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30 giugno 2013

Potenzialità e risorse dei mezzi audio-visivi in ''Film as etnography'' di Peter Ian Crawford e David Turton.

Parte quarta

Le video ricerche antropologiche possono arrivare al fruitore anche attraverso il medium della televisione, nonostante essa abbia il dichiarato intento di divertire ed intrattenere il pubblico, nell'ottica di spettacoli mandati in onda una sola volta, in contrasto col film antropologico-scientifico inteso per essere visto e rivisto anche un fotogramma per volta. Nonostante questo aspetto in contrasto ad una diffusione dei film etnografici in televisione, vi è la grande possibilità di raggiungere un pubblico sempre più ampio ma eterogeneo di spettatori. Quello che lo studente di antropologia potrebbe ''leggere'' in un film antropologico studiato per la televisione, sarà differente dalla visione che di esso avrà il pubblico (Singer 1992).
Una problematica a riguardo dell'uso del film etnografico nei palinsesti televisivi è legata al fatto che rispetto ad altri programmi, per esempio i talk show, essi siano sicuramente molto più costosi da sviluppare. Essi sono per avvantaggiati da un servizio pubblico, che nel presente periodo storico, incoraggia i programmi educativi che contrastino l'impellente populismo ideologico-politico, oltre a quelli che pongano l'attenzione sulle attuali criticità ambientali; così che reportage come quello sui Kayapo e le problematiche della distruzione della foresta pluviale brasiliana, sui Baka in Cameroon o sui Penan in Borneo abbiano riscosso successo, non tanto per un piacere dell'esotico nel pubblico, quanto per appunto una sana e consapevole conoscenza degli affari globali (Singer 1992).
Da un lato quindi la televisione ha reso disponibili registrazioni video delle culture del mondo che stanno scomparendo, all'altro estremo ha generato attenzioni e risposte alle questioni ecologiche ed etniche attuali (Wright 1992).

26 giugno 2013

Potenzialità e risorse dei mezzi audio-visivi in ''Film as etnography'' di Peter Ian Crawford e David Turton.

Parte terza

E' percepibile un'aura di ottimismo e di fervore creativo nei confronti dell'antropologia visiva in contrapposizione ad una crisi della rappresentazione nell'antropologia che interessa la disciplina almeno dall'ultima decade, come testimonia per esempio la nascita del ''Granada Centre for Visual Anthropology'', in dissenso appunto con la relativa sterilità dell'antropologia britannica contemporanea (Faris 1992). L'autore pone però l'attenzione su come le possibilità offerte dal movimento contemporaneo non debbano spingere nella direzione di un consumo dell'alterità quasi come di un feticcio, da parte di un'industria occidentale che oggettiva e fruisce di chi sta davanti alla videocamera quasi in un'ottica coloniale.
Attraverso la videoanalisi l'antropologo ha la possibilità di indirizzare l'opinione pubblica su problematiche di carattere socio-politico che sente particolarmente; dovrebbe però tener ben presente che la propria analisi non costituisca una critica culturale al sistema politico altro, attraverso la lente della cultura occidentale egemone, così da non perpetuare stereotipi di dominio che travisano lo scopo scientifico della disciplina. ''Si può essere realmente critici solo del nostro proprio sistema culturale, dato che è l'unico sistema sociale di cui abbiamo una sufficiente ed intima conoscenza'' (Faris 1992).
Kuehnast parla di questo rischio nei termini di un ''imperialismo visuale'', capace di colonizzare il mondo attraverso la selezione di immagini che rappresentano una ideologia dominante ed una raffigurazione di verità. Imperialismo visuale come il messaggio subliminale di una gerarchia culturale, che esemplifica quello che è naturale, normale e desiderabile da quello che è anormale ed innaturale, perpetuando quindi stereotipi razziali e di genere (Kuehnast 1992).
L'antropologia visuale offre svariati e nuovi campi di ricerca. Tra questi uno di particolare impatto è costituito dallo studio delle rappresentazioni generate dagli indigeni stessi e dall'uso che essi ne fanno in particolar modo a livello politico. A riguardo, per approfondire il discorso, risultano emblematici gli studi sui Yoruba di Sprague (1978), di Hammond sui Tonga dello Utah (1988), di Jhala in India (1989) e di Chalfen sull'uso dei videotape da parte dei teenagers a Philadelphia (1988).
Un altro interessante studio a riguardo è quello di Turner sui Kapayo in Brasile; in esso si può osservare la loro pluralità di scopi di utilizzo dello strumento visuale. Viene utilizzato per documentare le proprie tradizioni culturali, in primo luogo le performance rituali; come strumento di organizzazione socio-politica laddove per esempio alcune importanti manifestazioni (come quelle riguardanti lo sfruttamento di una miniera d'oro sul loro territorio) vennero registrate per essere divulgate tra i vari capi Kayapo; e ancora con risvolti socio-politici dato che le riprese per le transazioni con i brasiliani per la miniera d'oro di Maria Bonita hanno per loro una sorta di valore legale e contrattuale (Turner 1990). Vediamo come l'analisi che parte dallo studio dell'utilizzo del mezzo audio-visivo, in questo caso da parte dei nativi, travalichi facilmente lo studio dello strumento visuale. L'estensione logica potrebbe essere lo studio dei cambiamenti culturali in correlazione alle tecnologie di comunicazione (Chalfen 1992).
E' però fondamentale tenere conto, nonostante i connotati culturali nell'utilizzo della videocamera, dell'eterogeneità interna alle culture nei termini di divisioni socio-politiche e culturali. E' auspicabile infatti che differenti persone, in differenti settori socio-culturali della comunità vedano e registrino il mondo in maniere differenti. A riguardo è notabile lo studio di Bourdieu (1965) sulle auto-rappresentazioni negli album di famiglie parigine di diverse aree, quale strumento per rafforzare l'immagine della famiglia al suo interno. Si ipotizza che la middle-class tenda a rappresentare non solamente i componenti della famiglia, ma ad espandere appunto i soggetti fotografati, in contrapposizione alla classe operaia, relativamente alla maggiore ambizione date le possibilità economiche e la posizione sociale migliore (Grace 1977).

25 giugno 2013

Potenzialità e risorse dei mezzi audio-visivi in ''Film as etnography'' di Peter Ian Crawford e David Turton.


Parte seconda

Nell'ottica di una attenta analisi degli effetti che il film etnografico genera sul pubblico è necessario pensare a come determinati temi possano talvolta shockare gli spettatori, o generare un travisamento dei contenuti, data la lontananza tra le culture interagenti, come si può notare dall'esperimento di Schwartz (1955), che nel tentativo di monitorare i timori del pubblico americano riguardo la castrazione, mostrò in un teatro un film etnografico riguardante le pratiche di subincisione degli Aborigeni centro-australiani. Il risultato fu appunto quello di turbare gli spettatori data la relatività culturale di una pratica per loro insensata e cruenta.
Questa relatività non è solo un fatto di distanza tra soggetto e spettatore, essa è veicolata anche dalla rappresentazione stessa coi suoi paradigmi tecnologici, così da rendere necessaria un'attenta analisi a riguardo, dato che le pratiche dei film-makers muovono i risultati in certe direzioni piuttosto che in altre (MacDougall 1992). Degli approcci alternativi sono possibili come evidenziato da Sol Worth, Jhon Adair e Eric Michaels.
Inoltre alcune culture possono risultare maggiormente adatte ad essere oggetto di videoanalisi data l'intrinseca ideologia occidentale, di chi solitamente sta dietro l'obiettivo, volta a porre l'attenzione sull'individualità. Ne risulta che, per esempio in ''The Woman's Olamal'' (1984), la cultura Maasai sia ideale ad essere rappresentata in film, data la propria predisposizione positivista nell'esprimere le proprie emozioni ed opinioni, così che i criteri di causalità della filmografia europea vengano rispettati. Invece un film a riguardo degli aborigeni australiani (come ci spiega anche William Stanner che a lungo si interessò di loro) dovrebbe tendere a mostrare in maniera sistemica le loro conoscenze ed aspetti culturali, senza troppo indugiare sull'individualità (MacDougall 1992).
Il film etnografico pone infatti l'attenzione tanto sul focus del regista, che sull'effetto dell'evento raccontato al pubblico, in una catena di costruzione dello stesso ''intenzione-evento-pubblico'', utile in ultima analisi a discernere i film etnografici dalla filmografia di intrattenimento (Banks 1992).
Il film maker in ambito etnografico, che è solitamente un antropologo, è capace di raccontare non tanto attraverso la spettacolarizzazione degli accadimenti quanto con un approccio olistico, capace di cogliere la ''totalità'' delle azioni, dei personaggi e delle situazioni (Heider 1976).

29 maggio 2013

Potenzialità e risorse dei mezzi audio-visivi in ''Film as etnography'' di Peter Ian Crawford e David Turton.

Parte prima

Nonostante lo strumento audio-visivo costituisca, rispetto a quello testuale, una ''thin description'' (analogamente a quanto postulato da Geertz), con esso è possibile enfatizzare l'attenzione sulla forma, al contrario del secondo caso nel quale è il significato ad essere creato come ragion d'essere; lo strumento visivo rappresenta metonimicamente la realtà, esperita attraverso un medium accattivante e stimolante tanto per il ricercatore che per il pubblico. (Hastrup 1985)

La possibilità di poter vedere e rivedere più volte i documenti carpiti permette inoltre il manifestarsi di un ''blow-up effect'': la realtà si presenterà agli addetti ai lavori come non la si era mai vista (Sontag 1979), oltre a permettere il ragionamento riflessivo (Collier 1988), tanto sull'oggetto della ricerca, quanto sul proprio operato in relazione alle modalità di ripresa, capendo quindi anche meglio se stessi.

