11 marzo 2011

Potenzialità e risorse mezzi audio - visivi

Potenzialità e risorse nell’utilizzo dei mezzi audio – visivi (tratto da MacDougall D., Transcultural cinema, Princeton University Press, N.J., 1998):
- Nel video è possibile dare spazio alla molteplicità delle voci che compongono il tema /contesto ad oggetto. Dialettica tra definizioni endogene ed esogene / dialettica sé altro. Non c’è un sé sostanziale assoluto quanto non esiste un’alterità sostanziale ed assoluta = sé ed altro sono frammentari, parziali e mutuamente costitutivi
- Passaggio che va dalla percezione alla produzione delle rappresentazioni : il come dell’articolazione significante del sé e dell’altro e sua dimensione intersoggettiva
- Dalla trx alla produzione di significato
- Esplorare la percezione, l’esperienza e il vissuto attraverso la sua iscrizione nei corpi, gesti, sguardi.
- Opacità e ambiguità del visivo come risorse e non come deficienze da correggere con la prosa.
- Riflessività e risonanza
- Conoscenza prodotta attraverso l’esperienza etnografica: come viene vissuta da chi la incorpora e la ricrea nel tessuto dell’esperienza (Sapir,49 : a more intimate structure of culture)
- Memoria, emozioni, sensi, la costruzione del sé + la trx ed elaborazione creativa della cultura.
- Ruolo performativo nella conoscenza di tipo antropologico / attenzione alle relazioni + sviluppo progressivo della conoscenza – processo di conoscenza che emerge attraverso lo stesso processo di produzione filmica.
- Evocation ( Tyler) – produzione di comprensione più che dell’oggetto in sé. Evocazione di una conoscenza incorporata. Il sapere antropologico non solo come risultato di una riflessione sull’esperienza ma come riflessione che include l’esperienza. L’esperienza è in parte la conoscenza che non può sopravvivere al processo di traduzione: è relazione più che un oggetto in sé. I significati risiedono nella performance: dominio immediato dell’azione. ( body praxis)
- Il film può attuare come antropologia performativa mettendo in scena il carattere relazionale della conoscenza antropologica – processo di
- Raggiungere direttamente l’esperienza emozionale e corporea. Knowledge by acquaitance ( fare la conoscenza di )
- Politiche culturali: costruzione di rappresentazioni alternative/critiche

5 commenti:

  1. Rileggendo queste indicazioni mi sono resa conto di aver sottovalutato il nostro ruolo in questo lavoro. Prima cosa: poter osservare è di per sé pedagogico ma lo è ancora di più se penso che ho diretto accesso a quell'esperienza attraverso il video. E' un po' come avere due vissuti (fisico e visivo) con due note di campo, forse a volte leggermente diverse. Avere dei mezzi multimediali inevitabilmente modifica e amplifica la concezione del tempo. Il montaggio è una parte interessante perché ci fa entrare a contatto con "tempi" molto diversi da quelli della scrittura. Si può tornare indietro per osservare ogni piccolo particolare che ci era sfuggito e allo stesso tempo vivere in modo più spiazzante l'idea di un "presente da tempo passato". Questa sensazione mi ha colpito l'altra volta durante il montaggio. Come viene detto sopra si lavora con l'ESPERIENZA per moolto tempo prima di arrivare alla rappresentazione.
    Condividere le "bozze" di lavoro per me è molto intimo perché permette di veder nascere e cambiare il mondo terzo dentro al quale poi si svilupperanno le azioni che porteranno al prodotto concluso. E' molto bello, grazie.

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  2. THE FUTURE OF VISUAL ANTROPHOPOLOGhY
    SARAH PINK

    Buongiorno a tutti,
    vorrei postare qualche mia riflessione sulle potenzialità dei mezzi audio-visivi, dopo aver letto il saggio di Sarah Pink “The future of Visual antrophology – engaging the senses”.
    Vorrei partire riprendendo il concetto suddetto di “evocation” di Tyler, per il quale il sapere antropologico non è semplicemente il prodotto finale di una riflessione sull’esperienza, ma la incorpora.

    Cos’è “l’esperienza” nell’analisi della Pink e cosa rappresenta per l’antropologia visiva contemporanea, tenendo a mente il presupposto sovracitato secondo il quale non è possibile duplicare l’esperienza di un altro?

