2. Fotografia ed
etnografia
1.Fotografie in transito
Per la creazione della macchina
fotografica ottica due elementi sono stati rilevanti: la camera
oscura e la capacità di alcuni prodotti di reagire alla luce.
E’ facile pensare alla fotografia
come una traccia veritiera della realtà, dimenticandosi che la
leggibilità della fotografia è il risultato di un processo di
manipolazione dei materiali.
La somiglianza tra l’oggetto
fotografato e il suo referente reale non è un dato naturale, ma il
risultato di un lavoro materiale e semiotico che riguarda un oggetto,
la fotografia, e il suo significato. Nella produzione di una
fotografia sono presenti tutti e tre i tipi di segno iconico
individuati da Charles Sanders Peirce: indice - segno che deriva dal
referente – (nel momento dell’impressione della pellicola); icona
– che riproduce del referente alcuni elementi morfologici che
rinviano ad esso – (nel momento della stampa); simbolo – segno
totalmente culturale con la capacità di veicolare significati –
(nel corso delle interpretazioni e degli investimenti di significato
attribuiti).
Beatrix Heintze propone una distinzione
tra contesto di produzione, contesto di uso e contesto di ricezione
della fotografia, evidenziando come il primo sia una volta per tutte,
mentre gli ultimi due cambiano continuamente, rendendo la fotografia
simile ad un camaleonte che muta colore a seconda dell’ambiente in
cui è collocata. Saper distinguere e cogliere i transiti di senso da
un contesto all’altro è di fondamentale importanza quando
analizziamo documenti fotografici.
Il contesto di produzione comprende
tutte le informazioni che riguardano il fotografo e l’ambiente
culturale, storico e politico che nel loro insieme hanno condizionato
il modo in cui la fotografia è stata prodotta. Quello non
considerato dall’autore è che l’atto stesso del fotografare
diventa un’operazione di senso in quanto performance (matrimonio
non è concepibile senza fotografi x es. o un discorso pubblico di un
uomo politico locale acquista più autorità se sono presenti
fotografi); non considerato è anche lo stato della tecnologia coeva
alla fotografia.
Rochelle Kolodny ha individuato tre
modalità di strutturazione dell’immagine in relazione alla realtà:
il romanticismo, che trasfigura la realtà nel mito; il realismo, che
comunica fatti; la modalità documentaria che descrive la realtà
applicandovi un punto di vista. Le tre modalità sono intrecciate e
possono cambiare nel corso del tempo – una fotografia romantica può
diventare un documento nei decenni successivi.
Il contesto d’uso riguarda gli
specifici frame nei quali la fotografia è inserita, per es.
una pubblicazione, una mostra, la vetrina di un museo..
Il contesto di ricezione riguarda i
fruitori e l’occasione in cui il testo di /con fotografie viene
osservato.
L’etnograficità di una immagine non
è una qualità essenziale ontologicamente posseduta dal contenuto
della fotografia, ma una caratteristica che essa assume all’interno
di un discorso e di determinate finalità scientifiche di tipo
antropologico.
C’è illustrato il caso del
fotomontaggio di famiglia studiato dall’autore del libro.. di un
italiano emigrato in America che aveva bisogno per un senso di
appartenenza di una foto che attestasse lo status di adulto-sposato
agli occhi degli altri italiani (p.46-47)
Un’altra modalità attraverso cui le
foto cambiano contesto è lo scambio, reso possibile dal momento in
cui le stampe fotografiche diventano riproducibili a basso costo. La
Grande Esposizione del 1851 tenutasi a Londra è il punto di partenza
di questi scambi grazie ai quali si sono formate le collezioni.
2. La fotografia nell’era del
positivismo
Nella sua prima fase la fotografia
venne utilizzata come indice, traccia veritiera della realtà.
In questa fase storica Charles Darwin,
nel suo studio sulle emozioni, utilizzò le fotografie (realizzate
dal fotografo Oscar Rejlander) per dimostrare la veridicità delle
tesi esposte; non esitò ad intervenire sulle fotografie per
enfatizzare gli elementi pertinenti e rimuovere quelli non coerenti.