Il documento audio-visivo può inoltre proficuamente essere implementato di una forma testuale, così da migliorare il materiale ottenuto, rendendolo, ritornando a Geertz, più ''thick'' e complesso così da permettere la comprensione, per esempio, di informazioni più attente dell'elusivo rapporto tra informatore e ricercatore, rispetto alle sole note di campo.

Qualora un determinato film volesse invece focalizzare l'attenzione maggiormente sulle forme visive, piuttosto che su di un processo esegetico di analisi e spiegazione a fondo delle dinamiche in esame (come per esempio in Forest of Bliss di Robert Gardener, emblematico a riguardo, dato che il film-maker non utilizza alcun commento, traduzione del parlato e sottotitoli) spetterà allora alla genuina curiosità dello spettatore il compito e la possibilità di ricerca tramite altri lavori accademici.

Ancora il film tende a comunicare un ''understanding'' mentre il testo fornisce una sorta di ''explanation''. Esso è ricco semanticamente ma scarso sintatticamente al contrario di quest ultimo (Wilden 1987). Attraverso il film si può fornire una sorta di sensazione di essere realmente nei luoghi raccontati. La distanza tra oggetto e soggetto, la cui descrizione costituisce appunto il lavoro antropologico, viene ricreata attraverso una ''digital device'' costituita dalle parole (come per esempio la narrazione).


12 febbraio 2013

"Cinema: a Visual Antrhopology", Gordon gray


CONCLUSIONI

Indubbiamente uno dei grandi meriti del cinema è quello che riesce a farci facilmente riflettere attorno a ciò che vediamo nel grande schermo che spesso e volentieri si riflette appunto sulle nostre vite. Attraverso la manipolazione della nostra emotività riesce a guidarci nell’intricata realtà che ci circonda.
L'obiettivo di questo testo è stato quello di mostrare attraverso vari esempi attinti dalla storia e dall’antropologia come al di sotto del film vero e proprio ci sia tutto un impianto che muove dalla cultura alla società alla storia. Un film non è solamente uno strumento adatto allo svago, ma è una lente di ingrandimento di un particolare momento collocato nel tempo e nello spazio. Gli spettatori a seconda di quello che vogliono ricercare e a seconda delle loro identità e dei loro vissuti, rimangono attratti o non apprezzano ciò che vanno a vedere. Ecco perché interpretazioni quali quelle della psicoanalisi che tentano di capire 
cosa fa il pubblico fuori dal cinema e il perché si sia divertito o meno si basa su conoscenze empiriche non adatte al pubblico di oggi.
Le discipline teoriche occidentali elaborarono tesi sul pubblico di valenza globale senza considerare il terzo mondo né da un punto di vista di pubblico né dal punto di vista cinematografico. Merito anche dell'antropologia se queste tesi stanno perdendo la loro presunta validità a livello mondiale. 
Mediante gli strumenti dell’antropologia come l'osservazione partecipante e quella dei comportamenti quotidiani applicati a questo medium fortissimo, è possibile ricavare il significato culturale dei film.
Ma non è soltanto l'antropologia che ha qualcosa da offrire agli studi del cinema: gli studi sul cinema sono utili a capire le idee ed i pregiudizi, la comunicazione per simboli e metafore, le forze politiche ed economiche occidentali, i cambiamenti di interesse di un popolo...
L'antropologo per studiare un fenomeno culturale deve collaborare coi media prendendo in considerazione le tesi teoriche a riguardo e cercando di inserirle nel discorso antropologico. Da questo procedimento ci si rende conto che molte discipline sono l'estensione di quella antropologica. Inversamente è utile anche il contrario, servirsi cioè di procedimenti antropologici per comprendere come il film lavori sulla società.

"Cinema: a Visual Antrhopology", Gordon Gray


Capitolo 4

In questo capitolo viene affrontato il problema dell’audience: come cioè il pubblico recepisce ciò che guarda e ascolta e come il medium cinematografico si ponga in modo dialogico con il pubblico. Ancora una volta è importante l’analisi del contesto per capire che tipo di interazione c’è tra cinema e spettatori. Prendiamo ad esempio il caso della Thailandia che intorno agli anni ‘80 non aveva spazi legittimati per la discussione cinematografica. Sebbene ci fosse la libertà di parola, la critica doveva stare estremamente attenta a ciò che riportava di un film poiché un’opera poteva essere giudicata sovversiva anche se si spostava dalle rappresentazioni teatrali tipiche.
Il cinema è stato pensato in Occidente come un meccanismo che potesse fomentare la disparità sociale tipica del capitalismo: da un lato l'intrattenimento rilassante e la visione di fantasie faceva dimenticare la realtà poco piacevole alla classe operaia, dall'altro questa visione li spronava a lavorare di più per potersi permettere la bella vita rappresentata dai film.
Gli studi politici che si limitano ad associare un particolare film o genere cinematografico con specifiche qualità del pubblico (età, sesso, status sociale) non forniscono una risposta al come mai la gente scelga proprio il cinema come mezzo di intrattenimento e divertimento.
La psicanalisi associava la pratica dell'osservazione di strane figure bidimensionali in una stanza buia al cinema e cercava di capire come tale processo di osservazione potesse essere trovato interessante; per gli psicanalisti la soluzione era che il film influenzava il nostro subconscio, e lo faceva in maniera non solo positiva ma anche negativa. 
Secondo Barker l'errore della psicanalisi è stato quello di considerare l'audience in termini idealizzati e teoretici che raramente corrispondono alla realtà. Per giustificare questa discrepanza, la psicanalisi attribuisce al film il successo nel promuovere una falsa consapevolezza nel pubblico.
Le prime teorie che si interessavano all’audience adottarono il modello dei “due gradini” in cui i consumatori con maggiori competenze trasmettevano il messaggio a quelli meno dentro l'ambiente. I metodi usati per questo genere di studi erano quantitativi e si avvalevano dell’uso di questionari e statistiche.
Altro fenomeno fortemente legato e influenzato dal cinema è quello delle telenovela: nasce in Sud America dal melodramma ed è importante per la capacità di alienare il suo pubblico, specialmente nord americano, dal suo contesto culturale. Il successo delle telenovelas ha portato ad una sub produzione di fiction regionali in cui comparivano elementi specifici della cultura che li metteva in scena (per esempio in quelle messicane c'è una profonda divisione tra bene e male, in quelle brasiliane vengono sponsorizzati molti più valori reali).
Come nel modello di codificazione-decodificazione di Stuart Hall, gli studi culturali combinano idee dalle varie correnti teoriche. Infatti negli anni ‘60 la Birmingham University vide nascere il CCCS (Centro di Studi Culturali Contemporanei), che inizialmente seguì una matrice ispirata dalla scuola di Francoforte, poi si occupò delle relazioni tra cultura e potere ideando nuove teorie. Nel periodo di Stuart Hall i media venivano analizzati come forma di testo intermediario del rapporto tra consumatore e pubblico. Il leggere (o l’osservare) il testo è un metodo attivo di interazione con esso, che fornisce al pubblico gli strumenti per criticarlo e rendersi consapevole del contesto. Così come in ambito politico i gruppi hanno la possibilità di accettare o contrastare un ideologia predominante, il pubblico può accettare o rifiutare il messaggio contenuto nel testo cinematografico. 
Per lungo tempo gli antropologi hanno focalizzato il loro interesse solo sul cinema, trascurando una dimensione locale, più piccola ma dall’impatto fortissimo sulla popolazione: la telenovela e la soap opera. Come emerge dagli studi, le soap opera egiziane così come quelle sud americane hanno una grande identità culturale e sono estremamente ricche di valori. Importante da riportare è il lavoro di Abu-Lughod (2002) in riferimento ad una soap opera egiziana: Amira. Nella protagonista della fiction (Amira per l’appunto) sono incarnati un insieme di valori che permeano la sua vita e di riflesso quelle degli spettatori che la seguono numerosi: la religione, il rapporto con la società e via dicendo. Il legame tra religione e moderno indica una necessità di identità nelle persone della classe media come Amira. L'analisi dei valori di Amira è stato un successo per l'antropologia perché si è potuto dimostrare che le cause dell'apprezzamento del pubblico sono strettamente legate ai valori culturali vicini al popolo. 
Per gli emigrati, vedere un film è sempre mediato da dei filtri: spesso sono dissidenti religiosi o comunque si sono instaurati in un luogo da più generazioni e il messaggio che passa per loro è diverso che per gli altri.
Gli Hmong (gruppo etnico originario cinese emigrato in USA, Francia, Canada e Australia per la guerra in Vietnam) hanno prodotto molto materiale cinematografico (e non solo) esclusivamente per la propria cultura in maniera no profit; il loro scopo è stato quello di  rappresentare la loro cultura e la loro terra per avvicinare il destinatario Hmong ad un immaginario di ricongiungimento con le proprie origini. Questi film sono stati usati anche per comunicare a distanza con gli Hmong rimasti a casa.
Il difetto degli studi sull'audience è stato principalmente il focalizzarsi sul livello quantitativo  dell’analisi e sui modi di azione sul cinema senza chiedersi effettivamente come sia composto il pubblico e perché vada al cinema. Dall’altra parte tali teorie sono state utili perché hanno permesso meglio di capire che a seconda di come si guardi un film, trasmette un determinato messaggio (uno psicanalista ad esempio vedrà il film come manifestazione di subconscio a differenza di un emigrato magari dissidente che leggerà nel film un richiamo alla sua patria e alle condizioni socio economiche dalle quali è scappato). 
In tutto questo, ancora una volta è bene ribadire che il ruolo dell’antropologia è stato tutt’altro che marginale per capire fino a che punto il cinema non è semplicemente una rappresentazione di una società ma una parte della rete di relazioni sociali che va capito in correlazione alla società d'appartenenza.

