11 febbraio 2014

CAMERA ETNOGRAFICA STORIE E TEORIE DI ANTROPOLOGIA VISUALE Parte Prima (1/6)


1.Realtà delle immagini



1. Ocularcentrismo


si evidenzia come il vedere sia metafora del conoscere e del comprendere.

Si parla di “civiltà delle immagini” come di un’epoca inaugurata dall’invenzione della fotografia e del film.

Fotografia inventata da Daguerre e presentata da François Arago dell’Accademia delle Scienze di Parigi il 19 gennaio 1839.

In realtà l’umanità ha sempre vissuto in un mondo di immagini (riferimento a diverse epoche storiche e stili visivi).

Non si deve cercare nel corso della storia epoche in cui un organo sensoriale è stato predominante rispetto ad altri ma analizzare come l’esperienza si configuri e si a trasmessa in diversi contesti culturali e comunicativi.

Nella civiltà delle immagini sembra che le icone dominino il mondo; in realtà non esiste immagine del mediascape 1che non sia accompagnata da parole scritte e suoni. Per questo si dovrebbe qualificare come audiovisuale la nostra antropologia al posto di definirla in modo riduttivo visuale.

L’occhio come strumento di conoscenza è entrato negli studi antropologici.

Francis Affergan: “L’etno-antropologia inaugura la sua pratica e convalida le proprie ipotisi tramite la vista. Senza tecnica di osservazione, senza strategia dell’occhio, senza prammatica della facoltà visiva, l’altro non può comparire né divenire oggetto di conoscenza. La conoscenza etno-antropologica, e tutto il XVI secolo ne rende testimonianza, è, per essenza, basata sulla vista” (Affergan, 1991, p.125)

“Osservare è scegliere, classificare, è isolare in funzione della teoria”, quindi la descrizione non è una trascrizione della realtà in scrittura ma una pratica creativa regolata da una teoria che la governa. L’avvento della fotografia, con il realismo dell’immagine, sottrae l’indigeno alla fantasia di quei disegnatori che lo avevano ritratto all’interno di esotici paradisi dove viveva come “buon selvaggio” nello “stato di natura” // “l’uomo artificiale” occidentale. La fotografia antropometrica diventa la fotografia scientifica per eccellenza con oggetto il corpo umano; la cultura materiale, la vita quotidiana e l’ambiente naturale vengono messi fuori campo e rimossi oppure inseriti in foto “artistiche”.

Fabian parla di orientamento al visualismo come la tendenza ad utilizzare mappe,diagrammi ed elenchi per visualizzare una cultura o società e così comprenderla. La vista insieme alla geometria – concettualizzazione grafico-spaziale – diventano il modo più “esatto” di comunicare il sapere, evitando la soggettività dell’esperienza e l’illusorietà dei sensi. L’autore sottolinea, implicitamente, la tensione tra la sensorialità dell’approccio visuale-partecipativo tipico dei racconti di viaggio e la necessità di scremare la visione di quanto di personale ed emozionale per rappresentare secondo una logica scientifica connotata da esigenze “geometriche” (classificatorie).

La tendenza ocularcentrica è in genere associata al positivismo, movimento filosofico che nella versione di Auguste Comte riconosce allo stadio positivo (terzo stadio dell’umanità dopo quello metafisico e quello teologico) il primato della scienza e la necessità per la ricerca sociologica di utilizzare i metodi delle scienze naturali per descrivere come accadono i fenomeni non il perché.

La ricerca del perché si svolge a distanza nel tempo e nello spazio;


1 Con mediascape Arjun Appadurai ha definito il flusso di immagini provenienti dai media e circolanti in tutto il mondo: “i mediorami si riferiscono sia alla distribuzione delle capacità elettroniche di produrre e diffondere informazioni (giornali,riviste, stazioni televisive e studi di produzione cinematografica) sia alle immagini del mondo create da questi media. 
La descrizione del come necessita un’osservazione sul campo; ne consegue un contatto tra osservatore e fenomeno, quindi una contaminazione da parte del soggetto osservante, contaminazione che viene meno garantendo una “distanza” garantita grazie all’uso di strumenti di osservazione come la macchina fotografica.

