1.Realtà delle
immagini
1. Ocularcentrismo
si evidenzia come il vedere sia
metafora del conoscere e del comprendere.
Si parla di “civiltà delle immagini”
come di un’epoca inaugurata dall’invenzione della fotografia e
del film.
Fotografia inventata da Daguerre e
presentata da François Arago dell’Accademia delle Scienze di
Parigi il 19 gennaio 1839.
In realtà l’umanità ha sempre
vissuto in un mondo di immagini (riferimento a diverse epoche
storiche e stili visivi).
Non si deve cercare nel corso della
storia epoche in cui un organo sensoriale è stato predominante
rispetto ad altri ma analizzare come l’esperienza si configuri e si
a trasmessa in diversi contesti culturali e comunicativi.
Nella civiltà delle immagini sembra
che le icone dominino il mondo; in realtà non esiste immagine del
mediascape 1che
non sia accompagnata da parole scritte e suoni. Per questo si
dovrebbe qualificare come audiovisuale la nostra antropologia al
posto di definirla in modo riduttivo visuale.
L’occhio come strumento di conoscenza
è entrato negli studi antropologici.
Francis Affergan: “L’etno-antropologia
inaugura la sua pratica e convalida le proprie ipotisi tramite la
vista. Senza tecnica di osservazione, senza strategia dell’occhio,
senza prammatica della facoltà visiva, l’altro non può comparire
né divenire oggetto di conoscenza. La conoscenza etno-antropologica,
e tutto il XVI secolo ne rende testimonianza, è, per essenza, basata
sulla vista” (Affergan, 1991, p.125)
“Osservare è scegliere,
classificare, è isolare in funzione della teoria”, quindi la
descrizione non è una trascrizione della realtà in scrittura ma una
pratica creativa regolata da una teoria che la governa. L’avvento
della fotografia, con il realismo dell’immagine, sottrae l’indigeno
alla fantasia di quei disegnatori che lo avevano ritratto all’interno
di esotici paradisi dove viveva come “buon selvaggio” nello
“stato di natura” // “l’uomo artificiale” occidentale. La
fotografia antropometrica diventa la fotografia scientifica per
eccellenza con oggetto il corpo umano; la cultura materiale, la vita
quotidiana e l’ambiente naturale vengono messi fuori campo e
rimossi oppure inseriti in foto “artistiche”.
Fabian parla di orientamento al
visualismo come la tendenza ad utilizzare mappe,diagrammi ed
elenchi per visualizzare una cultura o società e così comprenderla.
La vista insieme alla geometria – concettualizzazione
grafico-spaziale – diventano il modo più “esatto” di
comunicare il sapere, evitando la soggettività dell’esperienza e
l’illusorietà dei sensi. L’autore sottolinea, implicitamente, la
tensione tra la sensorialità dell’approccio visuale-partecipativo
tipico dei racconti di viaggio e la necessità di scremare la visione
di quanto di personale ed emozionale per rappresentare secondo una
logica scientifica connotata da esigenze “geometriche”
(classificatorie).
La tendenza ocularcentrica è in genere
associata al positivismo, movimento filosofico che nella versione di
Auguste Comte riconosce allo stadio positivo (terzo stadio
dell’umanità dopo quello metafisico e quello teologico)
il primato della scienza e la necessità per la ricerca sociologica
di utilizzare i metodi delle scienze naturali per descrivere come
accadono i fenomeni non il perché.
La ricerca del perché si svolge a
distanza nel tempo e nello spazio;
1
Con mediascape Arjun Appadurai ha definito il flusso di
immagini provenienti dai media e circolanti in tutto il mondo: “i
mediorami si riferiscono sia alla distribuzione delle
capacità elettroniche di produrre e diffondere informazioni
(giornali,riviste, stazioni televisive e studi di produzione
cinematografica) sia alle immagini del mondo create da questi media.
La descrizione del come necessita
un’osservazione sul campo; ne consegue un contatto tra osservatore
e fenomeno, quindi una contaminazione da parte del soggetto
osservante, contaminazione che viene meno garantendo una “distanza”
garantita grazie all’uso di strumenti di osservazione come la
macchina fotografica.
Questa distinzione tra osservazione (x
cui si può osservare “oggettivamente”) e spiegazione (descrivere
ciò che si osserva) è stata messa in discussione dal principio di
Heisenberg, secondo cui l’osservazione modifica i fenomeni
osservati. Osservare è in qualche modo già interpretare.