"Cinema: a Visual Anthropology", Gordon Gray


Capitolo 3

In questo capitolo viene analizzata una sorta di storia della consapevolezza che lega indissolubilmente cinema e società, vedendo in linea generale come l’antropologia abbia influenzato il cinema e viceversa per la scoperta dei meccanismi culturali presenti nei film e che ne guidano la produzione e la distribuzione.
Chow (1995) parla di antropologia del cinema in riferimento allo studio del contesto socio-culturale in cui il film è prodotto. Il suo lavoro fu importante perché mise in luce ciò che molte teorie sul cinema non avevano considerato importante e cioè il contesto di produzione del film.
McLuhan osservando come l'orientamento dell'uomo fosse passato dal visivo (la stampa) al sonoro giunse all’elaborazione della teoria del modello tecnologico secondo cui il mezzo di comunicazione ha più impatto sul pubblico del messaggio. Questa idea può essere criticata in quanto il messaggio dell'opera può essere capito se analizzato assieme al mezzo ed il contesto.
I vari approcci al cinema nazionale sono sotto alcuni aspetti morbidi per altri duri: quelli morbidi sono la lingua, i finanziamenti, le rappresentazioni etniche nel film, quelli duri sono le teorie che formano la tradizione cinematografica locale, in contrasto a quella hollywoodiana. Il Neo Realismo italiano e la New Nave francese sono oggi sotto questi termini oggetto di discussione, con riferimenti agli esempi del terzo mondo in particolare per l’influenza che esercitarono sul cinema africano e latino americano.
Gli aspetti di produzione, distribuzione e presentazione sono stati un pò trascurati dalle varie teorie. Così come per molto tempo è stato trascurato il fatto che fosse il governo a controllare l’industria cinematografica in modo da monitorare il prodotto: uno dei modi più noti è quello della censura, che pone tasse per l'esportazione in modo da favorire la produzione locale. Il Regno Unito fu la prima potenza ad applicare questo modello sia in territorio nazionale che nelle colonie dove venivano censurati o vietati i film americani. Questo era un modo per rafforzare il sentimento di appartenenza alla Madre Patria nei popoli colonizzati che in questo modo non avevano nessun termine di paragone con altre forme di cinema. A partire dagli anni ‘20 il Regno Unito si concentrò su una produzione dei “quota quickies”, film di basso dispendio economico che rientravano in linea con le restrizioni governative, al fine di competere con Hollywood ottenendo addirittura in certi casi un successo strepitoso. Questa politica però non considerò le influenze internazionali del cinema portate in patria dagli emigrati ed esiliati. Il caso più importante fu Deepa Mehta che col suo “Fire” dell’anno 1996, ha contribuito a creare un cinema indiano, anche se in un primo momento il suo film venne bandito severamente in India per via dei contenuti omosessuali. La censura di questo film è stata causa di varie proteste.
Ancora un altro approccio che unisce cinema e società è stato quello de “Il terzo cinema" , una corrente cinematografica nata in Argentina nel 1969 da un’idea di Fernando Solanas e Octavio Getino. La riflessione degli autori partiva dal fatto che in quegli anni il cinema era visto esclusivamente come un bene di consumo che dipingeva le conseguenze di particolari processi sociali in maniera anti-storica ed ignorandone le cause. Il vero obiettivo del “terzo cinema” era quello di dare un messaggio rivoluzionario che rispecchiasse ciò che stava accadendo nei paesi del terzo mondo e in parte anche in Europa.
Solanas e Getino organizzano i loro film partendo da una forma di documentario che però non voleva limitarsi a descrivere i fatti, ma auspicava a diventare portavoce del cambiamento. I film del “terzo cinema” avevano, diversamente da quelli europei, un carattere collettivo piuttosto che un auto affermazione artistica. Questo anche perché i film venivano distribuiti in maniera clandestina perciò il pubblico era davvero un protagonista attivo della propaganda ideologica contenuta nel film.
Esistono tante varianti di film legati dalla situazione storico economica della nazione e che cercano di riaffermare l’unità di un popolo sotto la propria bandiera. Caso paradigmatico è quello del film “Atanarjuat” (2001), realizzato interamente in lingua inhuit. Fu premiato a Cannes per il suo importante contributo per l’affermazione davanti al mondo della cultura inhuit. Il film fu anche oggetto di ispirazione per registi australiani che nel 2001 girarono  “Ten Canoes” interamente in lingua aborigena.
A causa dell’interesse tardivo dimostrato dagli antropologi in temi quali lo svago e il tempo libero, il cinema è stato fatto da poco oggetto di indagine antropologica. Questo filone di studi attorno al cinema si interessa ai collegamenti tra un determinato film (o una corrente cinematografica) ed il suo contesto storico, volendo evidenziare che cosa sia culturalmente incorporato nel film e come i processi socio-culturali giochino un importante ruolo sul contesto di produzione.
Powdermaker fu una delle prime ad associare l'antropologia al cinema, in particolare si occupò di problematiche moderne quali il disinteresse dei media sulla capacità di controllo e sulla manipolazione della società, specialmente quella attorno ad Hollywood (2002). Nello specifico il suo discorso partiva da due punti: il fenomeno di Hollywood non è isolato ma è parte di un contesto più ampio; Hollywood è sia un industria che una forma d'arte. In quanto pioniera di questi studi, ebbe il merito di portare l’attenzione verso un media che canalizzava le aspettative della società fermandosi a capire come a sua volta potesse influenzare il prossimo.
Importante per la materia furono le riflessioni di Babb che a partire dal 1981, sviluppò i suoi discorsi attorno al rapporto tra fedele e divinità nell’Induismo: il fedele desidera sia vedere il dio che essere a sua volta visto dal dio, la capacità di vedere dio è indice di virtù. Il suo lavoro venne applicato al cinema facendo emergere due aspetti: il suggerimento colto dagli antropologi fu quello di analizzare i film collocandoli entro il loro contesto culturale e contemporaneamente venne notato che il contesto culturale era implicitamente contenuto all’interno del film. Babb non entrò nel dettaglio della narrativa del film, ne discusse soltanto il contenuto e le tecniche narrative come i climax, (l'uso dell'inquadratura che riflette la posizione soggettiva del pubblico) e i primi piani che erano un ulteriore specchio per individuare le pratiche culturali di un popolo. 
Ciò che l’antropologia ha contribuito a svelare nell’analisi cinematografica è che un film qualsiasi non può veramente essere slegato dal suo contesto. A tal proposito l’antropologia del cinema invita gli spettatori a chiedersi sempre che tipo di film hanno davanti e quindi da quale tipo di situazione storico-sociale venga fuori. A tal proposito molti critici si chiedono se abbia senso analizzare i film provenienti dal mercato non occidentale con le stesse categorie usate per le industrie euro-americane. Per fare un esempio è ovvio che la prospettiva di scambio dio-fedele del film “Jai Santoshi Maa” (1975) non può venire compresa appieno all’interno del contesto occidentale.
Altro errore che spesso i critici occidentali commettono è quello di sostenere di riuscire a capire appieno le dinamiche politiche e  rivoluzionarie che emergono dalle industrie del così detto terzo mondo. A loro si rivolge Chow quando invita verso lo studio dell’antropologia che perlomeno aiuta a comprendere le basi di un dato movimento una volta collocato nel suo contesto culturale appropriato.