Questa distinzione tra osservazione (x cui si può osservare “oggettivamente”) e spiegazione (descrivere ciò che si osserva) è stata messa in discussione dal principio di Heisenberg, secondo cui l’osservazione modifica i fenomeni osservati. Osservare è in qualche modo già interpretare.

L’applicazione di questo principio di indeterminazione al campo della fotografia e del film ci porta a concludere che il comportamento dell’osservato è sempre e inevitabilmente modificato da quello dell’osservatore. Mac Dougall scrive: “nessun film etnografico può essere solo una registrazione dei modi di vita di una popolazione, ma invece è sempre la registrazione di un incontro tra due culture.” (Mac Dougall, 1990, p.94). Ciò che osserviamo e filmiamo è un sistema relazionale composto da noi e gli altri, nel quale ogni informazione è frutto di un dialogo tra i due protagonisti (informatore nativo e etnografo) e il risultato è una comprensione intersoggettiva e una reciproca trasformazione.

All’epoca del positivismo la fotografia permise l’analisi in laboratorio sul tavolino dell’antropologo fino a quando il laboratorio non venne trasferito sul campo – 1898 spedizione allo Stretto di Torres promossa e diretta da Alfred C.Haddon.

La scopofilia – desiderio di vedere – non era però soddisfatta. Nasce il desiderio di poter veder di persona come vivevano i popoli “esotici” e “primitivi”, recidendo nel villaggio e condividendo, per quanto possibile, la loro vita sociale. A questo punto accade un rilevante mutamento epistemologico: l’autorità del laboratorio e del documento vengono messi da parte e sostituiti dall’autorità dell’esperienza diretta dell’etnografo che osservava la vita degli altri; il documento, sia pure prodotto secondo il canone scientifico positivista, non garantiva più, da solo, la veridicità e l’autenticità di ciò che rappresentava. L’iconofobia degli antropologi riguardava solo la fotografia e i film, dal momento che il visualismo si perpetuò attraverso la passione per gli schemi di parentela e le tabulazioni classificatorie, esercizi praticati rispettivamente dallo strutturalfunzionalismo e dallo strutturalismo francese, entrambi interessati alle strutture profonde, non visibili, della cultura. I “fatti sociali” non erano “un oggetto adatto alla fotografia” e con l’emergere dell’antropologia britannica si manifestò un disinteresse per la cultura materiale. Questioni relative alla parentela e al linguaggio hanno trovato nella scrittura una più agevole forma di descrizione e interpretazione, determinando implicitamente in tal modo l’esistenza di culture “più filmabili” di altre.

Dopo l’iniziale interesse dei pionieri dell’antropologia

sia nel contesto dell’evoluzionismo – di cui l’antropologia d’urgenza – salvage anthropology – è figlia e in cui si collocano le fotografie frontali e di profilo scattate da Anthony Wilkin durante la spedizione allo Stretto di Torres –

che dell’organizzazione tribale dei dati (Boas)

la documentazione visiva delle culture viene abbandonata e bisognerà attendere tre decenni circa perché fotografia e film ritrovino un ruolo nella ricerca antropologica come strumenti di documentazione. Ciò avverrà dove gli schematismi strutturalfunzionalisti erano più deboli, vale a dire nell’antropologia americana della scuola di cultura e personalità, interessata allo studio del comportamento visibile. (cap.4)

Più di recente l’orientamento visualista – il predominio dell’occhio e della percezione visiva come strumento e processo di indagine e rappresentazione - è stato oggetto di critica da parte di studiosi che hanno messo in rilievo il ruolo culturale degli altri sensi disponibili nel corpo umano.

Alessandro Gusman ricorda che il visualismo ha origini antiche (Aristotele nella Metafisica attribuiva maggior valore alla percezione del mondo attraverso la vista) e che la civiltà dell’immagine è cominciata con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e della prospettiva.

Tuttavia il visualismo non è universale; vi sono culture centrate su altri sensi, per es. i Kaluli della Nuova Giunea, e la stessa civiltà occidentale ha avuto periodi in cui sono stati predominanti altri sensi: nel ‘700 in Inghilterra si diffuse espressione “persona di gusto”, in Francia si sviluppò interesse per l’odorato dal punto di vista dell’igiene, della fisiologia e della profumeria.
L’antropologia dei sensi si propone di rigettare ogni modello universalistico, esaminando gli ordini sensoriali propri di culture particolari senza incappare nell’errore di “naturalizzare” uno di questi modelli. Marazzi precisa “è da una attenzione olistica agli aspetti sensoriali della vita umana che meglio può emergere la consapevolezza della fisicità umana e della sua interazione con la dimensione culturale, dal cui insieme scaturisce la condizione antropologica.”