Darwin era stato sollecitato agli studi
fisiognomici da un precedente lavoro del medico fotografo
Guillaume-Benjamin-Armand Duchenne che si era interessato della
fisionomia nella malattia mentale. Martha Braun rileva che “l’opera
di Guillaume Duchenne de Boulogne si verifica all’incontro delle
tre più importanti conquiste del XIX secolo: l’elettricità, la
fisiologia e la fotografia”. L’interesse per il corpo umano e la
sua fisiologia non sarebbe stato possibile senza la fotografia e
grazie all’elettricità si è giunti al perfezionamento delle
macchine da presa.
Duchenne evidenzia l’importanza
dell’uso della luce per sopperire alla mancanza di profondità di
campo e per meglio rendere la disposizione muscolare nell’atto
dell’espressione delle emozioni.
Oltre che per la fisionomica nell’epoca
positivistica la fotografia veniva utilizzata anche per
l’antropometria, cioè per ottenere informazioni sulle
caratteristiche fisiche e anatomiche dei soggetti ritratti: altezza,
lunghezza, forma della mano, capelli.. dati che servivano a collocare
gli individui entro determinate categorie razziali e stadi evolutivi.
Un terzo tipo, la fotografia
etnologica, era impiegato per riportare le caratteristiche esotiche
dei popoli lontani (cultura materiale, rituali).
In Italia la fotografia fu al centro di
una disputa fra Enrico Giglioli e Paolo Mantegazza avvenuta nel 1897
sulle pagine dell’Archivio per l’Antropologia e l’Etnografia,
a proposito dei Nuovi Guineani e dei Maori.
Per Giglioli, basandosi sul metodo
fisionomico, i principali tipi Politesi erano cinque.
Per Mantegazza, secondo il metodo
craniometrico, erano tre.
Il mutamento importante è che il dato
craniometrico si riferiva a misure, il dato visivo si riferisce a
forme che rilevano qualità grazie alle quali gli esseri umani sono
ascritti a determinati tipi razziali.
Ecco a questo punto porsi il problema
della rappresentatività. Fino a che punto un determinato individuo
può essere rappresentativo di un tipo razziale? Galton , psicologo
legato a Rivers, individuò un metodo conosciuto come “metodo
Galton”: si costruiva un ritratto sovrapponendo più fotografie
scattate nello stesso modo, per esaltare i caratteri fisiognomici
comuni; in tal modo la fotografia avrebbe prodotto “da sé” senza
intervento umano il tipo razziale, il “mostro do Galton” come
definito da Mazzacane. Esempio chiarissimo di positivista fiducia
nella scienza e di come la fotografia si fosse perfettamente
integrata nel paradigma oggettivista ottocentesco.
In Italia i protagonisti della scena
antropologica di fine XIX secolo - Mantegazza, Loria, Giglioli,
tutti della scuola fiorentina – prestarono molta attenzione alla
fotografia integrandola in tutti gli aspetti della ricerca.
Mantegazza, per primo, avviò una
ricerca sull’espressione del dolore, in contrapposizione al
determinismo che contrassegnava gli studi razziali. (Mantegazza,
1876)
Di seguito utilizzò la fotografia
nella spedizione in Lapponia con Sommier nel 1879; scattò molte
fotografie “etnografiche”, in controtendenza all’uso
essenzialmente antropometrico della fotografia.
Si delineano due tipi di pratica
fotografica, come Giglioli e Zanetti le definirono nelle Istruzioni
per fare le osservazioni antropologiche ed etnologiche (1880): la
fotografia scientifica (quella antropometrica) e la fotografia
artistica, cioè la fotografia etnografica centrata sul rapporto tra
uomo e ambiente. Nelle Istruzioni veniva affermata una teoria
antropologica secondo cui ogni cultura poteva essere ricondotta a tre
ordini di bisogni fondamentali: materiali, morali e intellettuali.
Per gli antropologi fiorentini la fotografia doveva essere utilizzata
nelle esposizioni mussali (Museo di Antropologia e di Etnologia
fondato da Mategazza nel 1910 e il Museo Preistorico ed Etnografico
fondato da Pigorini) interagendo con gli oggetti nel senso di una
loro ri-contestualizzazione, documentandone i procedimenti di
fabbricazione e di uso.
