26 gennaio 2014


Spettacoli di danza per turisti a Mombasa: Masai dance



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I masai sono da tempo al centro di una grande attenzione che spazia dalla pubblicistica turistica al cinema, alla letteratura, alla fotografia come testimoniano importanti riviste quali il National Geographic e Sports Illustrated (Kasfir 2002: 379). Questo interesse manifestato dai paesi occidentali ha influito sulla percezione che i Masai hanno di se stessi, rafforzando un senso di superiorità rispetto ai “moderni” e meno fotografati concittadini kenioti. Come l’antropologia ha rilevato in numerosi casi etnografici, vedere la propria cultura diventare oggetto dello sguardo dei turisti (e non solo) può contribuire allo sviluppo della consapevolezza del valore della propria cultura (Barberani 2006: 143). Nella breve intervista seguita allo spettacolo di un gruppo di Masai provenienti dal Masai Mara presso il Voyager Beach Hotel a Mombasa, uno dei danzatori ha affermato: “People try to modernize, to westernize but our culture is so strong that it is very hard to change us” (le persone cercano di modernizzarci, di occidentalizzarci, ma la nostra cultura è così forte che è molto difficile cambiarci).

Queste dichiarazioni sembrano evocare pubblicazioni di epoca coloniale come Through Masai Land (1885) e The Last of the Masai (1901) (vedi post n. 3); in esse i Masai erano descritti come primitivi di una bellezza aristocratica e selvaggia, la cui cultura, con le sue tradizioni, i suoi costumi e le sue credenze, non era stata contaminata dal contatto con la civilizzazione e con gli altri popoli Bantu. 

In concomitanza allo sviluppo del settore turistico, lo stato postcoloniale iniziò a mercificare un certo patrimonio culturale fortemente basato su paradigmi coloniali. Nei discorsi e nelle rappresentazioni promosse dall'industria turistica nazionale e internazionale, i Maasai − con i loro corpi magri e slanciati, e il loro portamento nobile e fiero − sono emersi quale gruppo etnico rappresentativo del patrimonio culturale della nazione e forse anche dell’Africa in generale. 

Gli studi antropologici sul turismo hanno mostrato come le rappresentazioni visuali e testuali mediano le relazioni asimmetriche fra i turisti e le comunità ospitanti. Se da un alto tali rappresentazioni riflettono le aspettative e il desiderio di autenticità culturale dei turisti, dall’altro, esse costituiscono degli emblemi attraverso cui i locali posso commercializzare la propria cultura (Meiu 2011). Nell’intervista uno dei danzatori ha descritto l’attività del danzare per i turisti come un modo per incontrare le loro aspettative e trarne un guadagno economico: “This is just to make tourists happy and also to make money”.

Durante lo spettacolo organizzato per il Voyager Beach Hotel, il gruppo di danzatori Masai ha presentato quattro diverse danze: la Wedding Dance, eseguita in occasione di matrimoni, la Victory Dance, che celebra l’uccisione di un leone (ora non più praticata a causa del divieto di caccia di animali selvatici), la Welcoming Dance, eseguita per dare il benvenuto a persone in visita, e infine la Jumping Competition dove i giovani di un villaggio gareggiano di fronte a un pubblico composto da ragazze, per stabilire chi salta più in alto e conquistare così il bacio di una delle giovani. Come sottolineato dai danzatori, queste danze eseguite per i turisti sono uguali a quelle eseguite nei villaggi di provenienza, ad eccezione per la durata che qui, nel contesto turistico, è soggetta alle esigenze dello spettacolo. Certamente le danze per i turisti non hanno lo stesso significato di quelle rituali, non hanno cioè una funzione coesiva per i membri della comunità, ma rappresentano un’occasione per allenarsi e per trarre un vantaggio economico dalle possibilità offerte dall’industria turistica. Il fatto che le danze siano spesso connesse a una dimensione rituale, però, non significa che siano limitate ad essa: la Welcoming Dance ne è un esempio. Nel caso delle esibizioni per turisti, è l’aspetto del festeggiamento e dell’incontro a prevalere, sebbene con una differenza sostanziale: la spontaneità del gesto. Infatti, un conto è danzare per divertirsi, un conto è danzare per far divertire (Aime 2005: 122).

Qui è il turista a essere al centro dell’attenzione. Alla fine dello spettacolo i danzatori si avvicinano ai turisti intenti a sorseggiare il proprio drink o a scattare fotografie e li prendono per mano invitandoli a danzare con loro. I guerrieri Masai non fanno più paura, sorridono ai turisti e li accolgono facendoli sentire i benvenuti a dispetto di tutte le disparità. L'incontro fra turisti e locali rimane invischiato nei retaggi dei vecchi schemi coloniali per cui i secondi sono considerati tradizionalmente "accoglienti" e i primi necessariamente "re" (Barberani 2006: 48)

Si potrebbe riassumere affermando che le danze prese in considerazione rimangono invariate nella forma ma non nel movente.

Marco Aime fa una distinzione fra danze prodotte per autoconsumo e riprodotte per i turisti e rappresentazioni prodotte appositamente per i turisti: rientrano nel secondo caso le danze organizzate da tour operator negli alberghi che conservano un legame puramente formale con la tradizione locale. In questo secondo caso, spiega Aime, i locali non riescono “a mantenere il controllo della situazione e a gestirla, senza finire cooptati da agenti esterni che li esautorano dal ruolo di produttori di cultura per ridurli a semplici esecutori di cliché predeterminati” (Aime 2005: 132).

Nel caso del Voyager, è l’albergo e, per estensione, il turismo internazionale, il vero produttore dello spettacolo, mentre i Masai sono regalati a un ruolo secondario: quello di Masai che mettono in scena i Masai per incontrare le aspettative dei turisti, desiderosi di vedere i celebri guerrieri così come li avevano conosciuti attraverso film, cartoline, libri e brochure turistiche. Ironicamente nello stesso albergo ho incontrato Masai vestiti all’occidentale che lavorano come guardie al cancello d’entrata e Masai che, durante gli spettacoli serali, vestono i panni del guerriero indossando tuniche rosse e sandali, adornandosi con collane e bracciali colorati e reggendo scudi e bastoni.

Come ha messo in evidenza Bruner (Bruner 2001) in uno studio sugli spettacoli turistici messi in scena dai Masai in diversi contesti, se essi si comportano in accordo con una generalizzata rappresentazione occidentale di loro stessi, allora è legittimo domandarsi “per quanto ancora i Masai continueranno a compartimentare se stessi e a separare la vita dalla performance?” (Bruner 2001: 897).