    Sarah Pink afferma che i video da soli non potranno mai rappresentare la complessità dell’esperienza sensoriale umana, né potrà farlo la scrittura.
    Si tratta di quel “untranslatable”, ovvero di tutto ciò che è impossibile converire in descrizioni etnografiche, di cui parlava Howes in “Olfaction and Transiction”, dovuto alla mancanza non soltanto di codici, ma soprattutto di tecniche necessarie per farlo.
    “Gli antropologi non sanno come comunicare le cose che noi vogliamo comunicare attraverso profumi, sapori o textures (…): così che lo spruzzare profumi o fornire assaggi di cibi dovrebbero comunque essere accompagnati da un testo scritto o parlato” (p. 58)

    La Pink suggerisce come unica via percorribile per sopperire a queste mancanze la ricerca di soluzioni in cui testo e video possano essere abbinati per rappresentare al meglio l’esperienza sensoriale sia a livello teorico che etnografico. “Mac Dougall è stato il propositore principale di un approccio che incorporasse i sensi nella realizzazione di docmentari etnografici “ (p. 49). Alla fine del XX. Sec, grazie ai lavori innovativi di Mac Dougall e Rouch l’antropologia visiva ha potuto liberarsi di quel paradigma scientifico in cui si trovava imprigionata per produrre lavori soggettivi, e riflessivi lontani dalla corrente scritta dell’antropologia accademica.

    A questo proposito dedica tutto il quarto capitolo del suo libro all “sensory home”: un progetto commissionatole da Unilever nel 1991, in base al quale l’antropologa andava a descrivere gli stili di vita dei soggetti intervistati (circa quaranta uomini e donne inglesi e spagnoli) partendo dalle loro abitazioni. Si trattava cioè di decodificare l’habitat: analizzare le strategie sensoriali utilizzate dai diversi soggetti per creare un loro senso di spazio e di identità, utilizzando colori, suoni, immagini, profumi, ecc. (cfr. immagini del progetto pgg. 116-117)
    La casa rappresenta infatti il dominio dei sensi per eccellenza e un’indagine puramente visiva sarebbe assolutamente inadeguata nel rappresentarla. Così come inadeguate risultano secondo la Pink le ricerche che privilegiano il visivo per sturiare culture non occidentali o culture occidentali moderne. “In my videotapes, vision and speech were the main intentional and conscious modes for communication, yet they were used in relation to other sensory categories and metaphors they used and why” (p. 61).

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  3. La premessa teorica da cui parte l’autrice nasce dalla consapevolezza che tutti e quattro i temi affrontati in “The Future of Visual Antropologhy” sono inevitabilmente connessi (interconnected):

    1. il contesto interdisciplinare:
    l’uso dei metodi visivi (garantire un futuro per le discipline minori (subdisciplines) è possibile soltanto grazie ad un dibattito e ad uno scambio continuo e proficuo tra i contributi apportati sia da singoli individui che da gruppi che lavorano con metodi e strumenti differenti ). “Io sono per un approccio interdisciplinare più collaborativo verso la ricerca visiva in cui le diverse discipline possano apprendere una dall’altra senza che nessuna cerchi di asserire la propria supremazia a spese dell’altre”. (p.22).
    Tutti i metodi visivi emergenti, utilizzati da discipline diverse, hanno gli stessi interessi per la riflessività (intesa come stile che la Pink riprende da Rose e Mac Dougalls cfr. p. 32), la collaborazione, l’etica e le relazioni tra contenuto, contesto ed empiricità (materiality) delle immagini utilizzate. Ciò nonostante essi divergono nelle definizioni e nell’utilizzo di esse per raggiungere un determinato scopo disciplinare.

    2. la teoria antropologica:
    che accolga le implicazioni delle esperienze sensoriali per l’antropologia visiva: “occorre creare un’antropologia visiva che non difenda più semplicemente se stessa contro la corrente (mainstream), ma che risponda agli sviluppi della teoria antropologica che a loro volta possono modificare in qualche modo l’antropologia visiva stessa”: (p. 19).