L’applicazione di questo principio
di indeterminazione al campo della fotografia e del film ci porta
a concludere che il comportamento dell’osservato è sempre e
inevitabilmente modificato da quello dell’osservatore. Mac Dougall
scrive: “nessun film etnografico può essere solo una registrazione
dei modi di vita di una popolazione, ma invece è sempre la
registrazione di un incontro tra due culture.” (Mac Dougall, 1990,
p.94). Ciò che osserviamo e filmiamo è un sistema relazionale
composto da noi e gli altri, nel quale ogni informazione è frutto di
un dialogo tra i due protagonisti (informatore nativo e etnografo) e
il risultato è una comprensione intersoggettiva e una reciproca
trasformazione.
All’epoca del positivismo la
fotografia permise l’analisi in laboratorio sul tavolino
dell’antropologo fino a quando il laboratorio non venne trasferito
sul campo – 1898 spedizione allo Stretto di Torres promossa e
diretta da Alfred C.Haddon.
La scopofilia – desiderio di
vedere – non era però soddisfatta. Nasce il desiderio di poter
veder di persona come vivevano i popoli “esotici” e “primitivi”,
recidendo nel villaggio e condividendo, per quanto possibile, la loro
vita sociale. A questo punto accade un rilevante mutamento
epistemologico: l’autorità del laboratorio e del documento vengono
messi da parte e sostituiti dall’autorità dell’esperienza
diretta dell’etnografo che osservava la vita degli altri; il
documento, sia pure prodotto secondo il canone scientifico
positivista, non garantiva più, da solo, la veridicità e
l’autenticità di ciò che rappresentava. L’iconofobia
degli antropologi riguardava solo la fotografia e i film, dal momento
che il visualismo si perpetuò attraverso la passione per gli schemi
di parentela e le tabulazioni classificatorie, esercizi praticati
rispettivamente dallo strutturalfunzionalismo e dallo strutturalismo
francese, entrambi interessati alle strutture profonde, non visibili,
della cultura. I “fatti sociali” non erano “un oggetto adatto
alla fotografia” e con l’emergere dell’antropologia britannica
si manifestò un disinteresse per la cultura materiale. Questioni
relative alla parentela e al linguaggio hanno trovato nella scrittura
una più agevole forma di descrizione e interpretazione, determinando
implicitamente in tal modo l’esistenza di culture “più
filmabili” di altre.
Dopo l’iniziale interesse dei
pionieri dell’antropologia
sia nel contesto dell’evoluzionismo –
di cui l’antropologia d’urgenza – salvage anthropology – è
figlia e in cui si collocano le fotografie frontali e di profilo
scattate da Anthony Wilkin durante la spedizione allo Stretto di
Torres –
che dell’organizzazione tribale dei
dati (Boas)
la documentazione visiva delle culture
viene abbandonata e bisognerà attendere tre decenni circa perché
fotografia e film ritrovino un ruolo nella ricerca antropologica come
strumenti di documentazione. Ciò avverrà dove gli schematismi
strutturalfunzionalisti erano più deboli, vale a dire
nell’antropologia americana della scuola di cultura e personalità,
interessata allo studio del comportamento visibile. (cap.4)
Più di recente l’orientamento
visualista – il predominio dell’occhio e della percezione visiva
come strumento e processo di indagine e rappresentazione - è stato
oggetto di critica da parte di studiosi che hanno messo in rilievo il
ruolo culturale degli altri sensi disponibili nel corpo umano.
Alessandro Gusman ricorda che il
visualismo ha origini antiche (Aristotele nella Metafisica attribuiva
maggior valore alla percezione del mondo attraverso la vista) e che
la civiltà dell’immagine è cominciata con l’invenzione della
stampa a caratteri mobili e della prospettiva.
Tuttavia il visualismo non è
universale; vi sono culture centrate su altri sensi, per es. i Kaluli
della Nuova Giunea, e la stessa civiltà occidentale ha avuto periodi
in cui sono stati predominanti altri sensi: nel ‘700 in Inghilterra
si diffuse espressione “persona di gusto”, in Francia si sviluppò
interesse per l’odorato dal punto di vista dell’igiene, della
fisiologia e della profumeria.