Riferimenti bibliografici:



Aime Marco, L' incontro mancato. Turisti, nativi, immagini, Torino, Bollati-Boringhieri, 2005

Barberani Silvia, Antropolgia e turismo, Milano, Guerini Scientifica, 2006


Bruner Edward. M., “The Masaai and the Lion King: Authenticity, Nationalism, and Globalization in African Tourism”, American Ethnologist, vol. 28, n. 4 (Nov. 2001), pp. 881-908


Kafir S. L., “Slam-Dunking and the Last Noble Savage”, Visual Anthropology, vol. 15, n. 3-4 (2002), pp. 369-385


Meiu G. P., “’Mombasa Morans’: Embodiment, Sexual Morality, and SumburuMen in Kenya”, Canadian Journal of African Studies, vol. 43, n. 1 (2011), pp. 105-128

Meiu G.P., “On Difference, Desire and the Aesthetics of the Unexpected: The White Maasai in Kenyan Tourism”, in Skinner J. e Theodossopoulos D., Great Expectations. Immagination and Anticipation on Tourism, New York – Oxford, Berghahn Books, 2011, pp. 96-113

Spettacoli di danza per turisti a Mombasa: An African Celebration

Lo spettacolo An African Celebration è introdotto da un narratore che racconta come si svolge la vita quotidiana in un non definito villaggio africano (“welcome to an African village”), in un tempo “lontano ma non così lontano”. Le coordinate spazio temporali sono soltanto abbozzate, ciò che sembra essere importante è la celebrazione dell’Africa: “We are here to celebrate our mother land, the nature and our traditions; we are here to celebrate Africa” (siamo qui per celebrare la nostra madre terra, la natura e le nostre tradizioni; siamo qui per celebrare l’Africa). In sottofondo si odono i rumori del vento, degli animali, dell’acqua che scorre; la presenza dell’uomo è segnalata soltanto dal suono dei tamburi in lontananza. Il narratore racconta cosa accade in una “tipica” giornata di un villaggio africano: le donne lavorano nei campi mentre gli uomini combattono per ampliare i confini del clan (il termine “clan” è utilizzato dal narratore stesso). Le donne sono descritte ponendo l’enfasi sugli aspetti del corpo legati alla voluttuosità e alla nudità (“voluptious, wearing nothing but skin”), mentre degli uomini si evidenziano le caratteristiche atletiche e combattive. Entrambi hanno decorazioni sul corpo e sul viso e indossano abiti fatti di frange e pelli.
I turisti sono invitati a chiamare lo spirito africano (“the African spirit”) perché entri in loro e possano così partecipare allo spettacolo e, più in generale, all’Africaness. Le prime danze, dopo il risveglio nel villaggio, vedono le donne intente nella raccolta nei campi e gli uomini armati di bastoni e scudi che combattono con guerrieri di ipotetici villaggi vicini. Le donne, con la loro grazia e bellezza (“any man will get confused”), riescono a riportare la pace al termine della giornata. Il narratore riprende quindi le fila della storia e spiega che nell’Africa moderna, molte cose sono cambiate, ma gli africani rimangono fedeli alla chiamata della loro terra: “The spirit remains alive throught out our lives, Africa as one through time (…) we live as one, work as one, fight for one other”. A questo punto ha inizio una danza festosa sulle note di canzoni attuali (Shakira, Waka Waka [This is Time for Africa]), che si conclude con la partecipazione dei turisti, inviati a salire sul palco e a danzare con i ballerini kenioti.

Sin dalle prime battute, la narrazione si articola intorno ad alcuni temi chiave del discorso coloniale: il nobile selvaggio che vive a contatto con la natura, la sensualità dei corpi delle donne, l’aggressività dei guerrieri. Questi elementi rinforzano la contrapposizione fra la razionalità occidentale e l’istintività dei nativi, fra civilizzazione e arcaicità, modernità e tradizione, secondo la logica evoluzionista che sulla base delle nozioni di sviluppo e progresso colloca le civiltà su una medesima linea evolutiva.
Nell’intenso rapporto fra uomo e natura, la dimensione della cultura emerge unicamente nei suoi aspetti rituali. Così l’enfasi del narratore sul suono dei tamburi (un altro elemento vivo nell’immaginario occidentale sull’Africa) e sugli aspetti celebrativi, come elementi di una tradizione rimasta invariata nel tempo. “Il viaggio turistico è sovente una sorta di volo nostalgico lontano dalle implicazioni della vita moderna” (Aime 2005: 127). Queste considerazioni si basano sul presupposto che alcune società siano rimaste congelate in un tempo lontano, in contrapposizione quindi alla modernità occidentale.