    3. le applicazioni di una teoria antropologica sia all’interno che al di fuori dell’ambiente accademico:
    Nel passato gli accademici sono sempre stati piuttosto scettici sulle possibili applicazioni dell’antropologia, mentre attualmente i contributi dell’antropologia al di fuori dell’uso accademico stanno diventando sempre più popolari nel settore pubblico, industriale e presso le ONG. Non soltanto perché queste creano esperienze, ma soprattutto poiché aprono alla possibilità ad un intervento sociale, mettendo in evidenza la responsabilità sociale gell’antropologia nel contesto interdisciplinare delle scienze sociali.

    4. i media digitali e lo sviluppo di un’antropolgia ipermediatica.
    Credo che questo ultimo punto (a cui dedico il post successivo) sia particolarmente interessante poiché entra nel dettaglio su quelli che sono e dineteranno sempre più gli scenari possibili per il futuro dell’antropologia visiva, o più correttamente sensoriale.

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  4. “Hypermedia, writing and film: bridging the gap” : così la Pink intitola un paragrafo del suo testo. Saltare l’ostacolo: creare un ponte tra pratica e teoria attraverso l’individuo. È quello che l’autrice si propone di fare nel suo studio “Women’s world” , nel quale cerca di creare un testo che unisca la teoria all’esperienza, alternando l’esperienza sensoriale quotidiana di alcune donne con discussioni più astratte. L’individuo in questo caso è il link indispensabile tra i due mondi. “I have made the individual a welcome component, a necessary part of the relationship between research and representation and a means of creating links between fieldwork an theory”.
    In questo modo la teoria viene ancorata a quell’espeirenza da cui essa parte e che cerca di spiegare, in una sorta di circolo ermeneutico gadameriano.
    La stessa impostazione metodologica viene utilizzata nel documentario “Mujeres Invisibles”, (cfr. pgg. 97-100).

    Sia Taylor che Mac Dougall sostengono che i video possano comunicare in maniera sinestetica.
    Su questa idea di sinestesia Pink basa tutta l’analisi di “Cultures in Webs”, un documentario tripartito realizzato da Rod Coover che a detta di Taylor stesso anticipa l’antropologia interattiva sensoriale del fututo. (cfr. pgg. 120-125).

    Resta il fatto che l’ipermedia da solo nonostante unisca immagini, testi e suoni, non è sufficiente a produrre un’antropologia visiva davvero sinestetica, ovvero in grado di coinvolgere le relazioni tra i sensi. Secondo la Pink per comunicare le sensazioni di altri individui occorre:
    - un coinvolgimento profondo delle epistemologie culturali in grado di chiarire come sia stata costruita l’esperienza.
    - un utilizzo di media diversi per esplorare e rappresentare aspetti diversi dell’esperienza.

    Puntando l’obiettivo sull’individuo questo tipo di antropologia può svelare le uguaglianze transculturali, come suggeriva Mac Dougall. In questo senso nel capitolo finale la Pink suggerisce che l’ipermedia rappresenti uno strumento attraverso il quale l’antropologia visiva vega inclusa entro un’antropologia comparativa rinnovata nei fondamenti, grazie alla sua capacità di comunicare in modi diversi ad audences diversi.
    Si tratta di una comparazione lontana da quella osteggiata da MacDougall e Taylor: una comparazione che per l’antropologia contemporanea non riguarda più oggetti, ma contesti, costruiti sia da antropologi che da informatori, e si tratta di una comparazione non più circoscritta a località definite, ma muti-situata.

    Ciò che inizialmente era visto come un ostacolo allo scambio si rivela alla fine come opportunità al dibattito.

    Mentre Taylor era contrario all’antropologia scritta e a favore dei soli video etnografici – che per lui equivalgono alla “vita” - per la Pink l’ipermedia non sostituisce video e libri, ma crea un legame più forte con la scrittura e ricolloca il video all’interno dell’antropologia. Come voleva l’autrice “this book calls for a review of the place of the visual in anthropology” , arrvivando a ridefinire l’antropologia visiva non semplicemente come l’antropologia della vista, ma come l’antropologia delle relazioni tra il vedere e gli altri elementi della cultura, della società, delle pratiche e delle esperienze e come la pratica metodologica che unisce il visivo ad altri media nella produzione e rappresentazione di conoscenza antropologica.

    Di nuovo emerge l’esperienza come relazione che sopravvive all’impossibilità di una duplicazione dell’oggetto-esperienza e alla sua traduzione.

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