L’antropologia dei sensi si propone
di rigettare ogni modello universalistico, esaminando gli ordini
sensoriali propri di culture particolari senza incappare nell’errore
di “naturalizzare” uno di questi modelli. Marazzi precisa “è
da una attenzione olistica agli aspetti sensoriali della vita umana
che meglio può emergere la consapevolezza della fisicità umana e
della sua interazione con la dimensione culturale, dal cui insieme
scaturisce la condizione antropologica.”
2. Iconismo
Gli strumenti audiovisivi
caratterizzati da un rapporto di somiglianza morfologica
(isomorfismo) tra l’immagine e il suo referente hanno rafforzato la
concezione del documento come duplicazione della realtà, peculiare
del positivismo.
Gianfranco Bettetini in un suo saggio
del 1975 ha discusso la problematica del realismo cinematografico in
relazione alla questione dell’iconismo inteso come
specificità semiotica del linguaggio delle immagini.
Da sempre c’è un dualismo in ogni
dibattito sui problemi della rappresentazione scientifica:
realismo // idealismo
conoscenza proveniente dalle qualità
essenziali dell’oggetto // conoscenza fondata sull’attività
interpretata del soggetto
la prima forma di conoscenza, quella
realistica, è sempre mediata da una forma di comunicazione, da un
discorso e alla fine la rappresentazione risulta essere una
costruzione dell’oggetto, non una sua duplicazione. Tuttavia nei
linguaggi visivi il realismo sembra un carattere “naturale” della
rappresentazione e il soggetto sembra non avere potere dato che la
conoscenza sembra procedere in tutto e per tutto dall’oggetto.
Bettetini scrive: “L’apparente
difetto di un’astrazione “costruttiva” nella formazione del
segno iconico ha fatto sì che il suo rapporto con la realtà fosse
inteso come scontato e implicito, come totalizzante e diretto; ha
fatto sì che i linguaggi strutturati attorno a forme in qualche
modo “simili” alla realtà fossero ritenuti come rivelatori di
una presenza, anziché come significanti attraverso rinvii costruiti
a livelli diversi.” (Bettetini, 1975, p.114)
L’autore nega che la fotografia sia
un segno di tipo indicale, che abbia cioè una relazione di
compresenza con il referente; “non rinvia all’oggetto
rappresentato, ma eventualmente alla sua forma significante, alle
modalità tecniche della sua produzione…” “il segno iconico non
riproduce degli oggetti ma delle loro proprietà, delle loro marche
semantiche”. In altre parole, nonostante l’impressione di
presenza dell’oggetto rappresentato, la somiglianza è il prodotto
della competenza visiva acquisita dallo spettatore in determinate
condizioni storiche più che essere una caratteristica naturale dei
linguaggi visivi che la utilizzano. La nozione di realismo
cinematografico, secondo Bettetini, “deve essere interrogata in
tutte le sue implicazioni teoriche e produttive, sul versante
dell’oggetto, della sua codificazione, del suo uso sociale e su
quello della trasformazione-iscrizione che il film vi attua.” Il
cinema verrebbe a muoversi, come fatto estetico, come fenomeno
linguistico e, soprattutto, come atto sociale, nell’area di
intersezione tra due campi diversi, marcati rispettivamente dalla
tendenza a “fondersi interamente con la vita” e dal desiderio di
“mettere in evidenza lo specifico cinematografico, le
convenzionalità del linguaggio, l’affermazione della sovranità
dell’arte nella propria sfera”. I codici realistici utilizzati
dall’autore del film possono essere differenti da quelli circolanti
nella cultura della realtà filmata. Secondo l’autore il film è
realistico non quando riproduce la forma degli oggetti che mostra, ma
quando presenta il significato che quegli oggetti possiedono nelle
relazioni sociali e culturali in cui sono incorporati. Il realismo
sarebbe fondato dalle pratiche discorsive della società che fanno sì
che un determinato testo visivo sia recepito come realistico. Il
realismo non riguarda più dunque i testi visivi e il rapporto
mimetico che essi instaurano con i referenti che mostrano, come
accadeva in epoca positivistica, ma concerne sia la rappresentazione
delle relazioni sociali (il contesto) in cui il referente è inserito
sia la relazione che i testi visivi hanno con le pratiche discorsive
(culturali) in cui sono inclusi.
Ci si chiede: ha senso discutere di
iconismo, cioè di una specificità semiotica del linguaggio visivo
di tipo analogico-riproduttivo?