‘North Zululand’ ngoma dancers, Johannesburg area, ca 1930s


L’Africa è riconosciuta attraverso le sue tradizioni che la áncorano a un passato storico privo di profondità, in contrapposizione alla modernità occidentale. L’elisione del tempo e dello spazio rinforza il ripiegarsi del presente nel passato e di una geografia mitica in una reale. La dimensione spazio-temporale è sospesa: ciò che viene presentato è un villaggio africano e la vita che lì si svolge, senza che questi siano contestualizzati in un preciso momento storico o in una specifica area geografica. Soltanto i costumi di scena e la scenografia che ritrae in silhouette capanne con tetti di paglia - ormai entrate a pieno titolo nell’immaginario occidentale - potrebbero indurre a pensare che si tratti di un villaggio zulu, come dichiarato dalla narratrice nella breve intervista realizzata dietro le quinte.
Manca qualsiasi riferimento alla contemporaneità: gli eventi storici degli ultimi due secoli sembrano non avere avuto alcuna ripercussione su questo villaggio africano, che vive al riparo da cambiamenti e contaminazioni.
La lotta con i bastoni eseguita dai giovani che “combattono per ampliare i confini del clan”, è interpretata unicamente nei suoi aspetti marziali, secondo la prospettiva coloniale che associava questa pratica alla figura del guerriero coraggioso e all’aggressività maschile nel Sudafrica, minimizzando, in questo modo, gli aspetti legati alla difesa del gregge (gli uomini erano principalmente dediti all’allevamento) e alla sicurezza familiare.
Nell’intervista emerge che il coreografo dello spettacolo ha studiato e si è ispirato alle danze tradizionali zulu per realizzare la coreografia. Lo spettacolo propone una rivisitazione delle danze zulu in chiave contemporanea e “keniota”, secondo le parole della narratrice intervistata: “This is a Southafrican dance, from zulu group, but we try to modernize it, to make it kenyan”.
Il riferimento alle danze tradizionali zulu è interessante, al di là degli aspetti coreografici, per il parallelismo che crea fra kenioti e zulu. A partire dal 1890, immagini che ritraggono guerrieri masai e zulu dominavano le rappresentazioni popolari dei popoli africani nei libri, nelle cartoline, e nelle esposizioni coloniali (Hughes 2006: 268). Zulu e masai hanno finito per essere considerati i due popoli africani per eccellenza, rappresentativi dell’”essenza africana”.
Ciò che infatti sembra interessare, non è mostrare la vita e le tradizioni di un popolo in particolare, ma una generalizzazione funzionale alla descrizione dell’Africa in termini essenzialistici. Il fine è quello di assecondare il desiderio di esotico, di tradizione, di autenticità perduta, del turista che in questa rappresentazione può trovare le conferme dell’idea che sì è fatto dell’Africa. Nella maggior parte dei casi, gli europei desiderano vedere l’Africa e gli africani nello stesso modo in cui li hanno immaginati, basandosi sulla costruzione della rappresentazione dell’altro di matrice coloniale. La costruzione dell’altro promossa da molti operatori, dai media e dalla pubblicistica, del settore turistico, aspira, infatti, a marcare la diversità, perché soltanto se l’altro è percepito come lontano e diverso il turista potrà provare lo stupore e le emozioni di cui è in cerca (Aime 2005: 128). Il discorso turistico con i suoi vaghi riferimenti all’africano primitivo o africano tribale, è finalizzato a creare una distanza fra il turista e l’africano.
Infine mi sembra interessante la chiusura dello spettacolo con le parole: “The spirit remains alive throught out our lives, Africa as one trought time (…) we live as one, work as one, fight for one other”.
Il governo keniota ricorre spesso alla retorica dell’unità nazionale a dispetto delle tensioni che caratterizzano i rapporti fra i numerosi gruppi etnici che compongono il Kenya. Il messaggio, promulgato anche musei governativi come il Bomas a Nairobi, asserisce che l’eredità multi-etinica del Kenya appartiene a tutti i kenioti; questo messaggio è qui esteso a tutta l’Africa come se esistesse un unico popolo, un unico spirito, un unico modo per essere africani.
Anche la pubblicistica nazionale che promuove il Kenya come ideale meta turistica ricorre spesso a slogan come “Kenya all of Africa in one country”. Come è noto l’Africa è un continente attraversato da conflitti, molti dei quali portano le vestigia del passato coloniale. Il Kenya stesso affronta tensioni ancora vive fra i numerosi gruppi etnici che popolano il paese. Ma l’immagine offerta ai turisti è quella di una realtà idilliaca che rimane invariata nel tempo a dispetto degli inevitabili cambiamenti che ne accompagnano la storia. Nello spettacolo, gli stereotipi legati alla rappresentazione dell’altro come violento, istintivo e aggressivo, sono sì esplorati, ma allo stesso tempo contenuti da un messaggio rassicurante di pace e fraternità. Tale messaggio è funzionale alla promozione del Kenya come paradiso delle vacanze dove i turisti sono accolti a braccia parte e possono sentirsi al sicuro, come a casa propria.


Fonti:
Marco Aime, L’incontro mancato, Torino, Bollati-Boringhieri, 2005

Edward. M. Bruner, “The Masaai and the Lion King: Authenticity, Nationalism, and Globalization
in African Tourism”, American Ethnologist, vol. 28, n. 4 (Nov. 2001), pp. 881-908









17 gennaio 2014

L’occhio del novecento: cinema, esperienza, modernità

di Francesco Casetti

L’occhio del novecento è un testo che pone al centro della sua analisi una riflessione teorica sul rapporto tra cinema e modernità novecentesca, lo fa attraverso un’approfondita analisi di testi sulla storia e teoria del cinema e mediante il commento di numerose sequenze tratte da film. Lo scopo della presente riflessione non è un semplice riassunto del testo ma una lettura da un punto di vista antropologicosui mezzi audiovisivi di acquisizione e di trasmissione delle conoscenze antropologiche.

Introduzione
Il testo inizia affermando come il novecento sarà sicuramente ricordato come il secolo del cinema, perché nessuna opera d’arte, invenzione scientifica o tendenza economica si avvicina per vastità di azione, universalità di consenso e forza al mezzo cinematografico.
Centrale nel contesto è l’occhio, che smette di essere considerato come un organo di senso in sé, per accorgersene basta leggere il sottotitolo con il suo riferimento all’esperienza, che suggerisce un orizzonte di senso a cui riportare l’atto del vedere.
Il testo si pone alcuni interrogativi che vengono esaminati capitolo per capitolo: che tipo di sguardo ha saputo costruire il cinema e dove risiede la sua efficacia?
Per costruire il suo sguardo il cinema ha utilizzato alcuni diversivi, analizzati accuratamente nel testo e accostati ai concetti di spostamento e condensazione resi celebri da Freud. Questo sguardo è stato elaborato lavorando sulle spinte presenti nella modernità del secolo passato, per questo Casetti ha chiamato lo sguardo del cinema “rivelatore”: mette a punto un certo modo di osservare le cose e offre una chiave di lettura dell’esperienza moderna.
Il visivo è una delle dimensioni fondamentali nelle quali le culture trovano espressione: ogni cultura è infatti visibile in una molteplicità di segni. Come afferma Geertz, sono il linguaggio e il pensiero che permettono di formulare simboli, gesti, disegni, suoni, parole, con i quali elaboriamo e assegniamo un significato all’esperienza del vivere.
Il paesaggio viene organizzato in modo da trasmettere determinati temi, la natura stessa viene sistematicamente trasformata secondo forme e modelli che offrono una rappresentazione visiva della cultura che li ha prodotti.
Il cinema in questo senso può offrire una duplice lettura antropologica: da una parte tecniche che possono essere utilizzate nelle varie fasi della ricerca antropologica, dalla racconta alla presentazione dei dati, alla loro divulgazione nella didattica o presso un pubblico più ampio; dall’altra parte uno strumento per analizzare la nostra epoca attraverso lo sguardo che la cinepresa getta sul mondo, è in quest’ottica che si può anche leggere il testo di Casetti, come spunto di riflessione su noi stessi.

