7 dicembre 2012

Camera Etnografica (2007) di Francesco Marano

Capitolo 4. Osservare e documentare

In questo capitolo sono presentate diverse rappresentazioni cinematografiche associate all’antropologia: dai primi film etnografici ad un “direct cinema” - film etnografico di pura osservazione - sino ad un cinéma vérité partecipativo. Si analizzano in particolare i cambiamenti di metodo e le questioni riguardanti la relazione tra regista/antropologo e i soggetti rappresentati.
Le origini del film etnografico si possono collocare alla fine del XIX secolo quando i primi strumenti di registrazione vennero impiegati nell’ambito di attività scientifiche per documentare alcune qualità culturali di popolazioni esotiche.
Felix-Louis Regnault, studioso francese, registrò nel 1895 alcune pratiche della tribù africana dei Wolof. Girata proprio in quella occasione, la sequenza di una donna wolof che costruisce un vaso viene generalmente identificata come il primo caso di film con valore etnografico.
Ma solo tre anni dopo, nel 1898, Alfred C. Haddon, durante la sua spedizione antropologica presso lo stretto di Torres, si doterà di macchina fotografica e macchina da presa per impiegarle come strumenti di studio. Da allora molti seguirono il suo esempio, tra questi l’austriaco Rudolf Poch presso i Boscimani e l’inglese Baldwin Spencer nelle sue ricerche sul campo in Australia.
Questi studiosi - ci muoviamo in un quadro epistemologico di stampo positivistico -
avevano completa fiducia nelle capacità della tecnologia, pensavano di poter catturare gli eventi senza mediazioni, perseguendo il loro scopo di rappresentare in modo scientifico la realtà.
L’intervento umano del filmmaker era considerato un elemento di disturbo, capace di “sporcare” il materiale filmato, e andava quindi limitato per lasciare alla macchina da presa il compito di riprendere in maniera “neutra”.
Il film non era inteso come una rappresentazione della realtà basata su procedimenti interpretativi, ma come una finestra sul mondo, dove la presenza dei dati permettesse di sostituire la realtà vissuta in prima persona dallo studioso. Il dato prodotto appariva ovvio ed indiscutibile.
Il lavoro di questi pionieri era inoltre guidato da quella che possiamo identificare come antropologia di salvataggio; questa impostazione di ricerca ha portato alla raccolta di materiali riguardanti diverse popolazioni indigene di cui si temeva la scomparsa a causa dell’avanzare del progresso.
Era necessario quindi un progetto per salvare delle tradizioni inevitabilmente destinate alla scomparsa.
Gli strumenti cinematografici e quelli fotografici apparvero efficaci per raggiungere uno scopo di questo tipo.
Spesso si decideva anche di “ricostruire” le azioni dei nativi davanti alla cinepresa per favorire la chiarezza visiva di ogni dettaglio e di ogni “attore”.
In questo primo periodo quindi la macchina da presa era usata come in laboratorio è usato un microscopio, per analizzare cioè la registrazione filmica considerata assolutamente imparziale e per comparare dati oggettivi provenienti da popolazioni diverse. 
Nel primo ventennio del XX secolo furono registi con uno sguardo più artistico che scientifico come Flaherty a cambiare il panorama inaugurando uno stile partecipativo.
Egli riuscì a tradurre in termini cinematografici il metodo dell’ “osservazione partecipante”, teorizzato nel 1922 da Malinowski. Come Malinowski nelle isole Trobriand, anche Flaherty visse per un lungo periodo tra gli Inuit ai quali, prima delle riprese del suo film, Nanook of the North (1921), il filmmaker spiegò quale fosse il suo progetto e dei quali ascoltò i suggerimenti. Nonostante questo riuscì a descrivere i nativi come se fossero osservati a distanza.
Flaherty avviò una tradizione di filmmaking partecipativo che è poi continuata con i film di Jean Rouch che come lui credeva nel potere che ha la macchina da presa di vedere, al di là delle possibilità dell’occhio umano, le qualità degli esseri e delle cose.
Altro concetto chiave del pensiero di Flaherty è quello di “non-preconcezione”, cioè lo sforzo che l’antropologo deve compiere per riuscire a non pre-interpretare ciò che osserva, tenendo sempre ben presente come solo senza preconcetti si possa cominciare a fare un tipo di ricerca veritiera.