"Cinema: a Visual Anhtropology", Gordon Gray


Capitolo 2

In questo capitolo l’autore passa in rassegna alcune delle correnti culturali che si sono avvicendate nel corso degli anni in Occidente e cerca di mostrare quali siano i vari approcci di queste al cinema.
La visione del cinema come forma d'arte si è sviluppata dopo l'avvento del sonoro mentre a partire dagli anni ’70 viene analizzato in quanto apparato ideologico cercando di indagare il suo funzionamento non legato alla tecnica ma anche al messaggio artistico.
Dalle avanguardie francesi nacquero le prime teorie di formalismo cinematografico. In particolare Louis Delluc negli anni ’20 cercò di evidenziare gli aspetti di rappresentazione del cinema nel contesto dell'industria commerciale.
Sebbene in Germania non ci sia stato un portavoce come Delluc, i registi ed i teorici tedeschi elaborarono l’ideologia dell'espressionismo, la rappresentazione della "realtà" come insieme di stati mentali ed emozioni. La telecamera venne coinvolta nelle dinamiche della scena, diventando talvolta protagonista (ad esempio in Psycho nella scena in cui viene pugnalata la donna). 
A Francoforte, Kracauer tra il 1920 e il 1930 assieme ai colleghi della testata giornalistica Frankfurter Zeitung criticava le forme di capitalismo contenute sia nel cinema che nella altre forme d'arte, tra cui anche l'urbanistica, cercando di vedere quali ideologie politiche ed economiche fossero dietro la creazione delle opere. La scuola di Francoforte vedeva nel cinema un potenziale strumento di propaganda politica sia costruttiva, come testimonia l’esempio russo, che negativa, durante il controllo sociale nazista.
Anche i registi sovietici, tra cui Vertov, vedevano il cinema come strumento di propaganda politica. Film come "L’uomo con la videocamera" (1929) raccontavano una parte della rivoluzione. In particolare questo film fu importante anche per l'uso di tecniche di editing (correzione ed unione) dissoluzioni, split screen (due inquadrature sovrapposte). Queste tecniche, definite da Parkinson come manifestazione di “cine-poetica”, furono le prime a dare l'idea del montaggio dove era possibile fondere contesti, spazi e tempi lontani e saranno rese celebri in film di molto successivi quali “Million Dollar Baby”.
Dopo la seconda guerra mondiale il cinema in Europa venne visto sia come uno strumento d'arte che come propaganda. Il contesto in cui veniva scritto il film diventava perciò cruciale per la comprensione dei contenuti.
Il Neo Realismo italiano rappresentava la distruzione economica e morale avvenuta dopo la seconda guerra mondiale, i film dipingevano situazioni popolari, spesso ingaggiando attori non professionisti, l’opposto della fantascienza e degli attori di serie “A” hollywoodiani. Il linguaggio dei film italiani era colloquiale e non letterario: il film “Ladri di biciclette” (1948) era interamente amatoriale.
Per Bazin, esponente del Realismo francese negli anni ’50, il cinema era legato alla realtà in cui veniva ideato e lo si apprezzava nel cogliere tali collegamenti. In maniera opposta ai russi Bazin prediligeva scene lunghe, inoltre vedeva la propaganda sovietica come qualcosa di ideologico, non reale. Fu inoltre uno dei primi a riconoscere l'influenza del cinema sulla cultura popolare. 
Il marxismo influenzò anche le teorie cinematografiche e in particolare Althusser, secondo Lapsey e Westlake, fu una figura di spicco perché evidenziò e criticò gli aspetti della società moderna capitalista in cui erano ancora presenti concetti quali la sovrastruttura (insieme di leggi politiche, religiose, di parentela), il valore dei lavoratori che dipende esclusivamente dalla resa, il controllo dalla classe predominante su quella operaia, la rivoluzione socialista e comunista come unica maniera per ribaltare i ruoli sociali. 
Althusser sviluppò l'idea dell'identificazione: l'identità di una persona si forgiava all'interno della società ma l'individuo è complice di tale processo, è responsabile di affermare, riaffermare, o cambiare la sua ideologia. Il marxismo tuttavia non ha vita eterna perché si allontana dai modelli teoretici secondo cui il cinema si giustifica da se senza bisogno di interpellare i processi in atto al suo interno. Il marxismo cinematografico viene visto come una spingere verso ideologie ipoteticamente dedotte piuttosto che determinate empiricamente. Da ciò deriva il fatto che il contesto del film viene acquisito piuttosto che ricercato.
La rivista “Cahier du Cinema” fondata da Bazin e soci, era contraria al marxismo tanto da dichiarare nel ‘79 che un prodotto artistico non può essere legato ad un contesto socio-storico in maniera diretta, è in realtà parte di un testo storicamente e socio-politicamente più ampio. Per esempio “Young mr Lincoln” di Lanuck uscito nel 1939 può essere visto sia nell'interno del contesto economico del cinema hollywoodiano che come la sintesi di un particolare evento storico: emerge infatti chiaramente la necessità di riprendersi dal momento di depressione di Hollywood che si trova sotto il controllo dei grandi affari delle banche e si vede inoltre come la 20th Centuy Fox avesse sponsorizzato il partito repubblicano personificandolo nella figura di Lincoln, il simbolo di legge e verità. 
L’altra corrente che sviluppò un discorso attorno al cinema fu lo strutturalismo che si manifestò nella figura di Saussure che vedeva una sorta di dualismo contrapposto tra bene e male, triste e allegro. Effettivamente tali criteri vennero criticati poiché non erano necessariamente uguali per tutti e venne fatto notare che tale corrente spingeva verso una coerenza spesso astratta.
Propp prese spunto delle fiabe russe per rielaborarle in una struttura che si ripete, c'è sempre infatti la figura dell'aiutante magico e di quello che manda l'eroe fuori pista. Propp non venne riconosciuto come strutturalista tra gli strutturalisti perché non cercava di inserire un significato nascosto. 
La semiotica ha interesse verso il linguaggio di segni e simboli. L’analisi semiotica si basa sulla scienza piuttosto che su impressioni filosofiche e su sentimenti personali.
Secondo la visione cinematografica di Metz ogni inquadratura ed ogni elemento tecnico di un film doveva avere un senso, in caso contrario sarebbe stata la prova di un film fatto male. Per comprendere questi linguaggi Metz li categorizzava in contesto del film (relazioni del film con gli intenti di produzione o, se tratto da un libro, dalla sua storia) e contesto cinematografico. La semiotica di Metz era interessata praticamente solo su questo secondo punto, la scienza del cinema. Le sue teorie partivano dal concetto di pellicola come insieme di inquadrature: ognuna è importante quanto una parola in un discorso. Lo scarso successo di questa metafora lo spinse a concentrarsi nel fornire maggiori elementi di significazione. 
Anche Freud e Lacan furono presi in forte considerazione nell'analisi cinematografica. In particolare Hollywood era vista come la fabbrica dei sogni che raffigurava nell’inconscio dei desideri in maniera celata: per fare un esempio si può prendere la metafora del treno che entra in una galleria come inconscio simbolo del desiderio sessuale.
Fu rielaborata la teoria di separazione dalla madre di Lacan: il bambino che si separa dalla genitrice afferma la propria maturità e completezza però d'altra parte deve riuscire a compensare la mancanza della figura materna. L'auto consapevolezza viene tradotta in termini cinematografici come la fase specchio che garantisce al soggetto una nuova visione ma di per se non basta, ha bisogno del linguaggio come mezzo di socializzazione e di completamento. Secondo i teorici psicoanalisti il film opera quindi sul livello dell'individualità.
I lavori di Mulvey attorno al 1975 mostrano l'importanza di tali teorie rielaborandole nel concetto di piacere nell’uomo: identificazione, voglie sessuali e feticismo. Il piacere deriva dall'auto riconoscimento nel protagonista che esercita il suo potere di controllo su esseri più deboli come le donne.
Sembra che le teorie psicoanalitiche elaborate per il cinema siano difficilmente riconducibili alla realtà, questa è il rischio che si corre quando viene assunto il linguaggio di un'altra disciplina dimenticandosi di aver fatto uso solo di metafore. 
Le teorie letterarie degli anni ‘80 trasposte nel cinema erano incentrate principalmente sulla soggettività e sulla critica della narrativa. Confrontando le correnti letterarie pre moderne con quelle moderne, i teorici si sono soffermati alla visione della novella perché la letteratura rispecchiava quel periodo di transizione, di formazione del concetto di nazione ed identificazione, del domandarsi chi sia a dettare la storia. 
Il difetto comune alle grandi teorie quali il marxismo, la semiotica e la psicanalisi è stato quello di cercare una verità universale in maniera astratta applicando delle categorie teoriche troppo difficili da riscontrare poi anche nella pratica. 