Capitolo uno: lo sguardo di un’epoca
Il cinema ripristina la visibilità dell’uomo, restituisce la realtà allo sguardo, insegna ad osservare il mondo in modo nuovo, non funziona da semplice specchio. In ogni fase della sua storia l’uomo ha avuto un modo particolare di cogliere il reale, modificando la propria percezione. La fase presente è dominata dall’esigenza di rendere le cose più umanamente vicine, anche se si presentano con facce diverse. Ovviamente il cinema a volte opera anche da filtro, fa velo alla realtà: la tecnologia introduce disattenzione complicando il rapporto tra osservatore e osservato.
Il cinema possiede molti aspetti che colpiscono in modo diretto, come ad esempio la sua capacità di intrattenere grazie ai suoi racconti espressi tramite un linguaggio che si può definire universale.
Il cinema ricopre il ruolo di medium. Il medium è un mezzo di trasmissione di immagini, parole, suoni e sensazioni, il suo obiettivo principale è la diffusione delle informazioni e per poterlo fare deve sapere anche raccogliere, rielaborare e conservare. Diffondendo l’informazione, un medium dà anche l’opportunità a chi la riceve di rielaborarla. Il tratto centrale è il suo impegno a costruire rappresentazioni largamente fruibili mediante tecnologie efficienti. L’azione di un medium investe direttamente la sfera dei processi simbolici e sociali, tocca gli snodi più delicati di una comunità umana.
Il lavoro di “messa in forma” sociale del cinema è legato alla sua disponibilità a intercettare indicazioni, a ripensarle e fissarle in vesti nuove, fino a farle diventare delle proposte autorevoli e condivise.
In sintesi in un epoca in cui si guarda più ai media che all’arte, nella quale vengono creati un’infinità di miti e di riti, il cinema mette in forma gli spunti che circolano nello spazio sociale. Il cinema in quanto dispositivo della “messa in forma” offre modelli di lettura pronti a diventare a loro volta canonici. Infine in quanto dispositivo di negoziazione cerca di ricomporre ciò che incontra.
Si possono citare come esempio antropologico i pionieristici studi di Margaret Mead e Gregory Bateson, sul tema dell’imponderabilità, dai quali prende avvio una riflessione relativa alla difficoltà incontrata dagli scienziati sociali nell’indagare quegli aspetti della vita che, invece, gli artisti colgono in maniera vivida, questo aspetto ha spinto i due autori a sperimentare il metodo fotografico per cogliere l’ethos balinese.

Capitolo due: inquadrare il mondo
Il cinema si impone per la sua capacità visiva, in quanto capace di cogliere la realtà in cui siamo immersi, guardando la realtà sullo schermo, inevitabilmente portiamo allo scoperto noi stessi, vediamo solo quello che la prospettiva adottata ci consente di cogliere. Il cinema riscatta lo sguardo, ma nello stesso tempo lo ancora ad un atto percettivo. La sua limitatezza è legata proprio alla presenza di un punto di vista che fa da contrasto ad una assolutezza a cui non si vuole rinunciare. Sullo schermo il mondo è sempre colto da una certa prospettiva, la realtà appare in tutta la sua ricchezza e densità esaltando da un lato la propria capacità di visione e dall’altro denunciandone i limiti.
Anche nell’antropologia visiva si è assistito alle più svariate forme di sperimentazione riguardo all’uso di particolari tecniche narrative e stilistiche, con una notevole diversificazione dei temi affrontati e dei linguaggi visivi utilizzati per rappresentarli, seguendo l’esperienza contenuta in questo testo e nei testi citati dall’autore, sicuramente si possono trovare diversi spunti di riflessione sull’utilizzo di tecniche e per la messa in pratica di strategie già sperimentate nel linguaggio cinematografico.

Capitolo tre: doppia visione
L’idea di considerare l’inquadratura come un punto di vista sul mondo porta a sottolineare la soggettività rispetto ad una visione oggettiva: le cose hanno una loro esistenza al di fuori del cinema. Di conseguenza il cinema compie un lavoro all’interno dell’immagine, sul piano della figurazione e del racconto, per dar loro corpo all’ oggettività o alla soggettività. Come esempio si può portare la tipica produzione hollywoodiana degli anni Quaranta, dove i fatti vengono presentati attraverso la visione di un personaggio, con una narrazione in soggettiva sicuramente influenzata dal successo e dalla diffusione della psicoanalisi.
La contrapposizione tra azione e riflessione è qualcosa che il cinema esporla tramite diversi mezzi, ci aiuta a distinguere gli eventi dalla coscienza che se ne può avere. Questa restituzione della realtà non è neutra: da un lato la macchina da presa filtra e trasforma, dall’altra lo schermo evidenzia ciò che è solo pensabile.
A metà degli anni Cinquanta Edgar Morin esplora come oggettività e soggettività si mescolino nell’esperienza filmica. Sullo schermo il mondo si presenta come mera riproduzione, ma lo spettatore si identifica e si proietta in quanto immerso in un mix di reale e irreale. Per Morin nella nostra epoca si sta assistendo non solo al ritorno dell’“osservatore” nelle scienze fisiche, ma anche al ritorno del “concettualizzatore” e quindi dell’“osservatore-concettualizzatore”, questo pone indirettamente il problema del soggetto, in particolare per le scienze umaniste, non è possibile superare l’aporia che vede solo l’esistenza di interazioni tra individui che nel pensiero di Morin fanno emergere la società, questo dualismo tra soggetto e oggetto è ben presente nell’analisi di Casetti.

Capitolo quattro: l’occhio di vetro
Il mondo è popolato da dispositivi meccanici che assoggettano psicologicamente chi dovrebbero servire, il cinema in questo senso compie un inganno: grazie alla produzione fotografica, fa sembrare vere le proprie rappresentazioni. Il cinema sottrae la vita, la trasforma, la svuota, ma nel contempo ci aiuta ad osservare le cose nella loro realtà attraverso nuove prospettive. La riflessione sulle potenzialità della macchina da presa riporta in pieno al problema di chi sia il soggetto che muove lo sguardo filmico. Si può dire che quanto vediamo sullo schermo è la percezione di qualcuno, se chi percepisce è un occhio meccanico? E in che rapporti è questo occhio meccanico con l’occhio dell’uomo?
La macchina da presa è capace di restituirci il mondo, ma non perché ne fissa le apparenze, bensì perché ne coglie il meccanismo, associando il suo occhio alla presenza di un operatore.
Il cinema si propone come un utensile che prolunga l’azione dell’uomo ma cerca anche di diventare un dispositivo autonomo, che lo esonera da ogni presenza presentandosi così come punto di convergenza e compromesso. L’occhio meccanico è anche il punto in cui le diverse misure si sovrappongono e riuniscono.

Capitolo cinque: sensazioni forti
Nel testo Kracauer invita a considerare i cinema non solo come edifici in cui si proiettano film, ma veri e propri luoghi di culto, la loro caratteristica è l’accurata magnificenza della loro esteriorità. Gli spazi e l’arredo servono a colpire i sensi di chi vi entra. Per Kracauer questo culto dell’esteriorità rispecchia fedelmente una società frammentata, confusa ed eccitata, quale è quella che sta emergendo attorno alla centralità delle masse.
L’elemento più tipico delle città moderne è la folla, composta da diversi tipi di individui, che possiede qualche cosa di pittoresco, che incuriosisce e che talvolta fa paura, il cinema si sintonizza con il suo tempo anche attraverso questo aspetto: sembra soprattutto celebrare l’ebrezza della velocità. Ma se il cinema assume in sé le misure della velocità, è anche vero che esso sa evitarne i pericoli, i suoi procedimenti consentono allo spettatore di non smarrire mai l’orientamento. Gli stimoli inviati sono strutturati, finalizzati e tradotti in un atteggiamento preciso dove un insieme di shock percettivi diventano un complesso di emozioni.
Da questo punto di vista è facile fare un paragone con le etnografie che ci avvicinano all’altro senza doverci “sporcare le mani” stando comodamente seduti nei nostri salotti leggendo o guardando i resoconti filtrati dall’occhio dell’antropologo.