La fotografia diventa quindi un oggetto
da conservare e catalogare, un oggetto da museo; sollecita la
costituzione di archivi e circola tra gli studiosi, le istituzioni
mussali e i centri di ricerca. E’ dalle fotografie che Boas prende
spunto per costruire i suoi life groups, ricostruzioni di
scene di vita quotidiana degli Indiani nordamericani realizzate sulla
base di un documento fotografico realizzato sul posto.
3. Malinowski e la fotografia
Fra le prime opere di etnografia che
hanno incluso fotografie nel testo si ricorda Primitive Art di
Franz Boas (1927 con 300 disegni e 15 fotografie), The Tikopia
di Raimond Firth (1936), The Nuer di Edward Evan
Evans-Pritchard (1940) The Forest People di Colin Turnbull
(1961).
Anche i sociologi usarono ampiamente la
fotografia: tra il 1896 e il 1916 l’ American Journal of
Sociology pubblicò ben 30 articoli che includevano fotografie
nel testo; oggi la sociologia ha sviluppato la subdisciplina chiamata
“sociologia visuale”.
Ancor prima vanno ricordate le
fotografie scattate da Bronislav Malinowski fra il 1914 e il 1918.
“il lavoro fotografico di Malinowski…
era il veicolo mediante cui l’etnologo impostava e sembrava
percepire, sempre più chiaramente, la sua metodologia
dell’”osservazione partecipante”, con un approccio che cercava
di entrare dentro la realtà.” (Ricci, 2004, p. 15)
Con Malinowski la fotografia da mero
strumento di riproduzione, qual era nella prospettiva positivista,
diventa strumento di osservazione capace di applicare un punto di
vista e di far vedere la realtà.
4. Mead, Bateson e la fotografia
Balinese Character (1942) di
Margaret Mead e Gregory Bateson può essere considerato la prima
etnografia basata principalmente sullo studio di fotografie
realizzate nel corso della ricerca sul campo. I due autori
utilizzarono allo stesso livello di interesse per l’elaborazione
teorica le fotografie, i film e le interviste. Il libro fu il
risultato di una ricerca durata dal 1936 al 1939 a Bali, durante la
quale furono scattate 25000 fotografie, di cui solo 759 pubblicate.
L’idea teorica di base era il
concetto di ethos, “un sistema culturalmente standardizzato
di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui.
Essendo una nozione sfuggente i due studiosi cercarono le fotografie
per visualizzare la loro idea di ethos balinese.
Il libro è organizzato in due parti:
la prima, un saggio introduttivo scritto da Mead, è strutturato come
un commento etnografico sugli argomenti trattati con il materiale
fotografico; la seconda parte del libro presenta le fotografie che
Bateson ha scattato, evidenziando gli interessi nella socializzazione
e nella sue parti che compongono l’ethos culturale balinese:
“orientamento spaziale e livelli”, “apprendimento”,
“integrazione e disintegrazione del corpo”, “orifizi del
corpo”, “gioco autocosmico”, “genitori e figli”,
“”consanguinei”, “stadi dello sviluppo infantile” e “riti
di passaggio”. Ogni tavola a pagina intera è accompagnata, nella
pagina opposta, da una spiegazione del contesto delle fotografie e da
didascalie di ogni singola immagine.
E’ chiaro che sia le immagini che lo
scritto sono ugualmente essenziali, ma (unicità della monografia)
c’è un certo grado di autonomia delle immagini. Mentre i testi
sarebbero non significativi senza le immagini corrispondenti, non è
vero il contrario. Le fotografie ci permettono di osservare il modo
in cui il particolare elemento culturale che hanno focalizzato viene
rappresentato in quel particolare momento. Una delle principali
modalità in cui questo si realizza è attraverso la stretta
prossimità delle immagini che sono state registrate in un tempo
relativamente breve. Ad es. la tavola 47 “Stimolo e frustrazione”
contiene nove immagini di una madre e il suo bambino documentate in
due minuti di azione. Possiamo, quindi, osservare le sequenze di
comportamento come se fossero prodotte in “tempo reale” e i modi
in cui ciascun gesto che interagisce trova risposta dall’altra
parte. E’ questo livello di dettaglio comportamentale che fonde
l’uso dell’immaginazione fotografica con la sua unicità. Nessun
altro etnografo ha tentato di usare i dati visivi in questo modo. Bateson
era impegnato in una sorta di analisi sequenziale o internazionale
ante litteram.