Si è fatto spesso riferimento alla
teoria peirciana del segno iconico1
per sostenere che la fotografia è un segno di tipo sostanzialmente
indicale, in quanto il soggetto ripreso era lì davanti all’obiettivo
e l’immagine è una traccia della sua presenza, o per sottolineare
come, a seconda dei contesti d’uso, essa diventi di volta in volta
anche icona o simbolo. Ma le più recenti teorie semiotiche hanno
evidenziato il logocentrismo implicito nei tentativi di assimilare le
immagini al segno con il suo carattere convenzionale/arbitrario a
meno che non lo si traduca in termini di convenzionale/culturale. In
altre parole se il legame tra il significante “cane” e un cane è
assolutamente arbitrario e convenzionale, nel caso dell’immagine di
un cane il rapporto referenziale fra l’immagine del cane e il cane
sembrerebbe di tipo “naturale”. Il legame è culturale, perché
quando pronunciamo la parola “cane” le associazioni che si
formano nella mente del produttore e del ricevente sono strettamente
connesse al repertorio culturale di ciascuno dei due. Sarebbe, poi,
inutile usare il concetto di segno dal momento che la seriosi
dell’immagine non è riconducibile ad esso. Secondo Umberto Eco “la
categoria di iconismo non serve a nulla, confonde le idee perché
non definisce un solo fenomeno e non definisce solo fenomeni
semiotici. .. Ma se andiamo più a fondo scopriamo che non è solo la
nozione di segno iconico che entra in crisi. E’ la nozione
stessa di “segno” che risulta inadoperabile… “ (Eco,
1975, p. 282-283)
La nozione di segno non riesce, dunque,
a spiegare da sola la produzione del senso, perché in qualunque
pratica discorsiva il senso si forma sulla base della relazione fra
almeno una sequenza di segni e la competenza del ricevente. La
semiotica ha abbandonato la matrice strutturalista da cui era nata e
ha rinunciato alle velleità tassonomiche con le quali aveva prodotto
la categoria di iconismo. Dire che la verosimiglianza non è una
caratteristica ontologica dell’immagine significa affidare alla
cultura le ragioni per cui se una persona scorge un’analogia fra
una produzione visiva e la realtà, ciò è dovuto a codici culturali
elaborati storicamente nella sua società, i quali stabiliscono le
modalità che definiscono il rapporto tra un oggetto e una sua
immagine come rapporto di somiglianza. La somiglianza intesa come
caratteristica specifica delle immagini isomorfe (che riproducono la
forma del referente) è il risultato di una ideale convergenza tra il
lavoro semiotico di produzione isomorfica e l’interpretazione di un
osservatore che, grazie ad una competenza acquisita, interpreta in
tal senso le immagini. Ma non necessariamente la somiglianza nasce
dall’isomorfismo; si pensi ad un bambino che cavalca un manico di
scopa – l’unico aspetto simile al cavallo è che può essere
cavalcato. “Il bambino elegge il bastone a Ersatz
(sostituto) del cavallo non perché gli assomigli, ma perché può
essere usato nello stesso modo.” (Gombrich, 1975, p.275)
Anche il contesto in cui l’immagine è
inserita ha la sua importanza. Pensiamo al diverso significato
attribuito alle immagini trasmesse in tv se durante un film o il tg
(le consideriamo finzione o al contrario realistiche). I film non
sono composti esclusivamente da immagini, ma includono e integrano
immagini, suoni, scrittura, grafie. Anche il significato di una
singola fotografia non è riducibile a quello di un segno di tipo
linguistico. Quindi accettando l’inutilità della nozione di segno
per condurre un discorso sulla semiosi visiva parleremo d’ora in
avanti di discorsi o testi.
Visto che un testo iconico non è
leggibile in base ad un codice predeterminato, ma lo costituisce,
ogni film istituisce il proprio codice realistico e lo propone allo
spettatore con un’operazione persuasiva che si conclude con
l’accettazione o meno da parte dello spettatore della proposta
dell’autore; si conclude con un patto comunicativo. La
teoria dell’iconismo non implica alcuno specifico metodo d’analisi.
Qualsiasi discorso di tipo realistico-documentario deve fare i conti
con la realtà (anche inventata) cui si riferisce, con la tradizione
del genere del discorso (verbale, scrittuale, visuale) nel quale si
inserisce e con le attese dello spettatore derivanti dalla sua
competenza testuale-culturale. All’iconismo come campo specifico
della seriosi visiva non resta alcuna specificità. Il contesto della
comunicazione visiva andrà analizzato con gli stessi strumenti della
comunicazione verbale, ferma restando la specificità della
competenza spettatoriale in relazione al visibile, come lo chiama
Pierre Sorlin (1979), della sua società.