Capitolo sei: il posto dell’osservatore
I film offrono rivelazioni: i personaggi prendono vita, gli oggetti hanno atteggiamenti, gli alberi gesticolano, la realtà letteralmente rinasce catturando il nostro sguardo. Lo spettatore partecipa al destino dell’osservato, si muove sul suo stesso terreno, nel medesimo campo di forze, ma intrecciandosi con l’oggetto del suo sguardo finisce con il perdere la sua posizione di vantaggio, fino a confondersi con quanto ha di fronte.
Sullo sfondo della modernità c’è l’avanzare di una nuova percezione dello spazio complessivo, grazie all’apparente annullamento di ogni distanza, le sale cinematografiche sono lo specchio perfetto del contesto sociale nel quale un individuo si muove e alla fine, quando le luci si riaccendono, lo spettatore interrompe il suo rapporto con lo spettacolo. Qualche cosa ovviamente gli rimane addosso: l’esperienza che lo ha portato fuori dal suo mondo per immetterlo in un altro, ma anche la consapevolezza di aver fatto parte di un corpo collettivo.

Capitolo sette: ossimori e disciplina
In tutto il testo sono presenti numerose descrizioni tratte da film più o meno recenti, questi esempi offrono un eccellente punto di osservazione su cosa il cinema può essere. Se è vero che opere teoriche danno forma al cinema è anche vero che il cinema a sua volta dà forma a istanze che si muovono attorno e grazie ad esso.
Il cinema è modellato, ma a sua volta modella, la sua capacità di costruire uno sguardo del tempo si gioca innanzi tutto in questo doppio incastro, si presenta come uno straordinario luogo in cui si opera una “messa in forma negoziata” delle istanze che circolano nello spazio sociale.

Conclusioni
Per Casetti lo sguardo del cinema è stato innanzitutto uno sguardo ossimorico che ha saputo raccogliere e far convivere alcune delle contraddizioni che contrassegnano la modernità novecentesca. Il primo punto di confronto vede in gioco il frammento e la totalità. L'immagine cinematografica delimitata da una cornice è sempre un prelievo parziale di una realtà più vasta. Essa si presenta dunque come un frammento che sembra voler sottolineare la limitatezza del nostro sguardo. Il cinema inoltre mette in gioco la dialettica fra essere umano e macchina: da una parte avvalendosi di un occhio meccanico che vede più e meglio di quello umano dall'altra facendo però anche in modo che quest'occhio assuma criteri di osservazione tipici dell'umano costruendo ad esempio fuochi di attenzione decisamente antropomorfici. Non si fatica a leggere in tutta l’opera un parallelo con lo sguardo antropologico, fin dai suoi primi sviluppi, basti pensare alla famosa citazione mailinowskiana: “afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita, di rendersi conto della sua visione, del suo mondo”. La metafora ottica qui utilizzata non è certo casuale: immagine letteraria, riproduzione fotografica o cinematografica che sia, imprime tutta la forza che è insita nello sguardo del cinema.
È questa capacità di negoziazione che ha permesso al cinema di raccogliere le istanze della modernità di rileggerle e mediarle; che gli ha conferito lo statuto di sguardo ossimorico trasformandolo nell' “occhio del Novecento”.

15 gennaio 2014

Spettacoli di danza per turisti a Mombasa: I masai come simbolo nazionale del Kenya




  
I colonialisti britannici, così come i mercanti e i viaggiatori che visitarono il Kenya, hanno per lungo tempo descritto i Samburu e i Masai come un popolo di pastori primitivi, esotici e riluttanti al cambiamento (Kasfir 2007). In seguito all’Indipendenza del Kenya nel 1963, queste immagini hanno continuato ad attrarre viaggiatori e turisti dall’Europa, ma hanno anche generato nuovi contesti in cui sia i Masai, sia i Samburu, potessero produrre capitale. I discorsi pubblici nazionali e le brochure turistiche, individuano le etnie Samburu e Masai attraverso l’immagine emblematica del giovane ed esotico guerriero (moran), che impugna la lancia e lo scudo, mezzo nudo, con i capelli colorati di ocra e adornato con bracciali e collane di perline colorate. Mutuata dalle rappresentazioni dei primi viaggiatori e ufficiali coloniali, l’immagine del guerriero masai divenne l’icona della tradizione e una delle attrattive principali del Kenya come destinazione turistica internazionale, accanto alla fauna selvatica e alle spiagge paradisiache.
Nel discorso coloniale britannico i pastori Masai costituivano un problema, sia a causa dei loro grandi greggi che mettevano a rischio la conservazione dei pascoli e dell’ambiente in generale, sia perché essi mostravano uno scarso interesse nei vantaggi offerti dalla colonizzazione (beni materiali, partecipazione nell’economia del denaro ecc.) preferendo rimanere fedeli a uno stile di vita spartano e rifiutandosi di diventare lavoratori salariati alle dipendenze degli europei. Nello stato post-coloniale, i pastori erano comunque visti come un problema: la necessità di terreni dove pascolare i greggi si scontra con il bisogno di creare parchi e riserve dove i turisti possano osservare la flora e la fauna del luogo. Lo stesso problema si manifesta anche con le crescenti popolazioni sedentarie del Kenya, come i kikuyu, che praticano l’agricoltura e che necessitano di terreni da coltivare. Ma i Masai e i Samburu oggi sono al centro dell’interesse dei turisti che non si limita alla bellezza del mare e alla ricchezza della fauna, ma che è diretto anche all’incontro con i popoli “tribali” (Kasfir 2010: 377).