Questo atteggiamento di sospensione di giudizio personale e di distanza dall’oggetto, tra l’altro condiviso da Malinowski, a mio avviso avvicina Flaherty al paradigma positivista del tempo.
I lavori di Malinowski e quelli di Flaherty sono aperti al punto di vista del nativo solo in apparenza ma in realtà sono soprattutto una presentazione del punto di vista dell’antropologo: è come se gli elementi del mondo reale, anche grazie alla ricostruzione di cui Flaherty faceva gran uso, vengano usati, e considerati come materiali grezzi da manipolare.
Il primo progetto che riuscì a coniugare competenze antropologiche professionali con un utilizzo consapevole del mezzo cinematografico si deve, come abbiamo già visto, a Margaret Mead e a Gregory Bateson che nel corso degli anni trenta filmarono e fotografarono gli Iatmul a Bali durante la loro ricerca tesa a mostrare, grazie all'ausilio delle immagini, i tratti fondamentali del carattere e dell’ethos dei Balinesi.
Negli anni Cinquanta importanti innovazioni tecnologiche influenzarono le metodologie di registrazione, le macchine da presa diventate sempre più piccole e maneggevoli facilitarono l’avvicinamento tra filmmaker e soggetti filmati e l’avvento del sonoro sincrono rese possibile la registrazione in presa diretta dei suoni, dei dialoghi, delle musiche, aumentando l'effetto di realtà ottenuto dai film.
In Francia, negli Stati Uniti e in Canada sorsero scuole documentariste sensibili a questi cambiamenti, uno di questi approcci aveva come scopo catturare la realtà simulando l’assenza del filmmaker e omettendo le relazioni, inevitabili, tra questi e i soggetti ripresi.
Il processo di osservazione era considerato centrale, si ricercava un’autenticità totale, si osservava come se si fosse presenti ad un evento ma senza essere visti (come se il regista fosse una “mosca sul muro”).
Questa modalità di ripresa genera una serie di questioni, come ad esempio: quanto di quello che si vede sarebbe davvero successo se non ci fosse stato il regista? O ancora, cosa sarebbe cambiato se la sua presenza fosse stata più accentuata?
Questo tipo di approccio, chiamato “cinema diretto” termine proposto da Ruspoli o “cinéma vérité”, si è sviluppato anche in altro modo, le macchine da presa sempre più piccole non sono state usate per occultare la presenza del regista bensì hanno permesso a quest’ultimo di diventare un tutt’uno con le apparecchiature.
Il filmmaker non finge di non esserci, non si fa mosca, tutt’altro, diventa una presenza palpabile che provoca riconfigurazioni continue della realtà; la situazione è alterata dalla sua presenza.
Rondolino puntualizza che: «tra i vari modi di praticare il cinéma vérité c'è anche quello di usare la cinecamera come 'agente provocatore', come stimolatore di reazioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione. In questo caso, la realtà e la sua 'verità' nascono dal cinema, sono il frutto del suo intervento diretto».
Questa prospettiva critica privilegia ciò che accade nell'interazione reciproca tra la macchina da presa al lavoro e una data situazione che sta per essere ripresa.
Questo è un esempio evidente di come gli stessi sviluppi tecnologici possano portare a cambiamenti metodologici estremamente diversi.
A partire dagli anni sessanta si sviluppò in nord America un tipo di documentario, conosciuto come  “cinema di osservazione”, che riprese modalità di rappresentazione usate dal cinema diretto, in particolare nell’attenzione verso i dettagli, i gesti, la quotidianità dei soggetti ripresi.
Questo tipo di film ricorre a pratiche osservazionali, evitando l’intervento del regista/antropologo che cerca di rimanere in una posizione defilata senza venire coinvolto nelle azioni da registrare.
L’idea al centro di tale approccio è la possibilità di realizzare un documentario evitando gerarchie tradizionali che pongano l’autore in una posizione privilegiata per raccontare la realtà: il film diventa appannaggio dei soggetti ripresi e dello spettatore.
Viene lasciato spazio ai soggetti ripresi rispettando i loro tempi e il regista seleziona gli eventi per lui importanti ma non guida più la comprensione dello spettatore.
Spesso però i ritratti prodotti da questo cinema non sono, al contrario di quello che si crede, freddi e distaccati, nonostante i loro intenti in genere perseguano una rappresentazione oggettiva e neutra della realtà.
