21 giugno 2012

Aula ultimo incontro

Ciao a tutti,
l'ultimo incontro si svolgerà giovedì 28 a partire dalle 10.30 in aula U6/38.
Ogni gruppo presenterà il proprio prodotto audiovisivo facendolo precedere da una breve presentazione durante la quale vi si chiede di esplicitare il percorso svolto e le questioni/domande/riflessioni che ha generato. In particolare la richiesta è quella di provare a riflettere attentamente sulle modalità dell'osservazione che avete utilizzato e sulla traccia di esse all'interno dei lavori che presenterete.
in che modo lo strumento di ricerca utilizzato - telecamera/macchina fotografica/archivi fotografici - vi ha consentito di esplorare/ conoscere/ comunicare  il contesto di ricerca e che tipo di informazioni antropologiche ha prodotto?

I vs lavori come accennavo nel corso del precedente post verranno inseriti in un sito. Per fare questo vi ricordo che dovete caricare i video sul canale youtube etnoperformance.
l'accesso al canale è possibile - come specificato - attraverso la mail: youtube@etnografiadellaperfomance e una password che vi posso girare via mail se mi scrivete.

Nonostante i ripetuti tentativi nn sono riuscita a mettermi in contatto con i membri del gruppo Pallavicini che, non so quindi, a che punto sono con il montaggio. Ricordo che la produzione del video finale non è opzionale ma necessaria al fine del conseguimento dei crediti previsti per la frequentazione del laboratorio.

un caro saluto a tutti
sara

15 giugno 2012

Ultimo incontro e news

Ciao a tutti,
un refresh sulla data di presentazione dei lavori:
giovedì 28 alle 10.30 potrebbe andarvi bene? Raccogliendo le  risposte dai diversi gruppi mi pare la soluzione migliore. Attenderò eventuali  commenti fino all'inizio della settimana prox e poi prenoterò l'aula.

Abbiamo istituito un canale youtube dove potete caricare i vs video che verranno poi linkati a un sito che è in fase di realizzazione e che raccoglierà le esperienze realizzate negli ultimi anni - comprese quelle degli studenti del laboratorio ad una voce specifica.

l'url del canale è quello di youtube: http://www.youtube.com/
l'account è il seguente: youtube@etnografiadellaperformance.it
per la password scrivetemi una mail che ve la giro (sabraman@libero.it, sara.bramani@unimib.it)

Per il gruppo tatoo: ho guardato il video finale e va bene così. l'unico rilievo l'ho fatto ieri alla vostra collega che è venuta nel lab e che se avrà tempo proverà a inserire ( la presentazione iniziale dei soggetti credo che sarebbe meglio valorizzata se fosse seguita da una presentazione visiva del loro lavoro piuttosto che da una verbalizzazione della vostra interlocutrice)

Per il gruppo Pallavicini: avrei bisogno di un vostro riscontro sulla data di presentazione in particolare sull'eventualità di invitare comitato stranieri e coord villa pallavicini......

Per tutti: all'inizio del video va inserito il logo della Bicocca e il logo del laboratorio. Se non avete i loghi in cartella fatemi sapere che ve li invio via mail.

un caro saluto
sara

13 giugno 2012

"Le ragioni dello sguardo" di Francesco Faeta


Capitolo 9 | Dietro il silenzio dei cimiteri. Imago mortis rivisitata.