Gli studi antropologici sul turismo hanno mostrato come le rappresentazioni visuali e testuali mediano le relazioni asimmetriche fra i turisti e le comunità ospitanti. Cartoline, magliette, coffee-table books, statuette intagliate nel legno che ritraggono guerrieri masai prodotte dai Kamba, ma anche film hollywoodiani come The Air Up There (1994) con Kevin Bacon e The Ghost and the Darkness (1996) con Michael Douglas e Val Kilmer, sono alcuni esempi di strumenti attraverso cui l’immagine del guerriero viene mercificata.
Gli elementi che descrivono i masai, enfatizzati in questi materiali, compaiono in parte nei resoconti di viaggiatori e missionari del XIX secolo che raggiunsero un vasto pubblico.
Il primo resoconto del guerriero masai fu opera del geografo Joseph Thomson, Through Masai Land (1885), che li descrisse elogiandone la fierezza, il portamento aristocratico ma anche bestiali, violenti e fornicatori. Contribuì, inoltre, enfatizzandone le differenze rispetto alle altre popolazioni africane e la loro fiera indipendenza, a creare uno stereotipo funzionale alla dominazione coloniale da sempre impegnata a mantenere e sfruttare le differenze etniche (Hughes 2006). Seguirono poi altre pubblicazioni e resoconti di viaggio che ebbero molta eco fra gli europei del XIX secolo. È il caso del resoconto del libro del missionario tedesco Krapf pubblicato in Germania nel 1858 e poi tradotto in inglese due anni dopo. Qui i masai sono descritti come guerrieri combattivi (sebbene molti fatti storici lo smentiscano), avidi di terra più di quanto ne avessero realmente bisogno e consumatori di cibi crudi (latte, sangue e miele). Queste descrizioni furono utilizzate dall’amministrazione coloniale per legittimare le successive misure repressive dirette contro i masai (i masai non erano in grado di sfruttare al meglio la terra per cui era legittimo sottrargliela) e per rimuoverli dalla categoria di “uomini civilizzati” relegandoli quella di “uomini naturali” (i masai consumano cibi crudi) (Hughes 2006).
Dal 1890 in poi fotografie di boscimani australiani e di guerrieri masai e zulu dominarono le rappresentazioni popolari delle popolazioni africane nei libri, nelle cartoline, e nelle esposizioni coloniali. I guerrieri finirono per rappresentare i rispettivi gruppi etnici, rinforzando l’idea nell’immaginario occidentale, che queste “tribù” fossero prevalentemente marziali (Hughes 2006: 268).
Nel 1901 il libro The Last of the Masai, di Sidney e Hildegarde Hinde, aggiunse un ulteriore elemento che da quel momento caratterizzò l’immagine dei guerrieri masai: essi vennero dipinti come un esempio di razza pura che stava scomparendo. Il titolo del libro stava ad indicare il fatto che la cultura masai, con le sue tradizioni, i suoi costumi e le sue credenze non erano state contaminate dal contatto con la civilizzazione e gli altri popoli Bantu. Con queste affermazioni, la nostalgia divenne un elemento costante della loro rappresentazione (Hughes 2006).
Oggi, nella promozione turistica del Kenya, alcune di queste caratteristiche sono utilizzate per sponsorizzare i masai come simbolo nazionale. Essi sono la faccia della “vecchia Africa”, descritti come primitivi, la cui bellezza aristocratica e selvaggia, costituisce un’attrattiva per i turisti occidentali desiderosi di incontrare il guerriero “tribale” (Hughes 2006). Ma se i resoconti storici e la promozione turistica sono al di fuori del controllo dei masai, il loro coinvolgimento nell’industria turistica attraverso le danze organizzate negli alberghi della costa, nei lodge dei parchi e nelle riserve nazionali, nonché l’apertura ai turisti, dietro pagamento di una tassa di ammissione, dei loro villaggi, comporta una partecipazione volontaria. I masai hanno compreso che l’interesse dei turisti per i loro costumi e le loro tradizioni, può tradursi in un vantaggio economico che può quindi essere sfruttato offrendo ai turisti una rappresentazione di se stessi che incontri le loro aspettative.


Fonti:

Hughes L., “’Beautiful Beasts’ and Brave Warriors: The Longevity of Maasai Stereotype”, in Romanucci-Ross L., De Vos G. A. e Tsuda T. (a cura di), Ethnic Identity: Problems and Prospects for the Twenty-First Century, Lanham, MD, AltaMira Press, 2006, pp. 264-294

Kasfir S. L., “Slam-Drunkikg and te Last Noble Savage”, Visual Anthropology, vol. 15, n. 3-4 (2010), pp. 369-385

Meiu G.P., “On Difference, Desire and the Aesthetics of the Unexpected: The White Masai in Kenyan Tourism”, in Skinner J. e Theodossopoulos D., Great Expectations. Immagination and Anticipation on Tourism, New York – Oxford, Berghahn Books, 2011, pp. 96-113

Spettacoli di danza per turisti a Mombasa: “Villaggi culturali” in Sudafrica come display dell’”autentica” vita “tribale”