Il focus dell’interpretazione si è
spostato dal segno al testo e infine al fruitore che, grazie alla
competenza acquisita nella sua cultura, lo comprende in termini
analogici, simbolici, indicali.
3. L’approccio semiotico
Negli anni 50 e 60 gli studi filologici
si sono concentrati sullo specifico cinematografico, cioè
sull’individuazione degli elementi che caratterizzavano il film in
quanto linguaggio, comparando il linguaggio cinematografico a quello
verbale.
A metà anni 60 la semiotica sposta
l’attenzione da “che cos’è il cinema” a come
funziona il linguaggio cinematografico.
Ricordiamo che il testo è il luogo
dove confluiscono i desideri dello spettatore e le intenzioni
dell’autore e che la relazione è dialogica. Questo campo di forze
negli anni 70 è stato esaminato con gli strumenti della semiotica
strutturalista istituendo omologie tra la coppia saussuriana
langue/parole e quelle denotazione/connotazione e
paradigma/sintagma, un approccio utilizzato da Christian Metz
in Essais sur la signification au cinéma (1968).
In seguito gli studi di semiologia del
cinema fecero propri i concetti chiave della teoria
dell’enunciazione elaborata da Ėmile Benveniste in ambito
linguistico.
La teoria dell’enunciazione
presuppone che un enunciatore costruisca l’enunciato
prefigurando un enunciatario che interagisca con le modalità
enunciative presenti nell’enunciato.
L’autore distingue poi storia
e discorso come due modalità enunciative differenti. La
storia cancellerebbe le tracce del produttore della narrazione;
“nessuno parla; gli avvenimenti sembrano raccontarsi da soli”. Il
discorso mostra invece inequivocabilmente i segni della presenza del
narratore.
Analizzare la situazione di
enunciazione significa puntare l’attenzione su diversi elementi
storici, culturali, biografici; per comprendere un film o una
fotografia è necessario tener conto del momento in cui sono stati
realizzati, in quale contesto culturale e da chi.
Il soggetto dell’enunciazione è
rintracciabile attraverso le marche disseminate nel testo: nei film
di Jean Rouch attraverso la voce fuori campo come in Jaguar
(1967) e Les maitres fous (1956) o con evidenti movimenti
della macchina da presa come in Horendi (1972).
Christian Metz descrive l’enunciazione
filmica nel quadro psicoanalitico del voyeurismo e della
scopofilia (piacere di guardare). Il limite di questa teoria
dello spettatore è di essere applicabile solo quando l’enunciazione
sia costruita in modo da cancellare le marche del soggetto
dell’enunciazione, per costruire uno spettatore voyeur che osserva
la scena “direttamente”, senza la mediazione dell’autore, come
se fosse presente sul luogo degli eventi e li osservasse dal buco
della serratura.
Questo procedimento di cancellazione
delle tracce del soggetto dell’enunciazione è tipico del cinema
“classico”, dove la narrazione è strutturata come storia.
Alla base dell’enunciazione filmica
ci sono tre livelli fondamentali di costruzione del discorso: il
livello del profilmico, dell’inquadratura e del
montaggio.
Il profilmico è ciò che la macchina
da presa filma, la “zona” di realtà che sta davanti
all’obbiettivo.
L’inquadratura è il livello in cui
il profilmico viene messo in quadro da un particolare punto di vista.
Il montaggio mette in sequenza le
inquadrature costruendo sintagmi narrativi e significanti che
acquistano senso dall’accostamento delle inquadrature.
I concetti di testo, enunciazione,
enunciato, enunciatore, enunciatario, profilmico, punto di vista,
inquadratura, montaggio sono il minimo repertorio concettuale
necessario ad analizzare un film etnografico, una sequenza
etnografica o una singola fotografia.
