3 dicembre 2012

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Camera etnografica di Francesco Marano

Il proposito di questa mia breve relazione sul testo di Marano è quello di passare in rassegna i metodi d’uso di fotografia e film etnografico concentrandomi in particolare sul modo in cui i mezzi audiovisivi possano aiutare l’antropologo durante il lavoro di ricerca.

Capitolo 1. Realtà delle immagini

L’autore parte con un’analisi dettagliata sul fenomeno dell’ocularcentrismo: questo termine richiama l’importanza che è stata data fin dall’antichità al senso della vista.
Molti filosofi hanno descritto la vista come il senso supremo, quello più nobile.
Nel campo dell’antropologia, fino alle ricerche di Bronislav Malinowski, il ricercatore era perlopiù considerato “antropologo da tavolino” in quanto concentrato quasi esclusivamente sulla scrittura.
Da quel momento in poi invece il paradigma antropologico cambiò radicalmente e divenne necessaria l’esperienza di campo per fare ricerca; l’occhio cominciò così ad essere concepito come strumento di conoscenza .
L’avvento della fotografia segnò un momento importante per la ricerca antropologica in quanto contribuì a sottrarre “l’Altro” alla fantasia dei disegnatori e rese possibile la copresenza di ricercatore e nativo sul campo, senza il pericolo di quella che veniva vista come una contaminazione di quest’ultimo da parte della soggettività dell’antropologo.
Secondo il paradigma positivista, infatti, non bisognava “sporcare” la realtà, la quale andava mostrata così com’era, senza nessun tipo di modifica.
La fotografia venne quindi ritenuta utile ai fini d’attività di documentazione scientifica, il giudizio unanime fu quello che essa fosse una copia fedele della realtà: era riuscita, per la prima volta, ad estromettere dalle operazioni di rappresentazione l'intervento soggettivo dell'uomo.
L’uso della fotografia sposava perfettamente la prospettiva teorica del tempo, l’evoluzionismo, e la macchina fotografica divenne uno strumento di lavoro, che l’antropologo avrebbe tenuto nella valigia, proprio come all’epoca sarebbe potuto essere un craniometro.
La foto era un vero e proprio documento su cui fondare l’autorità del lavoro svolto dall’etnografo.
Dopo l’interesse iniziale, però, la documentazione visiva venne abbandonata per far spazio all’esperienza diretta dell’etnografo sul campo che osservava in prima persona i nativi.
Nel corso degli anni l’ocularcentrismo è stato così rafforzato anche a causa del progresso della tecnologia, che attraverso una molteplicità di strumenti riversa sull’individuo una sorta di pioggia di immagini, ma oggi molti autori criticano questa tendenza in quanto sottolineano come possa essere causa di una sorta di essenzializzazione e occultamento degli altri sensi.
A questo punto credo sia naturale chiedersi se film e fotografia possano soddisfare “nuove” esigenze, prima fra tutte quella di poter rappresentare i vari punti di vista che nascono dall’incontro tra etnografo e nativo, il “mondo terzo”.
Per fare ciò è necessario non vedere più nel documento una duplicazione della realtà, dato che un’immagine non è mai una copia dell’oggetto che appare bensì una costruzione.
Una costruzione dicevo, in quanto la cultura del fruitore, il contesto di produzione, il contesto di uso e il contesto di ricezione sono tutti elementi che contribuiscono a determinare il significato di una fotografia/film, significato che cambia e si costruisce a seconda delle circostanze.
In altri termini: una fotografia non è un dato ma un costrutto simbolico attraverso il quale il fotografo struttura il proprio mondo, in cui il processo di conoscenza nasce e si sviluppa attorno ad un’interazione fra l’osservatore e l’osservato e dove entrambi sono coinvolti in una situazione di reciprocità.
Occorre utilizzare i mezzi audiovisivi in modo consapevole, abbandonando la ricerca del “vero”, del “reale”, avvicinandosi invece all’antropologia postmoderna e accantonando l’epistemologia positivista che credeva possibile estrarre un pezzo della realtà per studiarlo in laboratorio.
Lasciando la parola all’autore: “Ogni tentativo di definire la qualità realistica di una foto o di un film finirà sempre per essere un’operazione storicamente e culturalmente condizionata” (Marano, 2007).