2. Iconismo


Gli strumenti audiovisivi caratterizzati da un rapporto di somiglianza morfologica (isomorfismo) tra l’immagine e il suo referente hanno rafforzato la concezione del documento come duplicazione della realtà, peculiare del positivismo.

Gianfranco Bettetini in un suo saggio del 1975 ha discusso la problematica del realismo cinematografico in relazione alla questione dell’iconismo inteso come specificità semiotica del linguaggio delle immagini.

Da sempre c’è un dualismo in ogni dibattito sui problemi della rappresentazione scientifica:

realismo // idealismo

conoscenza proveniente dalle qualità essenziali dell’oggetto // conoscenza fondata sull’attività interpretata del soggetto

la prima forma di conoscenza, quella realistica, è sempre mediata da una forma di comunicazione, da un discorso e alla fine la rappresentazione risulta essere una costruzione dell’oggetto, non una sua duplicazione. Tuttavia nei linguaggi visivi il realismo sembra un carattere “naturale” della rappresentazione e il soggetto sembra non avere potere dato che la conoscenza sembra procedere in tutto e per tutto dall’oggetto.

Bettetini scrive: “L’apparente difetto di un’astrazione “costruttiva” nella formazione del segno iconico ha fatto sì che il suo rapporto con la realtà fosse inteso come scontato e implicito, come totalizzante e diretto; ha fatto sì che i linguaggi strutturati attorno a forme in qualche modo “simili” alla realtà fossero ritenuti come rivelatori di una presenza, anziché come significanti attraverso rinvii costruiti a livelli diversi.” (Bettetini, 1975, p.114)

L’autore nega che la fotografia sia un segno di tipo indicale, che abbia cioè una relazione di compresenza con il referente; “non rinvia all’oggetto rappresentato, ma eventualmente alla sua forma significante, alle modalità tecniche della sua produzione…” “il segno iconico non riproduce degli oggetti ma delle loro proprietà, delle loro marche semantiche”. In altre parole, nonostante l’impressione di presenza dell’oggetto rappresentato, la somiglianza è il prodotto della competenza visiva acquisita dallo spettatore in determinate condizioni storiche più che essere una caratteristica naturale dei linguaggi visivi che la utilizzano. La nozione di realismo cinematografico, secondo Bettetini, “deve essere interrogata in tutte le sue implicazioni teoriche e produttive, sul versante dell’oggetto, della sua codificazione, del suo uso sociale e su quello della trasformazione-iscrizione che il film vi attua.” Il cinema verrebbe a muoversi, come fatto estetico, come fenomeno linguistico e, soprattutto, come atto sociale, nell’area di intersezione tra due campi diversi, marcati rispettivamente dalla tendenza a “fondersi interamente con la vita” e dal desiderio di “mettere in evidenza lo specifico cinematografico, le convenzionalità del linguaggio, l’affermazione della sovranità dell’arte nella propria sfera”. I codici realistici utilizzati dall’autore del film possono essere differenti da quelli circolanti nella cultura della realtà filmata. Secondo l’autore il film è realistico non quando riproduce la forma degli oggetti che mostra, ma quando presenta il significato che quegli oggetti possiedono nelle relazioni sociali e culturali in cui sono incorporati. Il realismo sarebbe fondato dalle pratiche discorsive della società che fanno sì che un determinato testo visivo sia recepito come realistico. Il realismo non riguarda più dunque i testi visivi e il rapporto mimetico che essi instaurano con i referenti che mostrano, come accadeva in epoca positivistica, ma concerne sia la rappresentazione delle relazioni sociali (il contesto) in cui il referente è inserito sia la relazione che i testi visivi hanno con le pratiche discorsive (culturali) in cui sono inclusi.

Ci si chiede: ha senso discutere di iconismo, cioè di una specificità semiotica del linguaggio visivo di tipo analogico-riproduttivo?