In questo ultimo capitolo Faeta  si concentra sugli spazi dei morti, sui cimiteri. Inizia con una breve comparazione tra il cimitero di Montparnasse, a Parigi, e quelli della Calabria. Dei modi diversi di celebrare i defunti e di come nel tempo le due tipologie si siano avvicinate tra loro.
Lo svolgersi del discorso della memoria già dai tempi dell’antica Roma, si disponeva secondo ordinate e rigide sequenze: “colui che giaceva dietro la lapide era, innanzitutto, uomo (o donna) esemplare, comunque soggetto che aveva avuto nella vita esperienze professionali degne di essere ricordate (…) era, poi, leale e affezionato parente; era, infine e ulteriormente, persona tuttora vivente dentro un mondo evanescente e larvale” [pag. 226].
Anche la libertà e l’autonomia all’interno del cimitero, da parte dei parenti dei defunti, è cambiata: oggetti e fiori secchi venivano disposti sulle tombe e nessuno li rimuoveva, i sacerdoti non intervenivano in nessun modo anche davanti a usanze “non lodevoli” e la costruzione di edifici per la sepoltura avveniva in maniera spontanea. “Il rumore, il suono, le parole, s’inscrivevano con forza nelle attività di soglia; servivano per notificare al morto il complesso delle pratiche cerimoniali di cui egli beneficiava e al vivo, ai vivi, la scrupolosa osservanza delle regole che il gruppo familiare aveva. Saper osservare le regole nei confronti dei morti significava, infatti, offrire garanzie complessive di osservanza delle regole sociali più estese, di rispetto degli ordini, delle gerarchie, dei vincoli consuetudinari, delle alleanze. Dunque, la memoria dei morti (…) disegnava il pentagramma su cui si vergava la memoria dei vivi” [pag. 227]. Attraverso alcune pratiche, come il parlare a voce alta ai defunti, si facevano esistere i morti e si legittimavano i vivi e il loro sforzo di costruzione e ricostruzione sociale.
Faeta ripercorre i cimiteri di oggi trovando le pratiche di un tempo profondamente cambiate: le cappelle familiari sono costruite secondo regolamenti, non mimano più la casa del defunto ma lo sono, essendo a tutti gli effetti delle piccole case. Si è passati dalla tomba come luogo di memoria, al monumento, oggetto che invece indirizza l’attenzione su se stesso come simbolo rappresentativo. L’insieme di atti spontanei presenti qualche decennio fa, ora sono inibiti a causa della soglia chiusa delle cappelle familiari, che permettono l’ingresso solo attraverso il possesso delle chiavi da parte di un parente. “ciò comporta la perdita della dimensione estesa e corale dell’attività commemorativa e la sua compressione in unità temporali di carattere eccezionale e ristretto” [pag. 230]. Non vi sono più simboli del viaggio in quanto lo statuto della morte è cambiato da l’idea di una navigazione a quella di una stabile e sicura residenza.
 “Da luoghi naturalizzati attraverso una pratica metafisica della relazione, i camposanti tendono a divenire spazi socializzati, al cui interno s’inscrivono relazioni civili” [pag. 232].
L’autore cita alcuni passi di Aleida Assmann riguardo la memoria culturale che ha il suo centro nella commemorazione dei morti, da questa affermazione Faeta si interroga sul cambiamento delle prime il conseguente mutamento delle seconde: “la commemorazione dei morti ha una dimensione religiosa e una laica, che è possibile identificare rispettivamente nella pietas e nella fama” [pag. 237] la prima è il dovere dei vivi di mantenere acceso il ricordo dei defunti per conservare stabili le relazioni che legano i due mondi, la seconda rappresenta il bisogno di garantire le condizioni di predominio di un gruppo sull’altro, di egemonia. Secondo l’autore le modificazioni della commemorazione calabrese hanno attenuato la pietas e enfatizzato la fama. “Il discorso funebre s’indirizza oggi sempre più alla comunità dei vivi e tende a celebrare, indirettamente, attraverso l’imponenza del monumento e la sua puntuale aderenza al modello della casa. (…) Occorre essere in prima persona, in quanto membri autorevoli e dominanti, sacerdoti di quella memoria. Bisogna piegare la prassi cattolica a un uso civile della memoria” [pag. 238].
Infine Faeta si sofferma sull’immagine del defunto, che “appare meno direttamente coinvolta nel regime cerimoniale di quanto non lo fosse in precedenza” [pag. 239].
In conclusione i mutamenti che si sono affermati  si manifestano mediante un nuovo atteggiamento culturale: “la riduzione della condizione parossistica del dolore, il suo controllo, la tendenziale eterificazione della condizione luttuosa” [pag. 240]. È, dunque, una memoria placata e con ciò permanente, custodita all’interno del monumento “sempre pronta a rimettere il defunto dentro le configurazioni molteplici e cangianti del gioco sociale” [pag. 240].

