13 giugno 2012

"Le ragioni dello sguardo" di Francesco Faeta


Capitolo 9 | Dietro il silenzio dei cimiteri. Imago mortis rivisitata.

In questo ultimo capitolo Faeta  si concentra sugli spazi dei morti, sui cimiteri. Inizia con una breve comparazione tra il cimitero di Montparnasse, a Parigi, e quelli della Calabria. Dei modi diversi di celebrare i defunti e di come nel tempo le due tipologie si siano avvicinate tra loro.
Lo svolgersi del discorso della memoria già dai tempi dell’antica Roma, si disponeva secondo ordinate e rigide sequenze: “colui che giaceva dietro la lapide era, innanzitutto, uomo (o donna) esemplare, comunque soggetto che aveva avuto nella vita esperienze professionali degne di essere ricordate (…) era, poi, leale e affezionato parente; era, infine e ulteriormente, persona tuttora vivente dentro un mondo evanescente e larvale” [pag. 226].
Anche la libertà e l’autonomia all’interno del cimitero, da parte dei parenti dei defunti, è cambiata: oggetti e fiori secchi venivano disposti sulle tombe e nessuno li rimuoveva, i sacerdoti non intervenivano in nessun modo anche davanti a usanze “non lodevoli” e la costruzione di edifici per la sepoltura avveniva in maniera spontanea. “Il rumore, il suono, le parole, s’inscrivevano con forza nelle attività di soglia; servivano per notificare al morto il complesso delle pratiche cerimoniali di cui egli beneficiava e al vivo, ai vivi, la scrupolosa osservanza delle regole che il gruppo familiare aveva. Saper osservare le regole nei confronti dei morti significava, infatti, offrire garanzie complessive di osservanza delle regole sociali più estese, di rispetto degli ordini, delle gerarchie, dei vincoli consuetudinari, delle alleanze. Dunque, la memoria dei morti (…) disegnava il pentagramma su cui si vergava la memoria dei vivi” [pag. 227]. Attraverso alcune pratiche, come il parlare a voce alta ai defunti, si facevano esistere i morti e si legittimavano i vivi e il loro sforzo di costruzione e ricostruzione sociale.
Faeta ripercorre i cimiteri di oggi trovando le pratiche di un tempo profondamente cambiate: le cappelle familiari sono costruite secondo regolamenti, non mimano più la casa del defunto ma lo sono, essendo a tutti gli effetti delle piccole case. Si è passati dalla tomba come luogo di memoria, al monumento, oggetto che invece indirizza l’attenzione su se stesso come simbolo rappresentativo. L’insieme di atti spontanei presenti qualche decennio fa, ora sono inibiti a causa della soglia chiusa delle cappelle familiari, che permettono l’ingresso solo attraverso il possesso delle chiavi da parte di un parente. “ciò comporta la perdita della dimensione estesa e corale dell’attività commemorativa e la sua compressione in unità temporali di carattere eccezionale e ristretto” [pag. 230]. Non vi sono più simboli del viaggio in quanto lo statuto della morte è cambiato da l’idea di una navigazione a quella di una stabile e sicura residenza.
 “Da luoghi naturalizzati attraverso una pratica metafisica della relazione, i camposanti tendono a divenire spazi socializzati, al cui interno s’inscrivono relazioni civili” [pag. 232].
L’autore cita alcuni passi di Aleida Assmann riguardo la memoria culturale che ha il suo centro nella commemorazione dei morti, da questa affermazione Faeta si interroga sul cambiamento delle prime il conseguente mutamento delle seconde: “la commemorazione dei morti ha una dimensione religiosa e una laica, che è possibile identificare rispettivamente nella pietas e nella fama” [pag. 237] la prima è il dovere dei vivi di mantenere acceso il ricordo dei defunti per conservare stabili le relazioni che legano i due mondi, la seconda rappresenta il bisogno di garantire le condizioni di predominio di un gruppo sull’altro, di egemonia. Secondo l’autore le modificazioni della commemorazione calabrese hanno attenuato la pietas e enfatizzato la fama. “Il discorso funebre s’indirizza oggi sempre più alla comunità dei vivi e tende a celebrare, indirettamente, attraverso l’imponenza del monumento e la sua puntuale aderenza al modello della casa. (…) Occorre essere in prima persona, in quanto membri autorevoli e dominanti, sacerdoti di quella memoria. Bisogna piegare la prassi cattolica a un uso civile della memoria” [pag. 238].
Infine Faeta si sofferma sull’immagine del defunto, che “appare meno direttamente coinvolta nel regime cerimoniale di quanto non lo fosse in precedenza” [pag. 239].
In conclusione i mutamenti che si sono affermati  si manifestano mediante un nuovo atteggiamento culturale: “la riduzione della condizione parossistica del dolore, il suo controllo, la tendenziale eterificazione della condizione luttuosa” [pag. 240]. È, dunque, una memoria placata e con ciò permanente, custodita all’interno del monumento “sempre pronta a rimettere il defunto dentro le configurazioni molteplici e cangianti del gioco sociale” [pag. 240].

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