Si è fatto spesso riferimento alla teoria peirciana del segno iconico1 per sostenere che la fotografia è un segno di tipo sostanzialmente indicale, in quanto il soggetto ripreso era lì davanti all’obiettivo e l’immagine è una traccia della sua presenza, o per sottolineare come, a seconda dei contesti d’uso, essa diventi di volta in volta anche icona o simbolo. Ma le più recenti teorie semiotiche hanno evidenziato il logocentrismo implicito nei tentativi di assimilare le immagini al segno con il suo carattere convenzionale/arbitrario a meno che non lo si traduca in termini di convenzionale/culturale. In altre parole se il legame tra il significante “cane” e un cane è assolutamente arbitrario e convenzionale, nel caso dell’immagine di un cane il rapporto referenziale fra l’immagine del cane e il cane sembrerebbe di tipo “naturale”. Il legame è culturale, perché quando pronunciamo la parola “cane” le associazioni che si formano nella mente del produttore e del ricevente sono strettamente connesse al repertorio culturale di ciascuno dei due. Sarebbe, poi, inutile usare il concetto di segno dal momento che la seriosi dell’immagine non è riconducibile ad esso. Secondo Umberto Eco “la categoria di iconismo non serve a nulla, confonde le idee perché non definisce un solo fenomeno e non definisce solo fenomeni semiotici. .. Ma se andiamo più a fondo scopriamo che non è solo la nozione di segno iconico che entra in crisi. E’ la nozione stessa di “segno” che risulta inadoperabile… “ (Eco, 1975, p. 282-283)

La nozione di segno non riesce, dunque, a spiegare da sola la produzione del senso, perché in qualunque pratica discorsiva il senso si forma sulla base della relazione fra almeno una sequenza di segni e la competenza del ricevente. La semiotica ha abbandonato la matrice strutturalista da cui era nata e ha rinunciato alle velleità tassonomiche con le quali aveva prodotto la categoria di iconismo. Dire che la verosimiglianza non è una caratteristica ontologica dell’immagine significa affidare alla cultura le ragioni per cui se una persona scorge un’analogia fra una produzione visiva e la realtà, ciò è dovuto a codici culturali elaborati storicamente nella sua società, i quali stabiliscono le modalità che definiscono il rapporto tra un oggetto e una sua immagine come rapporto di somiglianza. La somiglianza intesa come caratteristica specifica delle immagini isomorfe (che riproducono la forma del referente) è il risultato di una ideale convergenza tra il lavoro semiotico di produzione isomorfica e l’interpretazione di un osservatore che, grazie ad una competenza acquisita, interpreta in tal senso le immagini. Ma non necessariamente la somiglianza nasce dall’isomorfismo; si pensi ad un bambino che cavalca un manico di scopa – l’unico aspetto simile al cavallo è che può essere cavalcato. “Il bambino elegge il bastone a Ersatz (sostituto) del cavallo non perché gli assomigli, ma perché può essere usato nello stesso modo.” (Gombrich, 1975, p.275)

Anche il contesto in cui l’immagine è inserita ha la sua importanza. Pensiamo al diverso significato attribuito alle immagini trasmesse in tv se durante un film o il tg (le consideriamo finzione o al contrario realistiche). I film non sono composti esclusivamente da immagini, ma includono e integrano immagini, suoni, scrittura, grafie. Anche il significato di una singola fotografia non è riducibile a quello di un segno di tipo linguistico. Quindi accettando l’inutilità della nozione di segno per condurre un discorso sulla semiosi visiva parleremo d’ora in avanti di discorsi o testi.

Visto che un testo iconico non è leggibile in base ad un codice predeterminato, ma lo costituisce, ogni film istituisce il proprio codice realistico e lo propone allo spettatore con un’operazione persuasiva che si conclude con l’accettazione o meno da parte dello spettatore della proposta dell’autore; si conclude con un patto comunicativo. La teoria dell’iconismo non implica alcuno specifico metodo d’analisi. Qualsiasi discorso di tipo realistico-documentario deve fare i conti con la realtà (anche inventata) cui si riferisce, con la tradizione del genere del discorso (verbale, scrittuale, visuale) nel quale si inserisce e con le attese dello spettatore derivanti dalla sua competenza testuale-culturale. All’iconismo come campo specifico della seriosi visiva non resta alcuna specificità. Il contesto della comunicazione visiva andrà analizzato con gli stessi strumenti della comunicazione verbale, ferma restando la specificità della competenza spettatoriale in relazione al visibile, come lo chiama Pierre Sorlin (1979), della sua società.