12 giugno 2012

giovedì 14 giugno

Buongiorno,
come sempre scrivo per confermarle che giovedì, se possibile, saremmo liberi per venire al laboratorio. Purtroppo lunedì non sono riuscita  a venire, ma mi hanno detto di scriverle che saremo lì per le 10.

Grazie,
Viola

11 giugno 2012

occhiali

Ciao a tutti,
attendo conferma dai vari gruppi per prenotazione aula ultimo incontro. Colgo l'occasione per avvisarvi che qualcuno di voi ha lasciato nel lab un paio di occhiali da vista montatura rayban colore viola in plastica.
sara

9 giugno 2012

Laboratorio lunedì 11 giugno

Salve,

Noi del gruppo di Baranzate volevamo chiederle se è possibile venire in laboratorio lunedì 11 intorno alle 10.30 per poter proseguire con il lavoro di montaggio. Ora abbiamo tutti i materiali, comprese le riprese di esterni che, nonostante alcune difficoltà, sono state fatte con successo.
Per quanto riguarda la visione dei video, credo che per noi sarebbe meglio venerdì 28 per essere certi di essere risuciti a terminare il progetto, ma non ho ancora avuto modo di discuterne coi miei colleghi.

Viola

8 giugno 2012

giornata di presentazione lavori

Ciao a tutti,
ho sentito l'amministrativa per la questione registrazione crediti la quale mi ha informato che non cambia nulla rispetto ai semestre scorsi, ovvero, prenderò nota dei vostri nomi e matricole e invierò il file che poi servirà a chi di competenza per registrare i vs crediti e approvazione via sistema informatico.
Alcuni di voi mi hanno già dato i dati ma la maggior parte ancora no.
L'idea sarebbe quella di fissare insieme a voi una data + aula per la visione e discussione dei vs lavori. In tale data possiamo anche procedere con l'invio dei dati per registrazione crediti.
Le date che vi propongo sono le seguenti:
- lunedì 25/06 mattina o pomeriggio
- venerdì 28/06 mattina o pomeriggio

Fatemi  sapere per cortesia che devo prenotare l'aula. In tale data pensavo di invitare anche il comitato stranieri e coordinatori vari villa pallavicini.
un caro saluto a tutti
sara



Post-produzione Hip Hop finita

Comunicazione veloce: ho finito la post dell'etnografia del gruppo Hip Hop, registrando ieri i voiceover e facendo la grafica delle didascalie. Nei prossimi giorni revisiono e renderizzo, poi carico sul Tubo in privato, visibile solo con link per passarlo alle protagoniste per eventuali censure.
La procedura dopo qual è? Lo pubblichiamo sul canale del LAMA?
Grazie e a presto!

Jacopo

6 giugno 2012

"Le ragioni dello sguardo" di Francesco Faeta


Capitolo 8 | I maiali di re Carnevale. Memoria sociale e intimità culturale.