"Cinema: A visual anthropology", Gordon Gray

Capitolo 1

Nel primo capitolo, l’autore fa un excursus sul mondo del cinema e la sua storia ponendo l’accento su come questo fenomeno da semplice sperimentazione sia riuscito a diventare uno dei più importanti medium di massa diffuso in tutto il pianeta. Sebbene il testo esaminerà in particolare il cinema in Europa e negli Stati Uniti, è bene mostrare come quest’industria si sia evoluta anche nel resto del mondo. 
E’ molto difficile dire per opera di chi sia nato il film; come per molti altri fenomeni, questo si è sviluppato a partire da innovazioni che si sono succedute nel corso della storia. In questo caso, gli studi sull’immagine e sul movimento di Muybridge (varie macchine fotografiche in serie che riprendono l'immagine di un cavallo in corsa), Marey (che sviluppò la macchina fotografica mitragliatrice in grado di fare didici foto al secondo), i lavori sulla percezione della tridimensionalità e della profondità mediati dalle magic lanterns (lampade che illuminate riflettono varie figure sul muro), furono le basi per i fratelli Lumière che nel 1845 presentarono il loro "The Arrival of a Train at La Ciotat Station”.
Da questo primo successo, altri autori apportarono nel corso degli anni ulteriori contributi al nascente cinema. Si può per esempio ricordare Porter che nel 1903 riuscì a dare un senso di simultaneità effettuando dei tagli alla pellicola. Tramite questo metodo che consentiva l’unione di varie scene si poterono inserire nel film dei significati più complessi.
Griffith ed il suo cameraman Bitzer inserirono nel film "Birth of Nation" (1915) nuove tecniche cinematografiche come il pan (in cui la telecamera si muove in orizzontale), il tilt(in cui si muove in verticale) ed il tracking shot (il ripetersi di scene). Più o meno nello stesso periodo, in Italia venne allungata la performance da 1 bobina (17 minuti circa) a 10 (2 ore). Per via della guerra, la Germania iniziò tardi la pubblicazione dei film e molti filmmakers tedeschi emigrati negli USA contribuirono alla creazione di Hollywood.
In Giappone il cinema di produzione locale era molto influenzato dal teatro: era difatti presente la figura del benshi (narratore), i costumi ed il make up, non vi era nessun contatto fisico nelle scene, le pose erano stilizzate. Il narratore era molto importante sopratutto nei primi esempi di cinema giapponese: svolgeva una funzione di fusione con l'audience, dando una sua  interpretazione e riportando i discorsi degli attori.
Solo dopo il terremoto del'23 il cinema giapponese, costretto ad interrompere le sue attività, si allontanò dagli elementi del teatro tradizionale.
La svolta del cinema dagli anni '20 è considerata l’epoca d’oro in quanto segnò il passaggio da un interesse scientifico per le tecniche cinematografiche ad un mezzo di intrattenimento. Nella prima fase dell’epoca d’oro veniva trascurato un elemento ritenuto inizialmente di poco conto che in seguito sarebbe stata la causa di rivoluzione cinematografica: il sonoro. Inizialmente venivano composte delle musiche della durata esatta della pellicola eseguite da delle orchestre ingaggiate in occasione della proiezione del film. In America venivano chiamati pianisti/organisti e venivano usate delle macchine speciali per produrre gli effetti sonori. La possibilità di riprodurre il sonoro rese lo show un prodotto finito, indipendente dalla variabilità della performance musicale.
Il problema iniziale del suono era che il microfono registrava tutto, anche il rumore delle telecamere e delle luci perciò l’unica soluzione sembrava essere quella di togliere alla telecamera la sua indipendenza di movimento. Alla fine tra le soluzioni adottate ci fu il sistemare l'audio dopo la registrazione delle scene o  il microfono con sordina che liberò la telecamera dal muoversi in piattaforme mobili.
Grazie al sonoro si potè sviluppare il genere musical usato ancora oggi in India che da subito diede degli ottimi frutti. Oltre le innovazioni tecniche, anche la struttura organizzativa fece dei passi avanti: le figure di regista, di produttore, scrittore, attore e macchinista divennero strettamente legate tra loro.
Le innovazioni tecniche e la cura per il dettaglio sponsorizzate da Hollywood fecero affluire numerosissimi spettatori al cinema, tanto che quest’industria grazie agli incassi, aiutò fortemente gli USA ad uscire dalla crisi del ’29.
In risposta all'epoca d'oro di Hollywood si crearono in Europa delle nuove correnti che contestavano la superficialità e la mancanza di contenuti del cinema americano, tra queste le più importanti furono il Neo Realismo in Italia ed il Cinema Veritè in Francia. 
Importanti furono anche i prodotti cinematografici in Regno Unito: il genere più diffuso era quello dei kitchen sink, incentrato sulla rappresentazione di una specifica parte della società, per lo più uomini della classe lavoratrice carichi di connotati negativi ma per cui era facile simpatizzare. Questi generi alternativi europei nati per contestare Hollywood finiranno per influenzare pesantemente i registi americani anche perché i costi di realizzazione erano molto bassi.
In America intorno agli anni ’40 per via dei cambiamenti demografici ed in particolare dell'espansione dei centri urbani, il cinema perse una grossa parte del suo pubblico.
Per salvaguardare il mercato americano nel 1948 venne fatta una legge contro i block booking (costringere i teatri indipendenti ad accettare blocchi di film e proiettarli per la prima mondiale).
Negli anni ‘60 Hollywood era fortemente indebolita, molti registi cercavano nuove strade come i blaxploitation (film sul tema della, droga, della violenza, della prostituzione) e gli spaghetti western (film sull’ottocento americano con un cast italiano poco costoso) che vedevano come protagonisti dei personaggi negativi, dei veri e propri anti eroi.
Negli anni ‘70 flimmakers come Scorsese, Spielberg e Coppola grazie ai loro lavori contribuirono a risollevare il nome di Hollywood creando una vera e propria cine-letteratura. Tuttavia, per la loro voglia di sperimentare, a volte questi autori fuoriuscivano dal budget contribuendo al crack dell'industria cinematografica locale. 
Per riprendersi dalla crisi, le maggiori corporazioni vollero investire sui potenziali delle blockbuster e decisero di comprare interi studi. Assieme a questa strategia, venne investito molto sul film d’azione e sulla produzione di “serie B” che però poteva vantare al suo interno almeno un attore importante che potesse attirare pubblico e far lievitare così gli incassi. In questo periodo la casa cinematografica Warner introdusse il tema delle arti marziali, che grazie a Bruce Lee segnò una nuova era del cinema.
Il mercato si riprese nel 1975 e Hollywood divenne l’industria cinematografica che oggi conosciamo.
Con la ripresa dalla crisi grazie a questa serie di strategie imprenditoriali ci fu la possibilità di ottenere alti budget da impiegare, così si girarono film del calibro del Signore degli Anelli. Oggi il mercato globale è in espansione e ci sono tanti avversari di Hollywood. Inoltre, grazie ad internet è possibile accedere rapidamente alla pubblicità dei film, ai trailer , alle preview, alle interviste ed al filmaking rendendo la concorrenza molto aspra. 

12 dicembre 2012

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 6. Poetiche del film etnografico

Nel sesto capitolo si tenta di individuare alcuni modelli teorici del film etnografico: Marano analizza così quelle che chiama poetiche oggettivanti, soggettivate e enattive.
Le prime sono quelle proprie di autori che hanno messo in rilievo la forza riproduttiva delle immagini e di conseguenza la necessità di occultare il filmmaker dal processo di realizzazione del film, così da poter evitare una modifica della realtà dovuta alla sua presenza.
Si possono includere nel campo delle poetiche oggettivanti tutte le opere prodotte in quel particolare periodo storico in cui si credeva di dover dare valore scientifico al film etnografico.
Alle poetiche soggettivate invece si possono ascrivere tutti i lavori in cui si va oltre la registrazione e la documentazione, quando il film smette di essere uno strumento che può solo mostrare e comincia ad essere uno strumento che deve anche interpretare.
Il filmmaker non deve più nascondersi, al contrario si rende visibile, diventando portatore di un punto di vista, commentando con la voce.
Il fatto di essere “visibile”, presente solo con la voce, crea nello spettatore l’illusione di vivere il film in prima persona.
Chi guarda è ora in primo piano al posto del soggetto filmato.
Un ulteriore spostamento di focus si ha nel modello delle poetiche enattive, nelle quali in primo piano si ha la partecipazione, l’esplorazione del Sé e dell’Altro, la relazione fra soggetto e oggetto.
Rouch fu uno dei primi a stabilire come la presenza del filmmaker e della macchina da presa producano gli eventi, in modo tale che il filmmaker stesso possa vedere le sue teorie modificarsi sul set/campo.
Colui che filma e colui che è filmato cominciano a far parte di uno stesso campo di forze modificato da qualsiasi movimento dell’uno o dell’altro, ciascuno dei soggetti e la relazione che li lega sono quindi costantemente in “movimento”, in trasformazione.
Il film è il luogo in cui avviene questo incontro, in cui si supera la soglia tra chi filma e chi è filmato e di conseguenza è allo stesso tempo il luogo in cui si sviluppa una conoscenza reciproca e di se stessi. Il film diventa interazione, luogo in cui si produce una realtà.
La realtà non è più assoluta ma è ciò che accade nel momento in cui il regista comincia a filmare; in questo senso le parole di Trinh Minh-Ha, autrice che può essere collocata nel campo delle poetiche enattive, mi sembrano esplicative: «Io posso riprendere lo stesso soggetto più di una volta, ma alla fine la prima volta risulta sempre la migliore, perché quando si ripetono i gesti si diventa sicuri di se stessi, cosa che la maggior parte dei cineasti apprezzano. Ma ciò che io prendo in considerazione è l’esitazione o qualsiasi cosa accada quando per la prima volta incontro ciò che sto vedendo attraverso l’obiettivo. Così il modo in cui si guarda diventa totalmente imprevedibile». E ancora: «La parte più affascinante sono gli ostacoli, il procedere alla cieca, gli incidenti che hanno qualcosa di magico».
Utile richiamare qui un concetto fondamentale: mi riferisco a quella che Fabietti chiama serendipity, un’antropologia del fiuto e del caso.
E’ palese la rinuncia al controllo attraverso l’osservazione, l’immersione totale in una realtà flessibile e la cancellazione di quella gerarchia “classica” che vedeva il filmmaker/antropologo un gradino più su del soggetto filmato/nativo.
Questi tre tipi di poetica nella pratica si contaminano e sarebbe sbagliato collocarli in una specie di percorso evolutivo in cui ciascuno di essi perfeziona il precedente, se è vero che in realtà ogni modello risponde a obiettivi specifici dettati da esigenze storiche.
Un quarto possibile modello che potrebbe nascere dalla necessità di dover sostenere una densità culturale che oggi si riconosce alle società e dalla voglia di inserire nel film tutte le informazioni possibili senza appesantirlo è quello che si potrebbe chiamare poetica dell’ipermedialità.
Oggi infatti tutte le informazioni sui protagonisti del film, sul contesto in cui il film è stato prodotto, sui primi contatti con i soggetti filmati vengono scartate per una questione di durata del film che sarebbe altrimenti eccessiva.
Secondo alcuni autori combinare più tecnologie potrebbe essere un modo per ovviare a problemi di questo genere: quando si parla di ipermedialità si intende infatti la necessità di utilizzare più supporti per presentare i documenti.
Il fruitore, a seconda dei suoi interessi, potrà scegliere il percorso di navigazione all’interno del “testo”, non ci saranno infatti inizi o finali già prestabiliti, tutto sarà “aperto”.
Ovviamente l’ipermedialità non è uno sviluppo del film; sarebbe però interessante far dialogare i due media tenendo sempre conto che anche in questo caso quella che si presenta non sarà mai una copia integrale della realtà bensì un’interpretazione della realtà stessa.
I lavori prodotti tenendo presente una determinata poetica non saranno più antropologici di altri, per ciascun tipo di poetica il film infatti potrà essere considerato etnografico se detiene alcune particolari caratteristiche.
Secondo la prospettiva oggettivante un film è etnografico se è “puro”, se non è contaminato dalla soggettività del filmmaker, perché solo così potrà fornire informazioni scientifiche.
Le poetiche soggettivate invece considerano etnografico un film quando contiene i crismi di uno studio antropologico e quando l’autore palesa il suo metodo.
Come scrive Rollwagen: «Coloro che non sono antropologi non possono fare film antropologici, perché non hanno il quadro concettuale necessario a trattare il soggetto in modo che sia illuminato dalla teoria antropologica».
Secondo le poetiche enattive il film stesso deve essere un’esperienza per i soggetti filmati e il filmmaker e lo strumento grazie al quale entrambi comprendono se stessi e la propria cultura; il metodo è flessibile, continuamente in discussione, si muove e riduce la differenza di potere fra il sé e l’altro, smettendo di cercare le differenze per analizzare invece le contaminazioni.
Non credo sia sufficiente l’intenzionalità dell’autore per far si che il suo film venga percepito come veramente etnografico, antropologico, ma occorre anche che lo spettatore lo accetti come tale.
Il filmmaker può usare delle strategie grazie alle quali il film può sembrare “scientifico”, questi segnali possono essere di diverso tipo: testuali o extratestuali.
Ascrivibile al primo tipo è, per esempio, la voce dell’antropologo fuori campo che ogni tanto spiega con tono neutro alcune scene (la cosiddetta “voce di Dio”), mentre al secondo la scelta di proiettare il film in determinati festival o la scelta di trailer e copertina.
Detto questo, non bisogna dimenticare che ciò che è considerato etnografico cambia a seconda del contesto culturale e storico in cui quella categoria viene utilizzata.