Il focus dell’interpretazione si è spostato dal segno al testo e infine al fruitore che, grazie alla competenza acquisita nella sua cultura, lo comprende in termini analogici, simbolici, indicali.



3. L’approccio semiotico


Negli anni 50 e 60 gli studi filologici si sono concentrati sullo specifico cinematografico, cioè sull’individuazione degli elementi che caratterizzavano il film in quanto linguaggio, comparando il linguaggio cinematografico a quello verbale.

A metà anni 60 la semiotica sposta l’attenzione da “che cos’è il cinema” a come funziona il linguaggio cinematografico.

Ricordiamo che il testo è il luogo dove confluiscono i desideri dello spettatore e le intenzioni dell’autore e che la relazione è dialogica. Questo campo di forze negli anni 70 è stato esaminato con gli strumenti della semiotica strutturalista istituendo omologie tra la coppia saussuriana langue/parole e quelle denotazione/connotazione e paradigma/sintagma, un approccio utilizzato da Christian Metz in Essais sur la signification au cinéma (1968).

In seguito gli studi di semiologia del cinema fecero propri i concetti chiave della teoria dell’enunciazione elaborata da Ėmile Benveniste in ambito linguistico.

La teoria dell’enunciazione presuppone che un enunciatore costruisca l’enunciato prefigurando un enunciatario che interagisca con le modalità enunciative presenti nell’enunciato.

L’autore distingue poi storia e discorso come due modalità enunciative differenti. La storia cancellerebbe le tracce del produttore della narrazione; “nessuno parla; gli avvenimenti sembrano raccontarsi da soli”. Il discorso mostra invece inequivocabilmente i segni della presenza del narratore.

Analizzare la situazione di enunciazione significa puntare l’attenzione su diversi elementi storici, culturali, biografici; per comprendere un film o una fotografia è necessario tener conto del momento in cui sono stati realizzati, in quale contesto culturale e da chi.

Il soggetto dell’enunciazione è rintracciabile attraverso le marche disseminate nel testo: nei film di Jean Rouch attraverso la voce fuori campo come in Jaguar (1967) e Les maitres fous (1956) o con evidenti movimenti della macchina da presa come in Horendi (1972).

Christian Metz descrive l’enunciazione filmica nel quadro psicoanalitico del voyeurismo e della scopofilia (piacere di guardare). Il limite di questa teoria dello spettatore è di essere applicabile solo quando l’enunciazione sia costruita in modo da cancellare le marche del soggetto dell’enunciazione, per costruire uno spettatore voyeur che osserva la scena “direttamente”, senza la mediazione dell’autore, come se fosse presente sul luogo degli eventi e li osservasse dal buco della serratura.

Questo procedimento di cancellazione delle tracce del soggetto dell’enunciazione è tipico del cinema “classico”, dove la narrazione è strutturata come storia.

Alla base dell’enunciazione filmica ci sono tre livelli fondamentali di costruzione del discorso: il livello del profilmico, dell’inquadratura e del montaggio.

Il profilmico è ciò che la macchina da presa filma, la “zona” di realtà che sta davanti all’obbiettivo.

L’inquadratura è il livello in cui il profilmico viene messo in quadro da un particolare punto di vista.

Il montaggio mette in sequenza le inquadrature costruendo sintagmi narrativi e significanti che acquistano senso dall’accostamento delle inquadrature.

I concetti di testo, enunciazione, enunciato, enunciatore, enunciatario, profilmico, punto di vista, inquadratura, montaggio sono il minimo repertorio concettuale necessario ad analizzare un film etnografico, una sequenza etnografica o una singola fotografia.