Questo saggio si incentra sul legame tra produzione e consumo di alimenti e la memoria sociale in particolare sui percorsi attraverso cui le società ricordano.
In tutte le società il cibo ha avuto, e ha, un valore simbolico. Basti pensare a cosa indica nell’immaginario comune la catena di fast food McDonald , o l’attenzione posta nella diposizione dei  prodotti all’interno degli scaffali dei supermercati, per capire come l’aspetto simbolico del cibo riguardi la contemporaneità. In questa dimensione simbolica il cibo è anche strumento di costruzione della memoria, un tempo come ai giorni nostri, tutte le feste erano accompagnate da alimenti tipici e la loro comparsa nei negozi e nei mercati ricordava la ricorrenza, come per esempio la festa dei morti nel Mezzogiorno, in cui oltre a cibi tipici vi era un vero e proprio rituale di distribuzione di esso a determinate categorie di persone.
Faeta prende in esame un’altra ricorrenza per spiegare il legame tra cibo e memoria sociale: il Carnevale a Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro. Centrale in questa occasione era la figura del maiale: tutto questo periodo era caratterizzato da eccessi alimentari dovuti ai numerosi banchetti per l’uccisione degli animali e al consumo dei prodotti residui della precedente annata: “si uccidono i maiali e si organizzano i banchetti perché è il tempo per fare ciò, non perché sia Carnevale, e tuttavia l’insieme delle azioni e delle relazioni poste in essere non avrebbe senso alcuno se non fosse, appunto, Carnevale; e se la memoria di consuetudini recenti non restasse sospesa sull’agire quotidiano” [pag. 201].
Oggi a Nocera, come in molti altri paesi, le manifestazioni carnevalesche sono quasi del tutto scomparse, ma è ancora vivo l’uso di “fare il maiale” e dell’organizzazione di banchetti dovuti all’uccisione e alla lavorazione delle carni di questo animale che ha un’importante funzione culturale e sociale.
Il possesso del maiale era indicativo di uno status, chi lo possedeva non era totalmente povero, e l’animale diveniva indice di agiatezza. Con i processi di modernizzazione iniziati negli anni sessanta  l’inderogabilità economica e alimentare del maiale è diminuita per l’ampio accesso alle carni fresche e alla diffusione dell’alimentazione industriale. Questo ha posto ancora più in rilievo la sua utilità simbolica: “il maiale continua ad avere importanza, sia come indicatore di status e marcatore simbolico, sia come strumento di relazione nell’ambito della società nocerese, sia come mezzo di rimemorazione” [pag. 205].
Il maiale ha continuato ad attivare due circuiti solidaristici: il primo lega la famiglia dell’allevatore con chi dona abitualmente scarti alimentari di vario genere per contribuire all’allevamento dell’animale, il secondo unisce chi presta o scambia manodopera più o meno specializzata per l’uccisione del maiale. Questi circuiti comportano scambio e dono creando una situazione di reciprocità e attivando una rete di relazioni sociali.
I banchetti si svolgono durante il periodo del Carnevale, ogni famiglia di allevatori invita parenti e amici per “fare il maiale”. Le operazioni  e i compiti che si svolgono sono divise in base al genere (agli uomini l’uccisione, la raccolta del sangue, la sospensione, lo squartamento ecc., alle donne la confezione delle salse, la salatura, la lavorazione delle carni minute, la preparazione dei cibi da consumare in giornata ecc.). Le figure centrali della festa, sono due: il possessore dell’animale e colui che lo uccide. Quest’ultimo è spesso una figura quasi professionale ed è al centro di una rete molto ampia di amicizie e di relazioni sociali che caratterizzano un indiscusso prestigio. La figura dell’uccisore è di particolare importanza e a lui non è dovuto nulla al di fuori dei regali di carne; “questo modello di relazione sociale (donare senza apparentemente ricevere) ha grande importanza a Nocera” [pag. 211].
Questa festa consolida l’alleanza tra le famiglie e il sentimento di appartenenza a un segmento comunitario come membri di una comunità.
“Il banchetto rituale si pone come momento cardine in cui i saperi e le memorie relative all’animale vengono riattualizzati e trasferiti dentro una fragile, ma tenacemente perseguita, percezione del presente: una percezione che (…) si alimenta nell’aspettativa e nell’attesa” [pag. 213].
Il tipo di ricordo che si elabora all’interno di questa cornice tende a recuperare le vicende comunitarie e quella del gruppo che si autocelebra. Per spiegare meglio il processo mnestico dei banchetti, Faeta ricorre alla distinzione tra opzioni fredde e calde di Assmann. Queste due opzioni sono presenti all’interno di tutte le società e rappresentano una risorsa per definire il rapporto dei gruppi umani con la Storia attraverso due poli opposti: conservazione e mutamento. La memoria fredda impedisce l’irruzione della Storia e, alternandosi con quella calda, mantiene al riparo da ciò che disordina e accelera, consentendo la costruzione di una tradizione locale.
Inoltre il maiale consente di ricordare quando il controllo delle cose era in mano alla comunità che lavorava in rapporto con la natura e in cui le cose “avevano sapore”. Il banchetto rituale assume un ulteriore significato: “la lavorazione e la consumazione dei resti: ieri utili nell’ambito di un’economia di sussistenza, in cui nulla poteva essere scartato, essi connotano oggi un ambito alimentare tipico, distintivo certamente della calabresità e della noceresità ma, al loro interno, specialmente della virilità. (…) Il prepararli e il consumarli divengono, allora, fatti distintivi di un’umanità diversa, che non teme ciò che teme colui che viene da fuori . (…) Mangiare le parti forti dell’animale (…)caratterizza il locale in rapporto al nazionale, ma anche l’uomo rispetto alla donna. Il simbolo così si scinde in base all’appartenenza di genere.” [pag. 217]