Questo testo credo abbia messo in evidenza come realizzare un film etnografico sia un’arte discorsiva che comporta centinaia di scelte.
Le cose sono sicuramente cambiate da quando il film era visto come uno strumento per supportare o comunicare le teorie dell’antropologo o agevolarlo nella ricerca sul campo registrando dati oggettivi, oggi che lo spettatore viene stimolato ad essere consapevole, perfino critico nei confronti di ciò che passa sullo schermo e, allo stesso tempo, aperto e disponibile a creare egli stesso i significati del film.
Credo che sia giusto lavorare ad un film partecipativo che metta in campo le diverse soggettività e le faccia dialogare arricchendo il documentario e facendolo diventare polivocale.
Bisogna lavorare all’idea di un cinema partecipativo e necessario, come lo sono tutte le persone che si sono incontrate nel film per realizzarlo.
Nulla è esterno nel film.
Questa contaminazione arricchirà sicuramente il prodotto favorendo un superamento dei confini, senza mai dimenticare che utilizzare una macchina da presa o una macchina fotografica non significa rendere il lavoro più scientifico ma resta sempre una presentazione di un punto d’osservazione.
Siamo sempre di fronte ad uno sguardo limitato (vediamo quello che può essere inquadrato) e le riprese sono sempre il frutto di “pre-giudizi”, mappe mentali, habitus, che ognuno di noi ha sviluppato attraverso le sue esperienze di vita. Le cose non sono solo ciò che appaiono.
C’è sempre una messa in scena, una realtà ‘registrata’, quindi mediata, ‘impura’.
Inoltre non bisogna mai smettere di fare attenzione alle trappole dell’oggettivismo. Con i mezzi audiovisivi si può lasciare molto spazio al fruitore, facendogli credere di poter scegliere un punto di vista, creando quasi l’illusione di poter disporre della realtà rischiando però di essenzializzarla.
Nonostante la sua complessità sia infatti sempre più restituita dai lavori moderni, non si deve dimenticare che quello che viene presentato è sempre un punto di vista e mai una totalità.
Complessità solo illusoriamente tangibile, afferrabile dal fruitore che ha l’impressione di poter vedere tutto quello che è degno di essere raccontato.
Il filmmaker dovrebbe tenere in considerazione per la realizzazione della sua opera innumerevoli prescrizioni.
Alla luce di tutto questo quello che MacDougall scrive sulle potenzialità e risorse dell’utilizzo dei mezzi audiovisivi mi sembra molto più chiaro e prezioso.
L’ammonimento ad “esplorare la percezione, l’esperienza e il vissuto attraverso la sua iscrizione nei corpi, gesti, sguardi”, lo sviluppo progressivo della conoscenza di cui parla, la consapevolezza che “l’esperienza è in parte la conoscenza che non può sopravvivere al processo di traduzione” e che “i significati risiedono nella performance” mi sembrano punti fermi, cardini da tenere sempre presenti.

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 5. Interagire e collaborare