Young sostiene nel suo saggio “Observational Cinema”, come lo scopo di tali documentari sia riprendere il “comportamento normale” delle persone nelle circostanze che comprendono anche la presenza della cinepresa e gli effetti che questa può avere sugli eventi.
Il film di osservazione nei principi enunciati da Young non segue quindi l’etica del  metodo cosiddetto “fly on the wall”: non tenta di ottenere un’utopica descrizione oggettiva della realtà, come sarebbe esistita anche in assenza del filmmaker. Si mira invece ad una rappresentazione più rispettosa degli eventi, dove siano evitate la retorica e la cornice interpretativa adottate da molte forme filmiche tradizionali.
Su questo argomento interviene anche MacDougall il quale sostiene che sia necessario andare al di là della mera osservazione, altrimenti si finirebbe per accettare di “vedere” solo ciò che i soggetti mostrano in apparenza senza poter comprendere ciò che essi ritengono implicito nelle loro pratiche.
MacDougall ritiene che la presenza del regista con la macchina da presa inevitabilmente inneschi dei comportamenti dei nativi influenzati da un evento stra-ordinario e che nessun film etnografico quindi possa essere solo registrazione di modi di vita di una popolazione bensì sia invece sempre una registrazione di un incontro tra due culture. Ciò che bisogna praticare è, allora, un cinema di interazione.
E’ importante definire questo, cinema di interazione e non di partecipazione, per non confonderlo con quello di autori come Jean Rouch.
Scrive infatti MacDougall: «dando accesso nel film ai suoi soggetti, il filmmaker  riesce a raccogliere un numero di informazioni e di chiarimenti maggiori sulla loro vita». Questa affermazione ci fa capire come in realtà MacDougall ritenga più importanti le informazioni e le tesi che il regista vuole dimostrare rispetto alla partecipazione dei soggetti che filma, con i quali il regista stesso non stringe relazioni.
Diventa necessario quindi distinguere questo tipo di atteggiamento da quello veramente partecipativo: sicuramente MacDougall interagisce con i soggetti filmati ma non collabora veramente con loro, l’interazione è solo un modo per avere più informazioni possibili e per ottimizzare l’osservazione.
Da questo approccio nasce l’uso di riprese lunghe, il filmmaker infatti spesso sta a guardare, aspettando che accada qualcosa, in disparte; a differenza di quanto farebbe invece Rouch, non collabora, si limita a contemplare.
L’autore stesso dichiara di appartenere al gruppo di filmmaker, corrente anglosassone, che predilige l’annullamento totale dell’osservatore dal quadro del contesto del film, mentre, al contrario, Rouch e i suoi seguaci adottano un atteggiamento interattivo con i soggetti ripresi.
Un tale metodo lascia il film all’interpretazione dello spettatore che non è influenzato da rigide indicazioni del filmmaker .
Praticare quello che può essere chiamato cinema di contemplazione non ha impedito a MacDougall di creare etnografie complesse e dense, al contrario , «Mac Dougall è stato il propositore principale di un approccio che incorporasse i sensi nella realizzazione di documentari etnografici» (Pink, 2006).
L’autore è convinto che il film etnografico possa rappresentare meglio della scrittura le esperienze sensoriali.
Credo che effettivamente il film sia lo strumento più giusto per restituire la sensorialità, per restituire quello che Sarah Pink chiama “untraslatable”, cioè quello che non si può “tradurre” in descrizioni scritte: «il film offre un modo alternativo di rappresentare l’esperienza sensoriale e le qualità di intersoggettività fra l’osservatore e l’attore sociale» (Pink, 2006).
Ma la capacità di un film di rappresentare la dimensione sensoriale è una conseguenza della qualità della relazione umana che si è venuta a creare fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del documento.
Fra filmmaker e soggetti ripresi, il dialogo, quindi, oltre alla condivisione sensoriale, rimane centrale.
A mio avviso è qui che si può muovere la critica più importante a MacDougall: l’autore, non conoscendo la lingua utilizzata dai soggetti ripresi, non ha mai potuto immergersi realmente nella loro realtà, non ha mai potuto dialogare con l’Altro e la mancanza di questa empatia credo possa portare alla realizzazione di lavori non sufficientemente profondi.

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