Laboratorio 7 giugno

Buongiorno, Scrivo a nome del gruppo di baranzate. Stiamo proseguendo nel montaggio del nostro video e volevamo chiederle se domani sarà disponibile il laboratorio, compatibilmente con i suoi impegni! Nel caso potremmo anche la mattina. Viola

5 giugno 2012

"Le ragioni dello sguardo" di Francesco Faeta


Capitolo 7 | Visione, somiglianza, ricordo. Simulacri e contesti rituali.

In questo capitolo Faeta indaga sul campo festivo e sulla relazione tra lo sguardo e le immagini alla memoria. Prende in esame, soprattutto, le immagini sacre all’interno di alcuni contesti rituali del Sud Italia.
Un ruolo fondamentale è svolto dai simulacri senza i quali non vi sarebbero campo festivi e attori sociali. “Il campo festivo sembra essere anche proiezione sociale di quello spazio del sacro che esiste (…) solo là dove una realtà sensibile è anche immagine presunta, direttamente o indirettamente, di una realtà soprannaturale” [pag. 174]. Simulacri e immagini sacre sono poste al centro di dinamiche che riguardano lo sguardo.  Il carattere eidetico si è affermato in età controriformistica per esprimersi completamente nell’estetica del barocco in cui centrale è il lutto, la celebrazione di un eroe defunto, l’esibizione della morte, del martirio, del sangue e le feste sacre sono, quindi, anche il luogo in cui si mostra il corredo estetico del barocco stesso. “La visione, la contemplazione, l’estasi, un insieme di pratiche visive di inconsueta intensità, caratterizzeranno stabilmente, da allora, il rapporto dei fedeli con il simulacro” [pag. 175]. Nel Mezzogiorno italiano, la predicazione riformata puntava sull’uso delle immagini, sulla manipolazione dell’immaginario e sulla disciplina attraverso il dominio dei corpi mediante pratiche di penitenza e di flagellazione, tutto questo serviva a “far ricordare” e a mostrare l’ordine gerarchico della Chiesa e di assicurare un’obbedienza delle masse deprivilegiate.
Oggi il modello archetipico su cui si plasma lo sguardo del fedele è quello della visione: “ogni esposizione del simulacro nello spazio sacro, o in quello civile, equivale dunque, per un esteso numero di persone, a un’apparizione miracolosa, alla comparsa del divino sulla scena della quotidianità” [pag. 179]. L’osservazione di un simulacro divino è carico di valenza metafisica, segnalato in modo enfatico da tutte le pratiche che precedono l’apparizione pubblica. Ma cosa vedono i devoti quando guardano un simulacro divino? Dipende dal contesto sociale, dal gruppo di appartenenza, dall’individuo: “cosa si vede quando  si guarda un simulacro divino è oggetto di un complesso lavoro di definizione, di una forte negoziazione reciproca, di una pratica di scambio e di mediazione tra gruppi e tra singoli” [pag. 181] individuare queste differenti visioni è compito dell’antropologia dello sguardo che deve fare i conti con la modulazione sociale delle categorie culturali. Ancora riguardo i simulacri, secondo Faeta è forte la tendenza alla diffusione di pratiche di spettacolarizzazione (in cui l’uso spettacolarizzato e videoinformatico del contesto rituale diventa invasivo e pervasivo) e di patrimonializzazione della festa.
Tratto essenziale del simulacro è il suo essere oggetto eidetico e questa condizione è data da un insieme di pratiche di manipolazione, “manipolare il simulacro significa trasferire, nella concreta dimensione sociale e politica, il suo potere visivo. La manipolazione (…) ha il compito di predisporre all’uso politico i simulacri e di organizzare il tempo, lo spazio, i modi della visione”. E aggiunge “i simulacri vivono una sorta di esistenza ossimorica, sospesa tra sensi (…) tra loro in opposizione, l’uno distanziante e separativo, l’altro approssimante e congiuntivo. E le pratiche rituali (…) transitano da una fase propedeutica di intimità e contatto a un’altra di estraneità e separazione”[pag. 184].
In quanto oggetto sacro, il simulacro può essere toccato solo da persone espressamente delegate e secondo regole di genere molto rigide, e nei tempi, spazi e modi definiti. L’azione di queste persone è politica in quanto creano le condizioni di agency in cui tutto ciò che vi confluisce contribuisce all’elaborazione del paradigma della somiglianza e alla salvaguardia del regime che riguarda i fenomeni della memoria dentro cui il simulacro esiste. Le pratiche di manipolazione favoriscono, infatti, proprio questo aspetto rimemorativo con cui il simulacro è vissuto e ne preservano il riconoscimento all’interno del rituale.
Faeta ritorna sul carattere della somiglianza del simulacro esplorando i due regimi temporali distinti che lo rigurdano: “quello della lunga durata, per cui il simulacro è percepito come concreto prodotto di una vetusta e ampia tradizione figurativa e come oggetto identico a stesso da tempo immemorabile (…) e quello del breve periodo, legato a una serpeggiante ansia sociale del gruppo di riferimento, per cui il simulacro manifesta la buona disposizione e la vocazione protettiva della divinità che presentifica e incarna” [pag. 188].
Quando il simulacro subisce un processo di patrimonializzazione, diventando un bene culturale, opera d’arte, oggetto venale, le regole di conservazione e il suo uso cambiano drasticamente. Questo processo, inoltre, rappresenta un ridimensionamento oggettivo delle prerogative spaziali e temporali perché viene considerato  nel suo tempo storico, datato, “ridimensionando la vita mitica e l’indefinita allocronia che presiedevano nella sua sacralizzazione”[pag. 191]. Faeta conclude proprio con un’ultima considerazione sulla parimonializzazione dei simulacri: “il simulacro locale (…) tende ad acquisire, per vie del tutto esterne alla logica religiosa e culturale che lo concerne, elementi globali. (…) Ma non è [un fatto] del tutto nuovo, perché i simulacri sono sempre stati costruiti tramite un processo di circolazione iconica molto ampio sia sul piano territoriale che su quello sociale” [pag. 196].