Se, come già sottolineato, nei lavori di MacDougall mancava un’interazione profonda e consapevole con i soggetti filmati, chi invece è riuscito ad esplorare in profondità l’Altro è stato Jean Rouch, cineasta francese che nei suoi lavori ha coinvolto realmente i soggetti da lui filmati in una intima e diretta collaborazione; realmente perché, a differenza di altri, per Rouch la partecipazione non è uno stratagemma per riuscire ad osservare meglio.
Convinto che la presenza della macchina da presa avrebbe condizionato il comportamento degli “attori”, il cineasta francese non cercava di limitare questi comportamenti dettati dal disagio, al contrario li considerava come rivelazioni più profonde di una parte nascosta ma più reale di noi stessi.
È facile notare come Rouch decostruisse, così facendo, alcuni dei punti che erano stati considerati dall’etnografia visualista fondamentali fino a quel momento, rappresentare la realtà in modo oggettivo infatti non è più possibile, non esiste più una realtà che va scoperta a disposizione del ricercatore, il soggetto ripreso e il filmmaker sono coinvolti in un processo dialogico dettato da piena collaborazione e complicità.
Il film diventa una relazione: «Tutti i film che ho fatto hanno sempre lo stesso soggetto: una scoperta dell’Altro, una esplorazione della differenza, una differenza che non è una restrizione ma un’aggiunta» (Rouch, 2003).
Quella di Rouch si può definire come antropologia condivisa: il più importante aspetto è quello che l’autore chiama controdono audiovisivo, tecnica che consiste nel mostrare ai soggetti filmati il film una volta terminato, come se immagini e suoni fossero restituite a coloro senza i quali non sarebbe stato possibile realizzare il lavoro.
Grazie a questa pratica, mutuata da Flaherty, non solo i nativi possono “controllare” come siano state rappresentate la loro cultura e la loro società ma anche l’antropologo può ricevere nuovi suggerimenti.
Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento di collaborazione che, a partire dalla fase preparatoria, si estende oltre la fase di postproduzione del film, fino alla sala di proiezione.
Jean Rouch infatti chiude il montaggio solo dopo aver richiesto l’autorizzazione all’intera tribù attraverso la proiezione pubblica del suo film.
Un altro aspetto dell’antropologia condivisa consiste nell’avvalersi dei nativi come collaboratori, dai tecnici del suono agli attori; il cinema allora diventa un’opera condivisa e distribuita con la complicità dei soggetti-attori che sono sempre coautori delle immagini che si registrano.
Alla base del modo di riprendere di Rouch quindi si trova un’interattività tra l’autore, il quale mette in gioco il proprio corpo e partecipa così a quello che possiamo definire il rituale filmico, e i soggetti filmati che agiscono e re-agiscono alle riprese.
Chi è davanti all’obiettivo intraprende un cammino comune con chi sta dietro.
Il concetto di collaborazione critica supera quindi contemporaneamente l’epistemologia della distanza propria del positivismo, il cinema d’osservazione (modello fly on the wall) ma anche il cinema d’interazione di MacDougall dove collaborare era solo una strategia del filmmaker per riuscire a vedere più aspetti della realtà filmata e raggiungere più facilmente i propri scopi.
Il cinema di Rouch non cerca una realtà già data, la produce, per proprio conto inoltre la macchina da presa non mostra significati che la realtà detiene, bensì è uno strumento per crearne una.
Una volta analizzata a grandi linee la visione del cinema di Rouch è facile capire quanto questa si discosti da quella di MacDougall: senza ribadire quanto è stato già detto del cinema di quest’ultimo mi limiterò a precisare che per Rouch si può parlare di cinema di ripresa, mentre per MacDougall di un cinema di montaggio. In altre parole l’improvvisazione si oppone alla precisione tecnica e artificiosa del montaggio.
Nel 1957 Rouch inaugura un nuovo filone della sua produzione cinematografica, quello
dell’etnofiction, in cui il filmmaker decide di ricostruire assieme ad alcuni amici songhai le loro migrazioni stagionali dal Mali verso il Ghana per cercare lavoro.
Il film, inizialmente senza sonoro, fu post-sonorizzato con i commenti degli attori e l’introduzione dei sottotitoli, consentendo di dar voce ai soggetti filmati che si esprimevano direttamente nella propria lingua, grazie alla traduzione delle loro parole rese così comprensibili al pubblico.
Nasce così Jaguar che apre il cinema ad un nuovo modo di fare fiction, girando senza screenplay, con soltanto un percorso di viaggio da seguire deciso di comune accordo con i tre attori protagonisti, con lo scopo di raccontare una realtà che altrimenti sarebbe stata impossibile da ridurre ai tempi filmici.
La finzione o etno-finzione, come Rouch la definisce, diventa qui il mezzo per affrontare e raccontare il reale.
Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere se è davvero possibile una vera collaborazione fra soggetti che stanno comunque vivendo una relazione asimmetrica, dato che nonostante tutto Rouch è sempre stato un bianco colonizzatore mentre i suoi attori i colonizzati.
In seconda istanza, è lecito porsi il problema di quanto gli attori “guadagnassero” da un rapporto così stretto con un bianco, almeno da un punto di vista sociale e simbolico.
In effetti, nei lavori di Jean Rouch i soggetti filmati hanno acquisito ruoli sempre più importanti fino ad arrivare, negli anni settanta, ad essere veri e propri autori di film etnografici.
La globalizzazione ha comportato una spinta al dialogo, rendendo sempre più necessario lo sviluppo di linguaggi che consentano il confronto tra culture e aiutino nello stesso tempo a ridefinire la propria identità.
Anche coloro che un tempo erano relegati al solo ruolo di soggetti filmati o addirittura di spettatori divengono produttori, registi ed operatori.
Lo sviluppo delle nuove strumentazioni audiovisive si è trovato a coincidere con il movimento di decolonizzazione degli anni sessanta, quando antropologi/filmmakers hanno in parte ceduto i loro strumenti a coloro che avevano fino ad allora filmato.
I modelli della comunicazione utilizzati dai nativi vanno dalle produzioni documentarie, fino alle sortite nel campo della ricostruzione storica e del giornalismo televisivo.
Le produzioni spesso espongono problemi di carattere sociale, il film diventa quasi un elemento di lotta nei confronti del potere dominante, uno strumento utilizzato per rivolgersi ad un pubblico il più vasto possibile. La videocamera offre alle culture native un potente mezzo espressivo, svincolato dai poteri dominanti dei media e delle istituzioni governative.
Le comunità native, attraverso le produzioni cinematografiche cercano di preservare la propria cultura, sempre più contaminata, usano il film come forma di autopromozione rivolta ad un pubblico occidentale, cercando contemporaneamente di catalizzare l’attenzione delle società nazionali ed internazionali verso la situazione dei diritti delle minoranze.
Inoltre possono usufruire dei filmati come mezzo di scambio di informazioni tra diversi gruppi indigeni.
Attraverso i media si cerca, quindi, di difendere un’identità culturale a rischio; ma, se questo è vero, è indiscutibile che dal lato opposto la diffusione delle nuove tecnologie potrebbe paradossalmente aprire la strada ad un assalto finale alla cultura e alle conoscenze tradizionali.
Da un punto di vista eurocentrico, la problematica è intesa nei termini di un timore per la perdita dell’autenticità culturale, quasi un auspicio ad una chiusura piuttosto che ad un mutamento culturale.
Il nativo che utilizza i media è quello che “perde” la sua “vera” identità.
Da un punto di vista oggettivista il “nativo tecnologizzato” potrebbe risultare meno interessante perché ormai in tutto e per tutto moderno, come se non si potesse più destoricizzare la cultura “Altra”. Al contrario, credo che tutto ciò non voglia dire che ci sia necessariamente stata una perdita di identità etnica, bensì forse un rafforzamento, dovuto all’imposizione da parte del nativo del suo diritto ad essere “visto” e compreso da più culture.
Inoltre il materiale audiovisuale sulle tematiche indigene ha avuto una grande diffusione nelle scuole. Ha aiutato a far rispettare internazionalmente il riconoscimento dei diritti ad un’educazione differenziata ed è diventato parte del materiale di insegnamento. Per i bambini indigeni l’accesso a questi materiali è fondamentale per combattere l’invasione culturale.
Ha potuto rivitalizzare molti rituali, registrarli, conservarli e riproporli anche alle future generazioni.
È cosi che le popolazioni indigene smettono di configurarsi e rappresentarsi come l’Occidente, inizialmente dei colonizzatori e dei missionari ed oggi dei media, ha inscenato per loro, riuscendo così ad uscire da questa realtà tanto imposta quanto fittizia.
Mi trovo perfettamente d’accordo con antropologi come Jay Ruby e Sol Worth che hanno preso atto dello spostamento dall’antropologia visuale all’antropologia della comunicazione visuale, dal film come registrazione delle culture “Altre” al film come fatto culturale e quindi come oggetto da studiare esso stesso.
Abbiamo visto come nel corso della storia dell’antropologia visiva, le immagini etnografiche si siano trasformate pian piano da documenti “segnaletici” a rappresentazioni dell’incontro tra tre mondi, quello del filmmaker, quello dell’“attore” e quello dello spettatore.
In realtà, a ben guardare, ripensando al mondo terzo di cui parla Geertz, che nasce dall’incontro tra il mondo dell’antropologo e il mondo del nativo, credo che in questo caso possa entrare in gioco un quarto mondo, scaturito dall’incontro degli altri tre, in un gioco di interpretazioni e re-interpretazioni continue o, come direbbe Geertz, di interpretazioni di interpretazioni.