Il concetto di voyeurismo nella filmologia è stato sviluppato osservando le dinamiche della situazione di fruizione, in cui lo spettatore, immerso in una sala buia guarda, non visto, le immagini del film e le azioni dei protagonisti come un voyeur; nella fotografia il voyeurismo è connesso all’erotismo proiettato dalla cultura occidentale sui corpi esotici. I corpi degli indigeni venivano esposti nelle fiere e nei circhi; c’erano zoo umani2 il cui più famoso negli Stati Uniti fu il Circo Barnum. Dalla fotografia antropometrica alla cartolina esotico-erotica il passo fu breve. La fotografia etnografica da oggetto scientifico si traformò in souvenir, oggetto di scambio, di desiderio, una merce. Sul nudo corpo indigeno, prorompente in quegli attributi che gli occidentali considerano più “erotici” di altri, la cultura euro-colonialista proiettò il desiderio di una sessualità libertina, mentre i valori della famiglia, della maternità e della fedeltà erano affidati al corpo di una donna bianca.

Negli anni 60, nel contesto dello strutturalismo, si è cominciato a guardare il cinema come un sistema semiotico, un testo composto da significanti che organizzano razionalmente il significato.

I primi teorici a cercare e proporre una semiotica del cinema sono stati Christian Metz, Pier Paolo Pisolini e Umberto Eco. Il pioniere della semiologia del cinema etnografico è stato l’antropologo Sol Worth con il suo libro Studyng Visual Communication (1981); è anche uno dei fondatori dell’antropologia visuale americana; ha fondato l’Anthropological Film Research Institute allo Smithsonian Institution; nel 1972 ha assunto il ruolo di presidente e direttore della rivista Studies in the Anthropology of Visual Communication che dalla primavera del 1980 cambiò il suo nome in Studies in Visual Communication.

La prima preoccupazione di Worth fu quella di definire la minima unità significativa del linguaggio cinematografico, basic sign nel testo originale. Individuò tre unità significative: il videma (videme), corrispondente all’inquadratura; il cadema (cademe) corrispondente alla sequenza di fotogrammi compresa tra uno “start” e uno “stop” della macchina da presa e di una durata variabile da pochi secondi a ore; infine l’edema (edeme), quella parte del cadema che viene concretamente utilizzata nel film. “L’edema sta al cadema come le specifiche parole scelte per una particolare espressione stanno al lessico disponibile per un particolare parlante.” (Worth, 1981, p.53-54)

Un autore che fa specifico riferimento alla semiotica è Keyan Tomaselli. Nel suo lavoro del 1996 Appropriating Images. The semiotica of Visual Representations, l’autore prende le distanze da quella semiotica che non analizza le relazioni con il contesto, con la storia e le pratiche sociali.

Basandosi sulla semiotica di Pierce propone una griglia basata sulla suddivisione dei segni visuali in icona, indice e simbolo. Il film etnografico viene definito “come lo strumento .. attraverso il quale i discorsi di una cultura (l’osservato) sono registrati, descritti e compresi da un’altra cultura (l’osservatore). Senza accesso discorsivo alla cultura dell’osservato attraverso appropriate strategie interpretative applicate dagli osservatori, non è possibile ottenere una comprensione di come gli osservati comprendono se stessi.” (Tomaselli, 1996, p.41).

Tomaselli ripropone poi il concetto di faneroscopia (phaneroscopy): “il termine descrive gli incontri con cui le persone rendono significativo il mondo. Ogni incontro comporta molteplici esperienze tra un interpretante e un evento o situazione. Il phaneron – tutto ciò che è presente nella mente in un tale incontro – preesiste al segno. I segni sono i veicoli attraverso cui l’esperienza diventa intelligibile. .. I phaneron rispetto alla categoria Kantiana dei phenomenon, 1. non hanno bisogno di essere verificati; possono includere situazioni fantastiche, finzioni, sogni, allucinazioni, fraintendimenti, ecc.; 2. la più piccola unità di un phaneron è la totalità di ciò che appare alla mente in ciascun incontro.” (ivi, pag. 54)

In ogni phaneron si possono ritrovare le tre “categorie pervasive” pierciane di icona, indice e simbolo poste su una scala atre livelli gerarchici dal punto di vista del rapporto con la realtà.