2 giugno 2012

"Le ragioni dello sguardo" di Francesco Faeta


Capitolo 3 | “Creare un nuovo oggetto, che non appartenga a nessuno”. Campo artistico, antropologia, neuroscienze.

Faeta parte da alcune riflessioni di David Freedberg che sosteneva il bisogno di creare un nuovo oggetto per la conoscenza che sfugga alle discipline come l’antropologia e la storia dell’arte, ma che sia un oggetto transdisciplinare. Faeta espone la sua prospettiva, diversa da quella di Freedberg, per interpretare il campo artistico. Da sempre la definizione di antropologia dell’arte ha privilegiato il criterio estetico che prende in considerazione le sole arti colte. È necessario, dunque, sciogliere la nozione di antropologia dell’arte in molti punti di vista antropologici che tengano conto della peculiarità di ogni forma espressiva e di tutti i contenti etnici. Per fare ciò è indispensabile che le antropologie (dei suoni, della musica, del cinema, eccetera) “prendano avvio dalla riflessione intorno ai fondamenti sensoriali che presiedono alla formazione dei prodotti” [pag. 73].
Tale criterio estetico può costituire il banco di prova per una revisione metodologica ed epistemologica. L'antropologia dell'arte ha utilizzato gli stessi schemi che provenivano dalla storia dell'arte, estendendoli ai prodotti delle culture popolari o primitive a cui sono stati applicati con pochi accorgimenti.
Una delle critiche al criterio estetico viene da Goodman, l’dea che la valenza estetica di ciò che noi definiamo artistico per le società altre è assente, “prospettiva per la quale ciò che qualifichiamo come elemento estetico, in realtà è l’elemento in cui si sedimenta il processo di messa in relazione tra pensiero e attività formale, e tra elaborazione concettuale e pratica sociale” [pag. 75].
Anche la nozione di agency necessita di un ampliamento che tenga maggiormente conto delle strutture sociali, della realtà degli attori, la loro capacità di elaborazione simbolica e la loro memoria rituale.
Anche qui un rilievo centrale viene dato allo sguardo in quanto strumento che permette la “relazione del pensiero e della forma, dell’elaborazione concettuale e della pratica sociale”[pag. 78]. Anche nelle pratiche di produzione di archetipi formali studiati dall’autore,  il fulcro dell’apprendimento e dell’apprendistato dei giovani avviati al mestiere, avvengono mediante l’esercizio della parola orale, dell’occhio e della memoria visiva. Secondo Faeta un’antropologia visuale deve essere interpretata come un’antropologia sociale che pone l’attenzione sullo studio delle immagini come prodotto dello sguardo e sulle tecniche di espressione.
L’approccio antropologico che propone Faeta “deve poggiare su una consapevole sospensione ermeneutica e praticarla coraggiosamente, si dove essa si rivela percorribile. Questa mi sembra la soluzione possibile per un rapporto non obsoleto (…) con il campo e l’oggetto artistici, non quella sostenuta da Freedberg, poggiata sull’orientamento neuroscientifico” [pag. 81]. Con questo Faeta non intende delegittimare la neuroscienza, ma puntare l’attenzione sulla pretesa errata dell’indagine neuroscientifica, di spiegare il campo artistico nei termini della neuroestetica. Per Faeta la soluzione che può venire dalla disciplina antropologica e dalle scienze sociali, dunque, non è quella di delegare a una prospettiva esterna i problemi che tali discipline non riescono a spiegare, ma attraverso la revisione profonda delle discipline stesse.