Il concetto di voyeurismo nella
filmologia è stato sviluppato osservando le dinamiche della
situazione di fruizione, in cui lo spettatore, immerso in una sala
buia guarda, non visto, le immagini del film e le azioni dei
protagonisti come un voyeur; nella fotografia il voyeurismo è
connesso all’erotismo proiettato dalla cultura occidentale sui
corpi esotici. I corpi degli indigeni venivano esposti nelle fiere e
nei circhi; c’erano zoo umani2
il cui più famoso negli Stati Uniti fu il Circo Barnum. Dalla
fotografia antropometrica alla cartolina esotico-erotica il passo fu
breve. La fotografia etnografica da oggetto scientifico si traformò
in souvenir, oggetto di scambio, di desiderio, una merce. Sul nudo
corpo indigeno, prorompente in quegli attributi che gli occidentali
considerano più “erotici” di altri, la cultura euro-colonialista
proiettò il desiderio di una sessualità libertina, mentre i valori
della famiglia, della maternità e della fedeltà erano affidati al
corpo di una donna bianca.
Negli anni 60, nel contesto dello
strutturalismo, si è cominciato a guardare il cinema come un sistema
semiotico, un testo composto da significanti che organizzano
razionalmente il significato.
I primi teorici a cercare e proporre
una semiotica del cinema sono stati Christian Metz, Pier Paolo
Pisolini e Umberto Eco. Il pioniere della semiologia del cinema
etnografico è stato l’antropologo Sol Worth con il suo libro
Studyng Visual Communication (1981); è anche uno dei
fondatori dell’antropologia visuale americana; ha fondato
l’Anthropological Film Research Institute allo Smithsonian
Institution; nel 1972 ha assunto il ruolo di presidente e direttore
della rivista Studies in the Anthropology of Visual Communication
che dalla primavera del 1980 cambiò il suo nome in Studies
in Visual Communication.
La prima preoccupazione di Worth fu
quella di definire la minima unità significativa del linguaggio
cinematografico, basic sign nel testo originale. Individuò
tre unità significative: il videma (videme),
corrispondente all’inquadratura; il cadema (cademe)
corrispondente alla sequenza di fotogrammi compresa tra uno “start”
e uno “stop” della macchina da presa e di una durata variabile da
pochi secondi a ore; infine l’edema (edeme), quella
parte del cadema che viene concretamente utilizzata nel film.
“L’edema sta al cadema come le specifiche parole scelte per una
particolare espressione stanno al lessico disponibile per un
particolare parlante.” (Worth, 1981, p.53-54)
Un autore che fa specifico riferimento
alla semiotica è Keyan Tomaselli. Nel suo lavoro del 1996
Appropriating Images. The semiotica of Visual Representations,
l’autore prende le distanze da quella semiotica che non analizza le
relazioni con il contesto, con la storia e le pratiche sociali.
Basandosi sulla semiotica di Pierce
propone una griglia basata sulla suddivisione dei segni visuali in
icona, indice e simbolo. Il film etnografico
viene definito “come lo strumento .. attraverso il quale i discorsi
di una cultura (l’osservato) sono registrati, descritti e compresi
da un’altra cultura (l’osservatore). Senza accesso discorsivo
alla cultura dell’osservato attraverso appropriate strategie
interpretative applicate dagli osservatori, non è possibile ottenere
una comprensione di come gli osservati comprendono se stessi.”
(Tomaselli, 1996, p.41).
Tomaselli ripropone poi il concetto di
faneroscopia (phaneroscopy): “il termine descrive gli
incontri con cui le persone rendono significativo il mondo. Ogni
incontro comporta molteplici esperienze tra un interpretante e un
evento o situazione. Il phaneron – tutto ciò che è
presente nella mente in un tale incontro – preesiste al segno. I
segni sono i veicoli attraverso cui l’esperienza diventa
intelligibile. .. I phaneron rispetto alla categoria Kantiana
dei phenomenon, 1. non hanno bisogno di essere verificati;
possono includere situazioni fantastiche, finzioni, sogni,
allucinazioni, fraintendimenti, ecc.; 2. la più piccola unità di un
phaneron è la totalità di ciò che appare alla mente in
ciascun incontro.” (ivi, pag. 54)
In ogni phaneron si possono
ritrovare le tre “categorie pervasive” pierciane di icona, indice
e simbolo poste su una scala atre livelli gerarchici dal punto di
vista del rapporto con la realtà.
Al primo livello – quello dell’icona
e del segno autoreferenziale (self-contained sign) – prevale
il rapporto di somiglianza e dunque il riconoscimento dell’oggetto
in quanto oggetto attraverso una relazione tra il significante e il
significato; la foto di un pneumatico rinvia all’automobile;
al secondo livello – quello
dell’indice e del segno ricodificato o riarticolato
(re-articulated) i segni acquistano significato all’interno di un
contesto culturale; per esempio il pneumatico rinvia a libertà o
virilità;
al terzo livello il segno diventa uno
degli elementi che compongono una cultura o un’ideologia; il
pneumatico può far parte di un immaginario simbolico di una società
industriale senza radici, materiale ed individualista.