7 dicembre 2012

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 4. Osservare e documentare

In questo capitolo sono presentate diverse rappresentazioni cinematografiche associate all’antropologia: dai primi film etnografici ad un “direct cinema” - film etnografico di pura osservazione - sino ad un cinéma vérité partecipativo. Si analizzano in particolare i cambiamenti di metodo e le questioni riguardanti la relazione tra regista/antropologo e i soggetti rappresentati.
Le origini del film etnografico si possono collocare alla fine del XIX secolo quando i primi strumenti di registrazione vennero impiegati nell’ambito di attività scientifiche per documentare alcune qualità culturali di popolazioni esotiche.
Felix-Louis Regnault, studioso francese, registrò nel 1895 alcune pratiche della tribù africana dei Wolof. Girata proprio in quella occasione, la sequenza di una donna wolof che costruisce un vaso viene generalmente identificata come il primo caso di film con valore etnografico.
Ma solo tre anni dopo, nel 1898, Alfred C. Haddon, durante la sua spedizione antropologica presso lo stretto di Torres, si doterà di macchina fotografica e macchina da presa per impiegarle come strumenti di studio. Da allora molti seguirono il suo esempio, tra questi l’austriaco Rudolf Poch presso i Boscimani e l’inglese Baldwin Spencer nelle sue ricerche sul campo in Australia.
Questi studiosi - ci muoviamo in un quadro epistemologico di stampo positivistico -
avevano completa fiducia nelle capacità della tecnologia, pensavano di poter catturare gli eventi senza mediazioni, perseguendo il loro scopo di rappresentare in modo scientifico la realtà.
L’intervento umano del filmmaker era considerato un elemento di disturbo, capace di “sporcare” il materiale filmato, e andava quindi limitato per lasciare alla macchina da presa il compito di riprendere in maniera “neutra”.
Il film non era inteso come una rappresentazione della realtà basata su procedimenti interpretativi, ma come una finestra sul mondo, dove la presenza dei dati permettesse di sostituire la realtà vissuta in prima persona dallo studioso. Il dato prodotto appariva ovvio ed indiscutibile.
Il lavoro di questi pionieri era inoltre guidato da quella che possiamo identificare come antropologia di salvataggio; questa impostazione di ricerca ha portato alla raccolta di materiali riguardanti diverse popolazioni indigene di cui si temeva la scomparsa a causa dell’avanzare del progresso.
Era necessario quindi un progetto per salvare delle tradizioni inevitabilmente destinate alla scomparsa.
Gli strumenti cinematografici e quelli fotografici apparvero efficaci per raggiungere uno scopo di questo tipo.
Spesso si decideva anche di “ricostruire” le azioni dei nativi davanti alla cinepresa per favorire la chiarezza visiva di ogni dettaglio e di ogni “attore”.
In questo primo periodo quindi la macchina da presa era usata come in laboratorio è usato un microscopio, per analizzare cioè la registrazione filmica considerata assolutamente imparziale e per comparare dati oggettivi provenienti da popolazioni diverse. 
Nel primo ventennio del XX secolo furono registi con uno sguardo più artistico che scientifico come Flaherty a cambiare il panorama inaugurando uno stile partecipativo.
Egli riuscì a tradurre in termini cinematografici il metodo dell’ “osservazione partecipante”, teorizzato nel 1922 da Malinowski. Come Malinowski nelle isole Trobriand, anche Flaherty visse per un lungo periodo tra gli Inuit ai quali, prima delle riprese del suo film, Nanook of the North (1921), il filmmaker spiegò quale fosse il suo progetto e dei quali ascoltò i suggerimenti. Nonostante questo riuscì a descrivere i nativi come se fossero osservati a distanza.
Flaherty avviò una tradizione di filmmaking partecipativo che è poi continuata con i film di Jean Rouch che come lui credeva nel potere che ha la macchina da presa di vedere, al di là delle possibilità dell’occhio umano, le qualità degli esseri e delle cose.
Altro concetto chiave del pensiero di Flaherty è quello di “non-preconcezione”, cioè lo sforzo che l’antropologo deve compiere per riuscire a non pre-interpretare ciò che osserva, tenendo sempre ben presente come solo senza preconcetti si possa cominciare a fare un tipo di ricerca veritiera.
Questo atteggiamento di sospensione di giudizio personale e di distanza dall’oggetto, tra l’altro condiviso da Malinowski, a mio avviso avvicina Flaherty al paradigma positivista del tempo.
I lavori di Malinowski e quelli di Flaherty sono aperti al punto di vista del nativo solo in apparenza ma in realtà sono soprattutto una presentazione del punto di vista dell’antropologo: è come se gli elementi del mondo reale, anche grazie alla ricostruzione di cui Flaherty faceva gran uso, vengano usati, e considerati come materiali grezzi da manipolare.
Il primo progetto che riuscì a coniugare competenze antropologiche professionali con un utilizzo consapevole del mezzo cinematografico si deve, come abbiamo già visto, a Margaret Mead e a Gregory Bateson che nel corso degli anni trenta filmarono e fotografarono gli Iatmul a Bali durante la loro ricerca tesa a mostrare, grazie all'ausilio delle immagini, i tratti fondamentali del carattere e dell’ethos dei Balinesi.
Negli anni Cinquanta importanti innovazioni tecnologiche influenzarono le metodologie di registrazione, le macchine da presa diventate sempre più piccole e maneggevoli facilitarono l’avvicinamento tra filmmaker e soggetti filmati e l’avvento del sonoro sincrono rese possibile la registrazione in presa diretta dei suoni, dei dialoghi, delle musiche, aumentando l'effetto di realtà ottenuto dai film.
In Francia, negli Stati Uniti e in Canada sorsero scuole documentariste sensibili a questi cambiamenti, uno di questi approcci aveva come scopo catturare la realtà simulando l’assenza del filmmaker e omettendo le relazioni, inevitabili, tra questi e i soggetti ripresi.
Il processo di osservazione era considerato centrale, si ricercava un’autenticità totale, si osservava come se si fosse presenti ad un evento ma senza essere visti (come se il regista fosse una “mosca sul muro”).
Questa modalità di ripresa genera una serie di questioni, come ad esempio: quanto di quello che si vede sarebbe davvero successo se non ci fosse stato il regista? O ancora, cosa sarebbe cambiato se la sua presenza fosse stata più accentuata?
Questo tipo di approccio, chiamato “cinema diretto” termine proposto da Ruspoli o “cinéma vérité”, si è sviluppato anche in altro modo, le macchine da presa sempre più piccole non sono state usate per occultare la presenza del regista bensì hanno permesso a quest’ultimo di diventare un tutt’uno con le apparecchiature.
Il filmmaker non finge di non esserci, non si fa mosca, tutt’altro, diventa una presenza palpabile che provoca riconfigurazioni continue della realtà; la situazione è alterata dalla sua presenza.
Rondolino puntualizza che: «tra i vari modi di praticare il cinéma vérité c'è anche quello di usare la cinecamera come 'agente provocatore', come stimolatore di reazioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione. In questo caso, la realtà e la sua 'verità' nascono dal cinema, sono il frutto del suo intervento diretto».
Questa prospettiva critica privilegia ciò che accade nell'interazione reciproca tra la macchina da presa al lavoro e una data situazione che sta per essere ripresa.
Questo è un esempio evidente di come gli stessi sviluppi tecnologici possano portare a cambiamenti metodologici estremamente diversi.
A partire dagli anni sessanta si sviluppò in nord America un tipo di documentario, conosciuto come  “cinema di osservazione”, che riprese modalità di rappresentazione usate dal cinema diretto, in particolare nell’attenzione verso i dettagli, i gesti, la quotidianità dei soggetti ripresi.
Questo tipo di film ricorre a pratiche osservazionali, evitando l’intervento del regista/antropologo che cerca di rimanere in una posizione defilata senza venire coinvolto nelle azioni da registrare.
L’idea al centro di tale approccio è la possibilità di realizzare un documentario evitando gerarchie tradizionali che pongano l’autore in una posizione privilegiata per raccontare la realtà: il film diventa appannaggio dei soggetti ripresi e dello spettatore.
Viene lasciato spazio ai soggetti ripresi rispettando i loro tempi e il regista seleziona gli eventi per lui importanti ma non guida più la comprensione dello spettatore.
Spesso però i ritratti prodotti da questo cinema non sono, al contrario di quello che si crede, freddi e distaccati, nonostante i loro intenti in genere perseguano una rappresentazione oggettiva e neutra della realtà.
Young sostiene nel suo saggio “Observational Cinema”, come lo scopo di tali documentari sia riprendere il “comportamento normale” delle persone nelle circostanze che comprendono anche la presenza della cinepresa e gli effetti che questa può avere sugli eventi.
Il film di osservazione nei principi enunciati da Young non segue quindi l’etica del  metodo cosiddetto “fly on the wall”: non tenta di ottenere un’utopica descrizione oggettiva della realtà, come sarebbe esistita anche in assenza del filmmaker. Si mira invece ad una rappresentazione più rispettosa degli eventi, dove siano evitate la retorica e la cornice interpretativa adottate da molte forme filmiche tradizionali.
Su questo argomento interviene anche MacDougall il quale sostiene che sia necessario andare al di là della mera osservazione, altrimenti si finirebbe per accettare di “vedere” solo ciò che i soggetti mostrano in apparenza senza poter comprendere ciò che essi ritengono implicito nelle loro pratiche.
MacDougall ritiene che la presenza del regista con la macchina da presa inevitabilmente inneschi dei comportamenti dei nativi influenzati da un evento stra-ordinario e che nessun film etnografico quindi possa essere solo registrazione di modi di vita di una popolazione bensì sia invece sempre una registrazione di un incontro tra due culture. Ciò che bisogna praticare è, allora, un cinema di interazione.
E’ importante definire questo, cinema di interazione e non di partecipazione, per non confonderlo con quello di autori come Jean Rouch.
Scrive infatti MacDougall: «dando accesso nel film ai suoi soggetti, il filmmaker  riesce a raccogliere un numero di informazioni e di chiarimenti maggiori sulla loro vita». Questa affermazione ci fa capire come in realtà MacDougall ritenga più importanti le informazioni e le tesi che il regista vuole dimostrare rispetto alla partecipazione dei soggetti che filma, con i quali il regista stesso non stringe relazioni.
Diventa necessario quindi distinguere questo tipo di atteggiamento da quello veramente partecipativo: sicuramente MacDougall interagisce con i soggetti filmati ma non collabora veramente con loro, l’interazione è solo un modo per avere più informazioni possibili e per ottimizzare l’osservazione.
Da questo approccio nasce l’uso di riprese lunghe, il filmmaker infatti spesso sta a guardare, aspettando che accada qualcosa, in disparte; a differenza di quanto farebbe invece Rouch, non collabora, si limita a contemplare.
L’autore stesso dichiara di appartenere al gruppo di filmmaker, corrente anglosassone, che predilige l’annullamento totale dell’osservatore dal quadro del contesto del film, mentre, al contrario, Rouch e i suoi seguaci adottano un atteggiamento interattivo con i soggetti ripresi.
Un tale metodo lascia il film all’interpretazione dello spettatore che non è influenzato da rigide indicazioni del filmmaker .
Praticare quello che può essere chiamato cinema di contemplazione non ha impedito a MacDougall di creare etnografie complesse e dense, al contrario , «Mac Dougall è stato il propositore principale di un approccio che incorporasse i sensi nella realizzazione di documentari etnografici» (Pink, 2006).
L’autore è convinto che il film etnografico possa rappresentare meglio della scrittura le esperienze sensoriali.
Credo che effettivamente il film sia lo strumento più giusto per restituire la sensorialità, per restituire quello che Sarah Pink chiama “untraslatable”, cioè quello che non si può “tradurre” in descrizioni scritte: «il film offre un modo alternativo di rappresentare l’esperienza sensoriale e le qualità di intersoggettività fra l’osservatore e l’attore sociale» (Pink, 2006).
Ma la capacità di un film di rappresentare la dimensione sensoriale è una conseguenza della qualità della relazione umana che si è venuta a creare fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del documento.
Fra filmmaker e soggetti ripresi, il dialogo, quindi, oltre alla condivisione sensoriale, rimane centrale.
A mio avviso è qui che si può muovere la critica più importante a MacDougall: l’autore, non conoscendo la lingua utilizzata dai soggetti ripresi, non ha mai potuto immergersi realmente nella loro realtà, non ha mai potuto dialogare con l’Altro e la mancanza di questa empatia credo possa portare alla realizzazione di lavori non sufficientemente profondi.