1 giugno 2012

Strategie dell'occhio. Sulla fotografia etnografica di F. Faeta II

Faeta si sofferma sul potere di verosimiglianza dell'immagine, ovvero sul rapporto non arbitrario che esiste tra fotografia e realtà. Il carattere iconico del segno/simbolo e  la valenza analogica della fotografia possono costituire, come diceva MacDougall, delle risorse e delle potenzialità del mezzo fotografico/filmico piuttosto che aspetti prettamente negativi e delegittimanti.  Qui Faeta sembra proporre un utilizzo critico del mezzo tecnologico sia per riflettere criticamente e per comprendere il grado di scarto descrittivo tra immagine e e dimensione reale dei fenomeni in oggetto, che per procedere a un lavoro di comparazione che non vuole essere meramente tassonomico ma che recuperi la possibilità di mettere in relazione oggetti diversi che possiedono "la stessa aria di famiglia" o oggetti somiglianti che appartengono a famiglie diverse.
Secondo Faeta sarebbe necessario dare alla fotografia un'articolazione di linguaggio che possa fornire all'etnografo una griglia di decodificazione di questa particolare forma di rappresentazione. Questo non per promuovere  o affermare un nuovo regime di oggettività dell'immagine ma per fornire gli strumenti che rendano possibile apprezzare ed assumere riflessivamente la soggettività dell'etnografo/fotografo.
La grammatica e la sintassi di questo linguaggio, i suoi moduli di articolazione, vengono individuati da Faeta nell'instantanea, nel ritratto e nella sequenza.

1. Istantanea: riconduce al quadro critico dell'osservazione non esplicitata e non dichiarata ( senza il coinvolgimento dichiarato del soggetto/oggetto della ricerca) che può essere utile per riflettere sullo scarto tra dimensione reali di svolgimento di un evento e sua trascrizione in immagine. tanto più se esistono termini di raffronto in archivi attendibili.  Questo non significa, in pratica, occultare la propria presenza e le proprie intenzioni. Al contrario il posizionamento esplicito del ricercatore sul campo crea un campo di relazioni/posizioni che la fotografia può aiutare ad indagare. le istantanee, secondo Faeta, consentirebbero di riflettere sull'elemento tecnologico e sulla postura dell'osservatore in modo critico e consapevole. Lo scopo dell'istantanea non è certo quello di raggiungere una qualche autenticità o corrispondenza semplice con la realtà. Proprio la consapevolezza del costrutto culturale che la foto produce può essere di grande stimolo all'analisi delle politiche e delle poetiche della rappresentazione.
Faeta consiglia l'uso di ottiche di corta e media focale, un campo con inquadratura omogenea, movimenti della camera lungo assi definiti e riconoscibili.