Secondo Tomaselli la nozione di slot
elaborata dal filmmaker John Marshall è vicina a quella di
phaneron. Marshall decrive gli slots come “uno strumento
mnemonico per recuperare “contenuti e realtà nonviste” esistenti
fuori dal campo visivo della macchina da presa quando si producono
documentari. … Gli slots stanno dove il contenuto
inosservato è conservato nei nostri ricordi, o anticipato da ciò
che vediamo e ascoltiamo mentre guardiamo un film.” Sono
informazioni non visibili ma necessarie a comprendere cosa e come
accadono gli eventi, qualcosa che si potrebbe tradurre anche come
“contesto” e che si può collegare, secondo Tomaselli, alla
“descrizione densa” di Clifford Geertz.
4. Realismo
Qual è il rapporto tra la
rappresentazione e la realtà descritta? In quali termini una
rappresentazione etnografica si può definire “vera”? le
categorie con le quali possiamo giudicare una rappresentazione sono
quelle di “verità”, “realtà”, “autenticità” o altre?
Queste sono questioni chiave, di ordine epistemologico, su cui
l’etnografo, anche quello visuale, deve riflettere.
L’etnografia è un genere letterario,
in cui la narrazione del testo è centrale. Il genere etnografico ha
le sue regole, tra cui oggi, resta fondamentale la presenza
osservativi-partecipante dello studioso sul terreno di ricerca. La
preoccupazione fondamentale dell’antropologo dovrebbe essere quella
di descrivere in profondità una cultura e alla base di questa
prospettiva c’è la questione del realismo, della concezione tra
realtà e rappresentazione. I concetti di realismo e oggettività
sono variati nel tempo – abbiamo una prospettiva diversa da quella
di uno studioso positivista operante alla fine del XIX sec. Dunque i
film vanno compresi all’interno del contesto storico e scientifico
in cui sono stati prodotti, in relazione alla consapevolezza che gli
autori avevano nel loro tempo e non sulla base delle nostre
attuali conoscenze.
L’antropologia postmoderna nasce da
una critica radicale all’oggettivismo positivista che conduce
implicitamente alla decostruzione del concetto di documento,
un termine sul quale pesa una lunga storia di realismo ingenuo.
L’epistemologia positivista credeva
nella possibilità della scienza di riprodurre i fenomeni nei
documenti e negli esperimenti di laboratorio, senza subire alcuna
modifica da parte dello scienziato. Misurazione e classificazione
erano i metodi principali capaci di garantire l’oggettività e
quindi l’utilizzazione scientifica del documento. Conoscere
significava convertire qualità in quantità risolvendo il problema
della relatività e fallibilità dei giudizi umani. Il modello di
produzione del documento proveniva dalle scienze naturali verso le
quali le scienze umane tradivano un “complesso di inferiorità” e
una subordinazione metodologica che induceva l’utilizzo di
strumenti di misurazione capaci di tradurre l’osservazione del
comportamento umano in numeri e medie matematiche. Gli stessi metodi
filologici potrebbero essere visti come l’applicazione di un
modello geometrico di tipo bidimensionale (spazio e tempo)
successivamente abbandonato a favore di un modello tridimensionale
rappresentato dallo strutturalfunzionalismo britannico e dallo
strutturalismo francese, entrambi rivolti alla ricerca delle
strutture profonde dei comportamenti sociali, dei miti e dei riti. La
terza dimensione è dunque il senso, il significato implicito
raggiungibile attraverso un lavoro di interpretazione. La terza
dimensione è la struttura sociale per i britannici, per i francesi
la struttura inconscia costituita da opposizioni simboliche
(destra-sinistra; alto-basso, ecc).