In Sudafrica, durante l’Apartheid, la maggior parte delle culture native erano tenute nascoste al pubblico. In quel periodo storico furono delineate dieci aree geografiche, create con il pretesto di preservare la cultura e le tradizioni dei dieci gruppi indigeni individuati sulla base di una supposta identità politica, culturale e linguistica. Ciascuna area era stata infatti deputata a ospitare uno dei dieci gruppi etnici classificati dal governo e sarebbe dovuta diventare, nel tempo, uno stato-nazione indipendente.
Queste homeland erano di difficile accesso a causa di una serie di restrizioni che vietavano la libera circolazione sia degli autoctoni sia degli esterni. Per rafforzare l’ideologia alla base della segregazione razziale, il governo e gli organi di stampa presentarono i gruppi indigeni sudafricani in termini essenzialistici. I musei, che esibivano manufatti disposti in “setting tribali”, fissi e immobili, sotto la stretta supervisione del governo, costituirono per un lungo periodo l’unico accesso a queste popolazioni da parte di esterni. Le modalità espositive di questi musei erano strutturate in modo da porre l’enfasi sulle profonde differenze culturali che separavano i bianchi civilizzati dalle popolazioni indigene. Furono talvolta ricreate anche alcune danze tribali e scene di vita nei villaggi accessibili ai turisti, ma anche tali rappresentazioni erano funzionali al supporto dell’ideologia del governo: proponevano una rappresentazione essenzializzata delle culture indigene.
A metà degli anni Settanta, il governo, per promuovere il turismo interno, aprì la strada alla costruzione di casinò all’interno di alcune homelands. Sebbene questi casinò fossero per la maggior parte costruiti vicino alle maggiori vie di comunicazione, offrivano la possibilità di dare un’occhiata alla vita nelle di questi territori.
Quando l’Apartheid fu abolito, l’accesso alle aree rurali divenne libero; l’apertura democratica del nuovo governo favorì lo sviluppo del turismo internazionale che da quel momento crebbe rapidamente. Il paese poteva offrire splendide bellezze naturali, una ricca fauna ed “esotici” gruppi tribali. Fra il 1988 e le elezioni democratiche del 1994, si registrò un cambiamento nell’interesse verso le popolazioni indigene e la loro rappresentazione; lo sviluppo di villaggi culturali può essere considerata una testimonianza di tale cambiamento.
Negli anni immediatamente precedenti il 1994, i sudafricani mostrano progressivamente sempre più interesse nella storia. Dopo secoli di storiografia distorta, i sudafricani cominciarono a farsi domande su cosa fosse stato tenuto nascosto loro. Lo stesso interesse era rivolto alla cultura: c’era curiosità intorno a quelle realtà che l’Apartheid aveva distorto o celato. Fu in questo clima che nacque il sito a tema culturale di Shakaland. Nel 1986 la South African Broadcasting Corporation trasmise una miniserie dal titolo Shaka Zullu che celebrava la vita e le vicende del celebre re zulu, che divenne popolare sia in Sudafrica sia oltreoceano. I set realizzati per la serie comprendevano la ricostruzione di un piccolo e di un grande villaggio zulu vicino a Eswhowe nella provincia del Kwazulu-Natal. Sebbene il grande villaggio venne distrutto durante le riprese delle ultime scene, quello piccolo, che rappresentava il villaggio del padre di Shaka, restò in piedi e divenne poi parte di Shakaland. Per la costruzione del sito fu impiegato dal gruppo Protea Hotel un antropologo: Barry Leitch. L’idea di Leitch era quella di offrire ai visitatori un’esperienza culturale degli zulu unica, senza fare mistero del fatto che Shakaland era stato in precedenza un set cinematografico. Qui i visitatori potevano fermarsi per un giorno soltanto oppure alloggiare in una delle abitazioni costruite secondo la struttura ad alveare degli zulu. Alcuni “consulenti” conoscitori dell’etnia zulu, guidavano i visitatori durante l’esperienza introducendoli al capo villaggio, un uomo anziano che parlava soltanto la lingua vernacolare. Il capo villaggio spiegava nella sua lingua alcuni aspetti della homestead e rispondeva ad eventuali domande, sempre con la mediazione linguistica dei consulenti. La sera venivano organizzati spettacoli di danze tradizionali e una sessione con un sangoma (un medium spiritico) che i consulenti culturali chiamavano healer (l’intenzione era quella di evitare l’associazione esotica con la stregoneria). Il giorno dopo i visitatori venivano portati in un “vero” villaggio zulu. Nelle intenzioni di Leitch questa visita era necessaria per decostruire l’eventuale mistificazione degli zulu nelle performance organizzate nel villaggio “artificiale”, esponendo i visitatori alla realtà della povertà e ai cambiamenti che erano intercorsi negli ultimi decenni negli stili di vita degli zulu. In questo modo i visitatori avrebbero potuto fare esperienza di ciò che era “reale” in termini di contemporaneità.
Dopo gli anni d’oro di Shakaland il sito perse la sua missione originaria per diventare una mercificazione della differenza culturale. Sulla presentazione del sito web si legge: “Welcome to Shakaland Experience the essence of Africa: pulsating tribal rythms, assagai- wielding warriors and the mysterious rituals of the Sangoma, interpreting messages from the spirits, SHAKALAND, one of South Africa’s most unique tourist attractions, tucked away in an indiginous setting of aloes and mimosa trees, overlooking the Umhlatuzana Lake. Originally recreated for the films Shaka Zulu and John Ross, Shakaland is an unusual cross-cultural centre and living museum, where Zulu folk peruse the customs and traditions of their forebears”.
Dopo Shakaland, numerosi villaggi culturali furono costruiti sfruttando il crescente interesse del turismo internazionale per le realtà “tribali” del Sudafrica. Gli zulu continuarono a esercitare una forte attrattiva come dimostra la creazione di un’altra grande attrazione: DumZulu Traditional Village Lodge che trae ispirazione dal “primo” Shakalnd. Qui risiedono più di cinquanta zulu compreso un sangoma. DumaZulu si avvale anche del visto del re zulu Goodwill Zwelithini, la cui approvazione è garanzia di oggettività e autenticità.
In aggiunta, i materiali promozionali del sito, recitano: “World renowned and respected anthropologist, Graham Stewart, known as the ‘White Zulu’ for his association with the Zulu culture and heritage since 1967 lives at DumaZulu and manages the entire DumaZulu complex” aggiungendo così l’autenticità scientifica garantita dall’antropologo all’esperienza. Infine, anche l’elemento selvatico è incluso nel pacchetto attraverso la presenza nel villaggio di numerose specie di serpenti locali e di un parco di coccodrilli che ospita uno dei più grandi coccodrilli del paese.
Se a Shakaland l’esperienza del visitatore era orchestrata in modo da ridurre al minimo il romanticismo di sapore coloniale, qui l’elemento esotico è posto in primo piano attraverso il ricorso a un linguaggio che esalta la dimensione spettacolare, la bellezza struggente, la presenza di uno stregone e quella dei tamburi.
Durante l’Apartheid, i villaggi rurali abitati dalla popolazione indigena erano tenuti piuttosto nascosti, ma oggigiorno sono esposti a una crescente mercificazione che esalta l’immaginario di un’Africa selvaggia e pericolosa. Inoltre, se in precedenza l’accento era posto sulla diversità che doveva essere preservata attraverso l’isolamento delle culture, ora l’enfasi cade sull’elemento esotico e tradizionale. Agli occhi dei turisti spesso ciò che è tradizionale, dove per tradizionale si intende ciò che è sempre stato così senza mai subire variazioni, corrisponde a ciò che è autentico. I turisti sono alla ricerca dell’autenticità e i “villaggi culturali” sono eletti a display dell’”autentica” vita tribale, ovvero che si è mantenuta inalterata nel tempo. Se l’ideologia alla base dell’Apartheid, così come gran parte dell’antropologia del secolo scorso, si è fondata su un paradigma classificatorio che intendeva mettere in luce le differenze piuttosto che gli elementi comuni, oggi viene comunque promossa dal governo e dall’industria turistica un’immagine legata all’esotismo di luoghi remoti, abitati da popoli diversi che vivono ancora come un tempo.

 

Fonti:
Marco Aime, L’incontro mancato, Torino, Bollati-Boringhieri, 2007
Gerhard Schütte,"Tourist and Tribes in the 'New' South Africa", Ethnostory, Vol. 50, n. 3 (2003), pp. 473-487

Alcuni cenni storici: la longevità dello stereotipo del temibile guerriero zulu e la lotta con i bastoni


Ciao a tutti,

pubblico qui a seguire tre post che cercano di analizzare gli stereotipi che, dall'epoca coloniale ad oggi, condizionano l'incontro fra popolazioni locali del Kenya e del Sudafrica, e occidentali (colonizzatori ed espolaratori in passato, viaggiatori e turisti oggi). Ho cercato di fornire un inquadramento alle danze turistiche cui ho assistito in un albergo di Mombasa, per poter rispondere al primo interrogativo che mi ero posta: quanto la rappresentazione pensata per intrattenere i turisti si discosta o si avvicina all’immaginario che gli stranieri hanno sviluppato sull’Africa a partire dall’epoca coloniale fino ad oggi, come ben mettono in evidenzia gli aspetti enfatizzati dai tour operator? 

ecco il primo post:

