagli abitanti milanesi come sorta di dormitori.

Nonostante questa presenza tangibile e lampante, gli abitanti di più lunga data (spesso a loro volta migranti negli scorsi decenni) non riescono o vogliono entrare in relazione con questa nuova società in continua evoluzione. Anche ostacolati dalla Babele di lingue che s’intersecano e dalle culture così diversificate che vi abitano e, non da ultimo, il confronto con una fetta di popolazione che si situa negli strati sociali più bassi, localizzata non a caso nei vecchi quartieri popolari costruiti negli anni ‘50/’60 sempre più ghettizzati e ghettizzanti.

Evidente la difficoltà d’interazione non solo tra “autoctoni” e migranti/seconde generazioni, anche la differenza di provenienza di questi nuovi abitanti crea segmentazione e mancanza, difficoltà di scambio; talvolta anzi ciò genera conflitti, pregiudizi o stereotipi tra le diverse comunità, specie per quanto riguarda le più numerose e radicate (pakistani e sud-americani soprattutto).

Simboli evidenti di questa premessa sono senz’altro le scuole (di ogni grado), in cui la presenza “multietnica” degli studenti sfonda di gran lunga la soglia del 50%  in ogni classe, o quartieri e/o gruppi di grandi condomini popolari in cui gli abitanti della zona narrano di una provenienza o origine diversa da quella italiana addirittura oltre il 90% dei residenti. L’esempio che tutti riportano senza esitazione è il così detto “Satellite” di Pioltello.

Raccolta di informazioni e contatti con osservatori privilegiati di queste “istituzioni” (scuole/centri d’aggregazione e quartieri), sarà il primo passo per approfondire ed eventualmente addentrarsi in questa tematica.
 
Vittorio Artoni

26 gennaio 2013

Capitolo 7: Ethnographic Film

I film etnografici sono quelli che raccontano delle persone. Inizialmente erano intesi come documentari sulle culture non-Occidentali. La parola “etnografico” si usa generalmente per le culture esotiche, contrariamente al senso che le danno gli antropologi. Molti dei registi non hanno alcuna conoscenza nell’ambito antropologico e non coinvolgono professionisti nella produzione dei film.
Per alcuni un film impiegato nell’ambito dell’antropologia culturale deve essere considerato etnografico. C’è un dibattito tra gli studiosi che considerano etnografici tutti i film e quelli che sostengono che solo gli antropologi possono produrre film etnografici.
Con l’invenzione della macchina da presa, la registrazione permette agli studiosi di “portare a casa” materiale dal loro campo di ricerca e analizzarlo con colleghi che non ci sono mai stati. Inizialmente questo ruolo apparteneva alla fotografia.
Nel 1955 Michaelis afferma la necessità di produrre film di ricerca e creare un archivio per conservarli. Archivi come quello di Insitut fur den Wissenschaftlichen erano accessibili agli studiosi che periodicamente li arricchivano con del materiale nuovo.  
Il concetto di “film di ricerca” si basava inizialmente sulla filosofia positivista che lo considerava un dato obiettivo di importanza storica. Con l’arrivo dell’epoca postmoderna si mette in dubbio l’obbiettività in quanto la ripresa è un’azione molto soggettiva.
Molti paesi che danno importanza alla ricerca antropologica hanno librerie/archivi per i film etnografici: the Royal Anthropological Institute, the Nordic Anthropological Film Association. A volte i film commerciali sulle culture esotiche sono realizzati con l’assistenza di antropologi. Uno dei film etnografici più popolari del Nord America è stato The Hunters (1957).
Dalla metà degli Anni 90 alcuni produttori hanno sfruttato la nuova tecnologia digitale per creare video abbinati a fotografie e testi che erano visti sul computer e non più proiettati. Con l’arrivo di internet e del web questi materiali sono reperibili direttamente nei siti internet. Negli anni precedenti, invece, accedere ai film etnografici era molto difficile e costoso. Si potevano noleggiare direttamente dalle università i film in 16 mm che sono stati sostituiti prima dalle videocassette e in seguito dai DVD.
Nel 1950 viene istituito l’UNESCO International Committee on Ethnographic and Sociological Film. In Italia, a Firenze, viene organizzato il Festiva dei Popoli nel 1959. Ogni due anni in Gran Bretagna si organizza The International Ethnografic Film Festival. Ci sono festival, organizzazioni, training in tutto il mondo: the Taiwan Ethnographic Film Festival, the South African Film and Video Project, etc.
Con la globalizzazione, ci sono materiali su tutti i posti esotici e, nello stesso tempo, gli indigeni possono far sentire la propria voce attraverso i film prodotti da loro. I tempi dei film in 16 mm sono finiti e oggi ogni antropologo con una videocamera è in grado di produrre un film etnografico sui propri studi. Questi film possono essere messi a disposizione di tutti attraverso la rete.

Capitolo 6: Tracing Photography

In questo capitolo Elizabeth Edwards percorre la storia della fotografia da 3 punti di vista: il modo in cui la fotografia ha rappresentato i fatti antropologici; il ruolo della fotografia nel riprodurre il corpo coloniale come oggetto degli studi antropologici; il ruolo della fotografia nell’antropologia di oggi. Si cercherà di capire la posizione della fotografia nell’antropologia in generale e non solo in quella visiva.