Capitolo 2. Fotografia ed etnografia

Proprio perché nella sua prima fase essa era ritenuta, come già accennato nel primo capitolo, una copia oggettiva della realtà, si ritenne che dalla fotografia si potessero ottenere dati importanti relativi al corpo umano come l'altezza, la lunghezza degli arti, il bacino.
Le immagini erano realizzate per confermare le teorie evoluzioniste e, attraverso la fotografia antropometrica, gli specialisti si garantivano importante materiale documentario su cui esercitare le dovute analisi.
In un primo momento le fotografie erano quindi oggetti da catalogare e sui quali studiare, insomma dei veri e propri strumenti di riproduzione.
La distanza tra osservatore e osservato e la parallela 'oggettivazione' del primitivo, che si percepisce anche nello stile dei primi documenti fotografici e cinematografici prodotti dall'etnografia, verrà abbandonata per un approccio che tenta invece di avvicinarsi il più possibile alla vita dei nativi seguendo l’innovazione teorica della “osservazione partecipante” di Malinowski.
Scopo della ricerca di Malinowski era “afferrare il punto di vista del nativo” soffermandosi su quei tratti, quei dettagli che sfuggono ad un’analisi superficiale ma che possono essere invece resi in una riproduzione fotografica.
La fotografia apre uno spazio per l’interazione con i nativi visto che grazie alle foto si può stimolare un informatore durante o prima di un’intervista (photo-elicitation), ma se è vero che anche in questo caso si rischia di cadere in una prospettiva oggettivista, diventa allora necessario tenere sempre a mente che anche quella dell’informatore sarà una visione, un significato, una prospettiva, ma mai Il significato, l’unico, quello vero.
La collaborazione con i nativi sarà quindi fondamentale per la negoziazione dei significati, ma non per la ricerca della verità, dato che dietro le immagini non ci sono fatti da estrarre, bensì solo significati da interpretare.
Come Malinowski, anche Bateson e Mead sostenevano che ci sono dettagli di una cultura che possono essere indagati solo attraverso la fotografia.
Quando parlano di dettagli i due autori si riferiscono al retroterra emotivo, ciò che Bateson definisce ethos.
La difficoltà ad analizzare questo aspetto culturale portò i due autori a ricorrere alla fotografia come metodo d’indagine.
Balinese character (1942) fu la prima etnografia basata interamente sullo studio di fotografie realizzate durante la ricerca sul campo a Bali dei due autori.
A partire da quel periodo si cominciò a fare uso della didascalia accanto all’immagine fotografica, evento che a mio avviso ci conduce a fare molteplici riflessioni.
La fotografia evidentemente non era più considerata un dato oggettivo se si sentiva il bisogno di “spiegarla”; e in effetti la fotografia non parla da sola, o per lo meno è polisemica.
Allora perché affidarsi ad una didascalia per riuscire a trovare il “vero” significato di una foto?
Il significato è stabilito di volta in volta dal bagaglio culturale che l’osservatore si porta dietro, l'obiettività dell'immagine è soltanto un'illusione. Le didascalie che la commentano possono mutarne radicalmente il significato che altrimenti l’osservatore sarebbe portato a darle, interpretano al posto del fruitore, “ancorando”, come direbbe Barthes, un significato alternativo.
La didascalia, l'abbinamento fra due o più immagini, più in generale il contesto nel quale l’immagine viene inserita e la “provenienza” dell’osservatore, ritengo possano condizionarne in modo decisivo la lettura.
Il “Vedere”, pur essendo un procedimento di natura fisiologica, non è estraneo ad influenze di carattere culturale.
Uno dei compiti dell'antropologia visuale è allora capire quali fattori di natura culturale possano incidere sulla decodifica delle immagini.
Il percorso che stiamo compiendo ci porta a questo punto ad un livello ancora successivo: come sottolinea Marano, occorre adesso soffermarci sulla questione della materialità delle immagini, i vari significati che le foto acquisiscono infatti sono spesso anche condizionati dalla loro “mobilità”.
Una volta stampata, una fotografia è un oggetto che può essere scambiato, regalato, esposto e «se allontaniamo il focus metodologico dal solo contenuto, possiamo notare che non è solo l'immagine in quanto immagine ad esser il luogo del significato, ma che sono le sue forme materiali e presentazionali e gli utilizzi ai quali sono soggette ad avere una funzione centrale per la fotografia in quanto oggetto socialmente saliente. […] L’oggetto non può essere pienamente conosciuto in un singolo momento della sua esistenza, ma deve essere compreso in quanto incluso in un processo continuo di produzione, scambio, uso e attribuzione di significato. Gli oggetti sono implicati in relazioni sociali, non sono entità meramente passive in questi processi». (Edwards & Hart, 2004).
Il significato dell’immagine non è quindi solo nel contenuto ma anche nella sua materialità (forma, materiale ecc).

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