Alcuni cenni storici: la longevità dello stereotipo del temibile guerriero zulu e la lotta con i bastoni


Gli zulu sono passati alla storia come coloro i quali sconfissero l’esercito britannico nella battaglia di Isandlwana nel 1879, armati solo di scudi e lance. Questo evento ebbe un impatto intenso e duraturo sia fra gli inglesi, che promossero l’immagine del guerriero zulu fiero e spietato, sia fra i sudafricani nativi che rivendicarono con orgoglio la temerarietà della resistenza zulu contro il dominio dei banchi. Lo stesso Mandela, nella sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà, fa menzione del coraggio degli zulu nella battaglia di Isandlwana, eleggendo questo episodio storico a fonte di ispirazione per la fondazione dell’ala militare dell’African National Congress (ANC): Umkhonto we Sizwe, (“Lancia della nazione”).
Dopo i massacri delle truppe della regina vittoria nel 1879 si diffuse la figura stereotipata del guerriero zulu in tenuta da combattimento che brandisce la lancia; questo stereotipo finì per rappresentare quello che gli europei temevano maggiormente del continente nero: un incontro con il natural born killer.
In seguito alla sconfitta del regno zulu, un’altra immagine rappresentativa degli zulu cominciò a circolare: privato della sua lancia, il guerriero zulu fu ritratto come un uomo giovane a torso nudo che impugna un bastone (unico rimando marziale), ovvero l’unica arma che l’autorità britannica aveva permesso.
Negli anni Novanta i sommovimenti che precedettero la fine delll’Apartheid nel 1994, indussero molti giornalisti sudafricani e internazionali a rimettere in campo lo stereotipo del guerriero zulu aggressivo e fiero. I giornalisti dipinsero le lotte intestine degli anni Novanta come un orribile ritorno al passato e descrissero la violenza black on black come un qualcosa di atavico e innato.

Presso le comunità zulu, i giovani costruivano la propria mascolinità attraverso una serie di pratiche fra cui la lotta con i bastoni. Il bastone costituiva molto più che un’arma per il giovane che lo riceveva in dono: esso rappresentava un obbligo nei confronti della sua discendenza che egli doveva proteggere difendendo le risorse che l’avrebbero garantita, come ad esempio il bestiame. Nelle comunità zulu, gli uomini era principalmente dediti all’allevamento di bestiame mentre le donne si occupavano dell’agricoltura.
La retorica della mascolinità era dunque funzionale al rispetto comunitario e all’autorità patriarcale e il bastone costituiva il simbolo del rispetto generazionale e della sicurezza della fattoria; solo in alcuni casi circoscritti esso alludeva a significati marziali. Nel caso di guerre, come durante il regno di Shaka, i soldati erano incoraggiati ad eseguire delle danze rituali in preparazione della battaglia nelle quali venivano riprese le gestualità tipiche della lotta con i bastoni.
L’amministrazione coloniale associò presto questa pratica alla figura del guerriero coraggioso e dell’aggressività maschile nel Sudafrica; tale identificazione ebbe ripercussioni anche sul passato recente e ne ha anche sul presente: la mascolinità zulu, connotata come violenta e bellicosa, è considerata una delle cause dell’alto tasso di violenza presente in Sudafrica.
Quando nel 1879 le forze britanniche invasero la terra zulu deponendo il re ed estendendo un controllo più ampio sul nuovo territorio, costrinsero i nativi a vivere nelle riserve e promulgarono nuove leggi che limitarono le possibilità dei giovani di fare uso delle armi a scopo ricreativo. Nell’anno che precedette l’invasione, l’alto commissario britannico per il Sudafrica aveva coniato la definizione men-slaying war-machine per appellare i guerrieri. In questo modo credeva di aver riassunto in un’espressione efficace la natura della mascolinità zulu nutrita sin dalla giovinezza con la lotta dei bastoni.
Nel 1900 il porto di bastoni era monitorato severamente: un solo bastone era ammesso in pubblico e le forze di polizia sorvegliavano le occasioni celebrative in cui era consuetudine organizzare le lotte con i bastoni (celebrazioni pubbliche come matrimoni e fidanzamenti erano un’occasione ideale per dimostrare pubblicamente la propria virilità attraverso il combattimento). Tuttavia gli inglesi non bandirono mai la lotta con i bastoni forse riconoscendo che l’arte marziale era un importante mezzo attraverso il quale i ragazzi sviluppavano le regole di un onorevole ritegno. La lotta con i bastoni, infatti, seguiva regole che privilegiavano la retorica, l’onore e la difesa. I valorosi lottatori dovevano innanzitutto proteggersi, arretrare nel caso in cui l’oppositore cadesse a terra indifeso.
La retorica dell’onorevole ritegno animò l’ANC nel 1912; in particolar modo la lotta con i bastoni godeva di una grande considerazione fra i sostenitori della tradizione. Dall’inizio fino alla metà del XX secolo la mancanza di terra e le condizioni di povertà nelle riserve, spinse numerosi zulu a trovare impiego come servi e scaricatori in Durban e a svolgere mansioni umili nelle fabbriche e miniere di Johannesburg. Nonostante molti giovani lasciarono le fattorie, essi non abbandonarono i loro ideali di mascolinità e portarono la lotta con i bastoni nelle città adattando i movimenti alle danze rituali. Negli anni Venti e Trenta del XX secolo queste danze rituali diventarono una forma di intrattenimento popolare per gli africani di lingua zulu a Durban e Johannesburg
Con la fine del XIX secolo molti rituali sono caduti in disuso, non però la lotta con i bastoni. Oggigiorno le lotte con i bastoni sono limitate ai periodi di vacanza degli zulu emigrati nelle città: a Pasqua e Natale essi lasciano Durban e Johannesburg per fare ritorno alle fattorie nei villaggi di KwaZulu-Natal. La lotta con i bastoni continua ad essere praticata ma ciò che sembra essere cambiato è lo scopo per cui la si pratica. Lo sport rimane un’espressione della difesa del corpo e della coesione comunitaria, ma cambiamenti importanti sembrano delinearsi. Essa sembra spostarsi dall’ambito della comunità a quello della lotta come bene di consumo. La lotta con i bastoni potrebbe non preparare più i giovani al ruolo di capi famiglia in una società orientata al lavoro salariale. Il turismo oggi è l’industria che registra la crescita più alta; accanto ai parchi naturali, una delle maggiori attrattive è costituita dai resort “tribali” nei quali i turisti possono avere un assaggio della “vera” Africa. In questo contesto la lotta con i bastoni può rappresentare per i giovani zulu una fonte di guadagno.

Fonte: Benedict Carton & Robert Morrell, "Zulu Masculinities, Warrior Culture and
Stick Fighting: Reassessing Male Violence and Virtue in South Africa", Journal of Southern African Studies, 38:1 (2012), pp. 31-53