Al primo livello – quello dell’icona e del segno autoreferenziale (self-contained sign) – prevale il rapporto di somiglianza e dunque il riconoscimento dell’oggetto in quanto oggetto attraverso una relazione tra il significante e il significato; la foto di un pneumatico rinvia all’automobile;

al secondo livello – quello dell’indice e del segno ricodificato o riarticolato (re-articulated) i segni acquistano significato all’interno di un contesto culturale; per esempio il pneumatico rinvia a libertà o virilità;

al terzo livello il segno diventa uno degli elementi che compongono una cultura o un’ideologia; il pneumatico può far parte di un immaginario simbolico di una società industriale senza radici, materiale ed individualista.

Secondo Tomaselli la nozione di slot elaborata dal filmmaker John Marshall è vicina a quella di phaneron. Marshall decrive gli slots come “uno strumento mnemonico per recuperare “contenuti e realtà nonviste” esistenti fuori dal campo visivo della macchina da presa quando si producono documentari. … Gli slots stanno dove il contenuto inosservato è conservato nei nostri ricordi, o anticipato da ciò che vediamo e ascoltiamo mentre guardiamo un film.” Sono informazioni non visibili ma necessarie a comprendere cosa e come accadono gli eventi, qualcosa che si potrebbe tradurre anche come “contesto” e che si può collegare, secondo Tomaselli, alla “descrizione densa” di Clifford Geertz.



4. Realismo


Qual è il rapporto tra la rappresentazione e la realtà descritta? In quali termini una rappresentazione etnografica si può definire “vera”? le categorie con le quali possiamo giudicare una rappresentazione sono quelle di “verità”, “realtà”, “autenticità” o altre? Queste sono questioni chiave, di ordine epistemologico, su cui l’etnografo, anche quello visuale, deve riflettere.

L’etnografia è un genere letterario, in cui la narrazione del testo è centrale. Il genere etnografico ha le sue regole, tra cui oggi, resta fondamentale la presenza osservativi-partecipante dello studioso sul terreno di ricerca. La preoccupazione fondamentale dell’antropologo dovrebbe essere quella di descrivere in profondità una cultura e alla base di questa prospettiva c’è la questione del realismo, della concezione tra realtà e rappresentazione. I concetti di realismo e oggettività sono variati nel tempo – abbiamo una prospettiva diversa da quella di uno studioso positivista operante alla fine del XIX sec. Dunque i film vanno compresi all’interno del contesto storico e scientifico in cui sono stati prodotti, in relazione alla consapevolezza che gli autori avevano nel loro tempo e non sulla base delle nostre attuali conoscenze.

L’antropologia postmoderna nasce da una critica radicale all’oggettivismo positivista che conduce implicitamente alla decostruzione del concetto di documento, un termine sul quale pesa una lunga storia di realismo ingenuo.

L’epistemologia positivista credeva nella possibilità della scienza di riprodurre i fenomeni nei documenti e negli esperimenti di laboratorio, senza subire alcuna modifica da parte dello scienziato. Misurazione e classificazione erano i metodi principali capaci di garantire l’oggettività e quindi l’utilizzazione scientifica del documento. Conoscere significava convertire qualità in quantità risolvendo il problema della relatività e fallibilità dei giudizi umani. Il modello di produzione del documento proveniva dalle scienze naturali verso le quali le scienze umane tradivano un “complesso di inferiorità” e una subordinazione metodologica che induceva l’utilizzo di strumenti di misurazione capaci di tradurre l’osservazione del comportamento umano in numeri e medie matematiche. Gli stessi metodi filologici potrebbero essere visti come l’applicazione di un modello geometrico di tipo bidimensionale (spazio e tempo) successivamente abbandonato a favore di un modello tridimensionale rappresentato dallo strutturalfunzionalismo britannico e dallo strutturalismo francese, entrambi rivolti alla ricerca delle strutture profonde dei comportamenti sociali, dei miti e dei riti. La terza dimensione è dunque il senso, il significato implicito raggiungibile attraverso un lavoro di interpretazione. La terza dimensione è la struttura sociale per i britannici, per i francesi la struttura inconscia costituita da opposizioni simboliche (destra-sinistra; alto-basso, ecc).