2. Il ritratto: all'opposto dell'istantanea il ritratto comporta il coinvolgimento profondo dei soggetti/oggetti della ricerca oltre che la presenza dell'etnografo e della macchina. Il ritratto, dice Faeta, può divenire un mezzo elettivo del rapporto di osservazione della partecipazione e ne consiglia l'utilizzo come strumento di classificazione e catalogazione, come immagine ricapilotativa dell'identità individuale, sociale, di genere, etc.
Consiglia per esempio di costruire delle schede fotografiche di un soggetto specifico in cui siano contenuti i dati bibliografici essenziali, fotografie tratte dai suoi album, del suo passato, famiglia e affetti, eventi e situazioni che ritiene significati nella sua vita + sequenze realizzate dal ricercatore sugli spazi/tempi e contenuti salienti della vita del soggetto + documentazione specifica relativa all'oggetto della ricerca + foto del soggetto da solo e in compagnia con chi desidera farsi ritrarre eseguiti in uno spirito di collaborazione. il ritratto come descrizione densa scaturisce, afferma Faeta da un complesso livello di interazioni interpretative tra osservatore e osservato. Le indicazioni dell'autore sulle modalità della ripresa sono molto ricche e dettagliate, in particolare si sofferma sul rapporto tra macchina da presa e soggetto e alla relazione spaziale e temporale che questo rapporto esprime, oltre che sulla dimensione intersoggettiva che si viene a istituire tra osservatore e osservato. Faeta afferma che il ritratto " è il luogo iconico dell'incontro" a cui si può giungere una volta stabilito un rapporto di fiducia e una pratica di tipo collaborativo.

3. La sequenza: Faeta ne consiglia l'utilizzo al fine di ricostruire la sequenzialità di un avvenimento e di analizzare e individuare le fasi in cui si articola. Isolare una serie di momenti dal flusso della realtà consente di chiarire la disgiunzione tra tempo reale e tempo rappresentato conservandone lo svolgimento nel tempo e nello spazio. La sequenza secondo Faeta "consente una riorganizzazione soggettiva, fortemente coesa, dell'esperienza percettiva". [pag. 120]. Interrompere l'andamento continuo della realtà  ma conservarne  la traccia nella serie dei fotogrammi, consente di analizzare e ricercare i rapporti che legano le immagini tra loro. anche in questo caso le indicazioni metodologiche dell'autore sono molto dettagliate a partire dalla necessità di conoscere i tempi e i vettori dell'azione che si intende fotografare.
il modulo della sequenza è presentato in tre varianti diverse:
- fissa: camera ferma di fotogramma in fotogramma
-libera: camera in movimento su avvenimenti dinamici e dipendente dalla loro logica
-mobile: camera in movimento omogeneo e progettato dal ricercatore


In conclusione Faeta si sofferma sull'uso della fotografia come forma di rappresentazione (trx e comunicazione) delle conoscenze acquisite attraverso l'esperienza etnografica.
La posizione della  fotografia nella comunicazione e trasmissione del sapere antropologico ha assunto, dice Faeta, varie forme che vanno da quella meramente disdascalica, ausiliare e illustrativa - dipendende in larga misura dalla scrittura a cui è delegato il compito di una riflessione sull'esperienza/conoscenza e senza una chiara consapevolezza delle logiche concettuali soggiacenti ( analitica, sintetica, comparativa, paradigmatica, etc) e degli stili di discorso ( apodittico, affabulatorio, assertivo, illustrativo, etc.) a modalità di utilizzo in cui svolge un ruolo attivo e di raccordo tra osservazione e scrittura.
Faeta ritiene che sia necessario avere un "piano di significazione della fotografia che sia insieme ancorato all'osservazione e alla scrittura, a ciò che si è visto e a ciò che si vuole, di ciò che si è visto, riferire al lettore." [pag.125]
Il capitolo si conclude con una serie di esperienze realizzate dall'autore che mi sembrano ricche di spunti, oltre che ancorate a un'attenzione metodologica che orienta verso la sperimentazione consapevole e critica.