Il documento, nell’epistemologia
oggettivista, è concepito come un dato o agglomerato estratto dalla
realtà da un o studioso il quale, per garantire la scientificità
della sua operazione, ha escluso dall’osservazione qualsiasi
possibile interferenza soggettiva. Assenza di coinvolgimento con i
soggetti studiati, imperturbabilità, allontanamento di emozioni e
sentimenti sono gli elementi chiave di questa epistemologia della
distanza attraverso la quale il documento si presenta come
un’emanazione diretta, un duplicato veritiero e attendibile. La
forza analogia delle immagini cinematografiche cancellava ogni
possibile sospetto di soggettività introdotta dall’osservatore e
si presentava al fruitore come una prova provata di quanto accaduto
davanti all’obiettivo. La fotografia, rispetto al disegno
precedente, lasciava, con la sua assenza di dettagli, maggiore
libertà di interpretazione al fruitore.
La tecnica fotografica viene introdotta
per la prima volta in una rivista, L’illustration, il 25
luglio 1891, grazie al metodo di Ernest Claire-Guyot, con il quale
la fotografia veniva impressa direttamente sul legno. Ma già dal
1850 la rivista utilizzava fotografie come clichés dai quali
i disegnatori traevano l’illustrazione. Il disegno non scompare da
un giorno all’altro; le fotografie di quegli anni vengono ritoccate
o composte in collage con il disegno. Ambrosie-Rendu ha osservato che
la percentuale di fotografie nel 1878 risulta essere del 10% (su 390
immagini da L’illustration), nel 1900 del 41% per poi arrivare al
78% nel 1914. progressivamente gli ambiti del disegno e della
fotografia si differenziano e separano; il disegno si specializza nel
simbolo e nell’allegoria, avendo il compito di trasmettere
sentimenti, mentre alla fotografia spetta il compito di testimoniare,
informare e provare. Negli anni 20, periodo in cui fotografia e
disegno convivono nella stessa immagine, si comincia a formare una
nuova competenza visiva, che permette di distinguere tra disegno e
fotografia, narrazione e documentazione, coinvolgimento emotivo ed
esercizio della ragione.
Se il disegno, prima dell’introduzione
della fotografia veniva percepito come una rappresentazione veritiera
della realtà, allora si può dire che non esistono linguaggi più
vicini alla realtà di altri, ma che la verità, l’analogia iconica
o la realtà di una rappresentazione sono il risultato di una
competenza visiva storicamente e culturalmente determinata. Tale
competenza ci consente di distinguere codici, generi e modalità
comunicative diverse, di produrre o di interpretare adeguatamente il
significato di un discorso, di un film, di un testo. La competenza
visiva, essendo acquisita all’interno di una specifica cultura, è
condizionata dalle ideologie dominanti, dal senso comune,
dall’esperienza personale, dal mediascape, dai discorsi
prodotti sulle immagini. In conclusione, il significato non è
qualcosa che sta nascosto dietro il testo, ma un nucleo dinamico di
relazioni che, nel caso specifico del film, lo spettatore costruisce,
in un primo momento nel corso della fruizione audiovisiva e
successivamente nelle occasioni formali ed informali di conversazione
con gli altri in cui si discute di quel film.
Siamo in grado di offrire una
definizione esaustiva di realismo? No, perché qualsiasi tentativo di
definire la qualità realistica di un testo audiovisivo finirà per
essere un’operazione storicamente e culturalmente condizionata che
finirebbe per assegnare al realismo le caratteristiche di una
particolare poetica del realismo, poetica che sarebbe normativa,
indirizzata cioè a definire le regole alle quali un testo si deve
sottoporre per essere definito realistico e/o scientifico.
Più corretto dal punto di vista
epistemologico analizzare come nel corso della storia sia stata
affrontata la questione del rapporto tra realtà e film; si parla di
realismi – vd cap.6.
1
Charles Sanders Pierce ha distinto tre tipi di segni iconici:
l’icona, che con il suo referente ha un rapporto di
somiglianza (la fotografia); l’indice, che ha con il
referente un rapporto di continuità fisica (come il fumo con il
fuoco, l’orma con il piede o il negativo fotografico con gli
oggetti che l’hanno impressionato) e il simbolo che
intrattiene con il referente un rapporto di tipo convenzionale (come
il tricolore con lo stato italiano)
2
Hagenbeck – il re degli zoo – fu il primo a percepire
l’opportunità di amalgamare i concetti di parco zoologico e di
circo in un unico luogo, accessibile a un vasto pubblico. Fu un
pioniere nel proporre una esibizione antropozoologica, formata da un
gruppo di uomini “esotici” accompagnati da animali. Il primo
gruppo fu esibito ad Amburgo nel 1874 – una famiglia di sei
Lapponi accompagnata da una trentina di renne.
Nessun commento:
Posta un commento