Le fotografie devono registrare ma anche preservare la realtà e perciò è importantissimo che lo scatto sia il più trasparente e discreto possibile. Nel 1951 esce il manuale Notes and Queries on Anthropology che sconsigliava l’utilizzo di macchine fotografiche che coprono il viso a favore di quelle invisibili. Molte delle fotografie erano rovinate perché il soggetto stava guardando il fotografo. Mettersi in posa era considerato innaturale. Si cercava di riprendere gli indigeni nella loro quotidianità senza che si accorgessero delle riprese in modo da avere un documento più naturale.
Mead e Bateson spiegano come, nel loro soggiorno a Bali, a volte chiedevano ai balinesi di fare un’attività in un dato momento della giornata per poter avere la luce giusta, ma sottolineano che questo è ben diverso dal mettere in posa in soggetto. Mettere in posa i soggetti prima dello scatto era utilizzato tra la fine del XIX e la metà del XX secolo, come dimostrano i lavori di Malinowski ed Evans-Pritchard. Boas non solo realizzava fotografie in posa, ma ha posato lui stesso riproducendo la cerimonia Hamat’sa per l’American Museum of Natural History.

La fotografia nel XIX riservava particolare attenzione all’immagine coloniale del corpo, molto più che dopo il 1910. Le fotografie sono sempre più presenti nel lavoro degli antropologi e non sono più visti solo come materiale per l’antropologia visiva, ma per l’antropologia generale. Le foto “registrano” quello che troviamo sul campo di ricerca e ci permettono di analizzarle e studiarle.

23 gennaio 2013

Capitolo 5: Theorizing the "Body" in Visual Culture

La letteratura sul “corpo” nelle scienze umane e sociali si diffonde alla fine degli Anni ’70 e verso la metà degli Anni ’80 appare dappertutto. Nell’antropologia americana, però, il “corpo”, come materiale visivo, era presente già negli Anni ’40.
In questo capitolo gli studi sul “corpo” sono suddivisi in tre gruppi:
1.    Discorsi sul corpo (il corpo come oggetto biologico, culturale e sociale)

1.1  Il corpo come oggetto culturale: Nei testi antropologici il corpo dei non-Occidentali sono descritti come oggetti culturali. Attraverso le fotografie, gli schizzi e le descrizioni antropologi ed etnologi prestano molta attenzione a fenomeni visivi come maschere, abbigliamento, ornamenti, etc. I tatuaggi e i body painting sono visti come identità sociali in base all’età, sesso o stato politico.

1.2  Il corpo come oggetto biologico ha avuto grande importanza per l’antropologia generale nel XIX e XX secolo. E’ stato classificato, descritto e differenziato per le sue caratteristiche fisiche. Già nel 1758 Carl Linnaeus distingue 7 razze diverse, ciascuna con caratteristiche che la distinguano dalle altre: gli Europei bianchi (robusti e muscolosi), gli Asiatici gialli (malinconici e freddi), gli Americani rossi (irascibili e onesti), gli Africani neri (lenti e rilassati), i Ferus (irsuti e selvaggi), i Trogloditi e i Mostruosi (per definire i giganti e mutanti genetici). Qualche anno più tardi Blumenbach classifica gli umani per anatomia e non più per caratteristiche culturali: Caucasici (bianchi), Mongoloidi (gialli), Americani (rossi), Etiopi (neri) e Malesi (marroni).

1.3  Il corpo come oggetto in movimento: Non solo la superficie del corpo dei non-Occidentali, decorata e modificata, ma anche i suoi movimenti sono oggetto di studi antropologici. Le abitudini insolite, le danze selvagge e i rituali esotici furono di grande interesse per gli esploratori e gli etnologi del XIX secolo. Grazie a queste pratiche, che a volte disgustavano gli Europei, i popoli esotici erano etichettati come “primitivi”. Secondo l’antropologo inglese Tylor il linguaggio dei gesti era nato molto tempo prima del linguaggio parlato e scritto ed era universale. A conferma di questa sua tesi condusse alcuni studi sul linguaggio dei sordi in diversi paesi. Per Franz Boas, che studio anche le danze dei “primitivi”, il linguaggio dei gesti era importante quanto quello parlato per comprendere le culture studiate, per capire come gli indigeni percepiscono il proprio corpo. Anche le sue allieve Margaret Mead e Ruth Benedict prestarono molta attenzione al movimento del corpo nei propri studi.

2.    Discorsi del corpo (com’è vissuto il corpo, I feel/experience; Antropologia dei sensi – la Prima rivoluzione somatica) - Negli Anni ‘80/90 gli studi di Foucault si concentrarono sul corpo come costruzione culturale e nell’ambiente degli antropologi si cominciò a parlare del corpo dal punto di vista medico, sessuale, politico e sociale. Il “corpo vissuto” è il corpo che sentiamo e sperimentiamo. E' attraverso i sensi che l'uomo entra in contatto con il mondo esterno e con il proprio stesso corpo.

3.    Discorsi dal corpo (il concetto post-cartesiano della personificazione dinamica – la Seconda rivoluzione somatica) – Molto poco si è parlato del corpo come un agente in movimento in uno spazio di significati ben organizzato. Drid Williams, Brenda Farnell e Charles Varela hanno contribuito molto agli studi dell’azione umana come pratica dinamica (il movimento stesso del corpo che, ovviamente, può essere anche percepito). Qui vediamo la differenza sostanziale tra la Prima e la Seconda rivoluzione somatica: la differenza tra il sentire il corpo (in movimento o statico) e il movimento stesso; l’uso del termine “azione” sostituisce il termine “comportamento”.