Il documento, nell’epistemologia oggettivista, è concepito come un dato o agglomerato estratto dalla realtà da un o studioso il quale, per garantire la scientificità della sua operazione, ha escluso dall’osservazione qualsiasi possibile interferenza soggettiva. Assenza di coinvolgimento con i soggetti studiati, imperturbabilità, allontanamento di emozioni e sentimenti sono gli elementi chiave di questa epistemologia della distanza attraverso la quale il documento si presenta come un’emanazione diretta, un duplicato veritiero e attendibile. La forza analogia delle immagini cinematografiche cancellava ogni possibile sospetto di soggettività introdotta dall’osservatore e si presentava al fruitore come una prova provata di quanto accaduto davanti all’obiettivo. La fotografia, rispetto al disegno precedente, lasciava, con la sua assenza di dettagli, maggiore libertà di interpretazione al fruitore.

La tecnica fotografica viene introdotta per la prima volta in una rivista, L’illustration, il 25 luglio 1891, grazie al metodo di Ernest Claire-Guyot, con il quale la fotografia veniva impressa direttamente sul legno. Ma già dal 1850 la rivista utilizzava fotografie come clichés dai quali i disegnatori traevano l’illustrazione. Il disegno non scompare da un giorno all’altro; le fotografie di quegli anni vengono ritoccate o composte in collage con il disegno. Ambrosie-Rendu ha osservato che la percentuale di fotografie nel 1878 risulta essere del 10% (su 390 immagini da L’illustration), nel 1900 del 41% per poi arrivare al 78% nel 1914. progressivamente gli ambiti del disegno e della fotografia si differenziano e separano; il disegno si specializza nel simbolo e nell’allegoria, avendo il compito di trasmettere sentimenti, mentre alla fotografia spetta il compito di testimoniare, informare e provare. Negli anni 20, periodo in cui fotografia e disegno convivono nella stessa immagine, si comincia a formare una nuova competenza visiva, che permette di distinguere tra disegno e fotografia, narrazione e documentazione, coinvolgimento emotivo ed esercizio della ragione.

Se il disegno, prima dell’introduzione della fotografia veniva percepito come una rappresentazione veritiera della realtà, allora si può dire che non esistono linguaggi più vicini alla realtà di altri, ma che la verità, l’analogia iconica o la realtà di una rappresentazione sono il risultato di una competenza visiva storicamente e culturalmente determinata. Tale competenza ci consente di distinguere codici, generi e modalità comunicative diverse, di produrre o di interpretare adeguatamente il significato di un discorso, di un film, di un testo. La competenza visiva, essendo acquisita all’interno di una specifica cultura, è condizionata dalle ideologie dominanti, dal senso comune, dall’esperienza personale, dal mediascape, dai discorsi prodotti sulle immagini. In conclusione, il significato non è qualcosa che sta nascosto dietro il testo, ma un nucleo dinamico di relazioni che, nel caso specifico del film, lo spettatore costruisce, in un primo momento nel corso della fruizione audiovisiva e successivamente nelle occasioni formali ed informali di conversazione con gli altri in cui si discute di quel film.

Siamo in grado di offrire una definizione esaustiva di realismo? No, perché qualsiasi tentativo di definire la qualità realistica di un testo audiovisivo finirà per essere un’operazione storicamente e culturalmente condizionata che finirebbe per assegnare al realismo le caratteristiche di una particolare poetica del realismo, poetica che sarebbe normativa, indirizzata cioè a definire le regole alle quali un testo si deve sottoporre per essere definito realistico e/o scientifico.

Più corretto dal punto di vista epistemologico analizzare come nel corso della storia sia stata affrontata la questione del rapporto tra realtà e film; si parla di realismi – vd cap.6.

1 Charles Sanders Pierce ha distinto tre tipi di segni iconici: l’icona, che con il suo referente ha un rapporto di somiglianza (la fotografia); l’indice, che ha con il referente un rapporto di continuità fisica (come il fumo con il fuoco, l’orma con il piede o il negativo fotografico con gli oggetti che l’hanno impressionato) e il simbolo che intrattiene con il referente un rapporto di tipo convenzionale (come il tricolore con lo stato italiano)


2 Hagenbeck – il re degli zoo – fu il primo a percepire l’opportunità di amalgamare i concetti di parco zoologico e di circo in un unico luogo, accessibile a un vasto pubblico. Fu un pioniere nel proporre una esibizione antropozoologica, formata da un gruppo di uomini “esotici” accompagnati da animali. Il primo gruppo fu esibito ad Amburgo nel 1874 – una famiglia di sei Lapponi accompagnata da una trentina di renne.




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