Alcuni anni dopo Bateson incluse nel
suo Naven 21 fotografie strettamente integrate con la
scrittura; rifiuta a priori l’idea dell’uso della documentazione
fotografica come funzione di prova e illustrazione del testo scritto.
Le fotografie si presentano come un corpus autonomo insieme alle
didascalie. Queste ultime integrano la scrittura aggiungendo quei
significati emotivi e sensoriali che sfuggono al linguaggio scritto;
“descrivono dettagliatamente l’immagine soffermandosi su dettagli
addirittura assenti, come… il suono prodotto da uno strumento, il
carattere di un individuo conosciuto dall’antropologo.. Tutto ciò
rivela l’inclusione del soggetto osservatore nella fotografia.”
(Marano, 1994°, p. 302)
5. Immagini e parole: le didascalie
Escludendo Balinese Character e Naven
la maggior parte delle pubblicazioni etnografiche limitano la
didascalia a poche parole che in genere non superano la dimensione di
un rigo.
Da un lato questa scelta sembra
suggerire l’ingenua idea che le immagini parlino da sole,
dall’altro la didascalia interverrebbe sull’immagine – che
parlerebbe da sola sì, ma in modo ambiguo – per rendere chiaro il
significato, razionalizzarlo e aiutare l’osservatore a “scegliere
il corretto livello di percezione” evitando di cadere in
interpretazioni troppo individuali o fuori luogo. (Barthes, 1985). Il
ruolo fondamentale delle didascalie viene messo anche in luce da un
sondaggio del National Geographic di alcuni anni fa in
cui emergeva che il 53% dei consumatori ignorava il testo limitandosi
a leggere le didascalie.
Ball e Smith partendo dall’idea che
la fotografia è polifemica e che il suo significato è stabilito
dalla cultura dell’osservatore, ci illustrano un caso dove
l’apporto di quest’ultimo è determinante e dove è evidente il
rischio di una cattiva comprensione, causata dall’etnocentrismo del
contenuto della fotografia. A partire dalla didascalia posta sotto la
foto “costruzione di una stalla per il bestiame” vediamo la
fotografia in un certo modo e ipotizziamo che la costruzione non sia
completata; immaginiamo poi come potrebbe essere completata e come
apparirà; tutto questo è basato sulla nostra comprensione culturale
generale e non sulla loro.
Se noi poi prendiamo gli scatti delle
canoe cerimoniali a Kiriwina non rendono conto della complessità
delle relazioni percettive che si stabiliscono tra questo oggetto e
l’occhio di un abitante dell’isola che non usa la prospettiva
rinascimentale, ma una resa prospettica che ricorda le opere del
primo cubismo di Picasso.
“Lo scatto fotografico è di per sé
poco significativo se deve memorizzare una forma espressiva di cui
non si conoscono i meccanismi di progettazione ed esecuzione. Ed è
del tutto inespressivo quando deve suggerire i significati simbolici
dell’immagine rappresentata”. (Scoditti, 2003, p.11-12)
6. Fotografie in esposizione
Nelle esposizioni la fotografia non
può fare a meno del linguaggio verbale.
Secondo la tradizione ci vuole un
pannello introduttivo con notizie sul fotografo, le occasioni e i
temi della mostra e brevissimi titoli che accompagnano le fotografie.
Il curatore della mostra poi può
integrare l’esposizione con rinvii intertestuali ai contesti di
produzione e di uso delle fotografie, ai contesti storici in cui le
foto sono state prodotte, integrando con oggetti e documenti, ecc.
Un esperimento riuscito, per quanto
riguarda il rapporto tra didascalie e immagini, è quello della
mostra Okiek Portraits. A Kenyan People Look at Themselves
curata da Corinne Kratz, allestita in Kenia e negli Stati Uniti tra
il 1989 e il 1997, poi confluita in un libro che è una riflessione
sull’occasione che l’esposizione ha offerto come terreno di
ricerca sui temi dello stereotipo, della riflessività, delle
relazioni sociali, dell’autorappresentazione culturale. (Kratz,
2002)
Sono stati esposti ritratti di
individui okiek (Kenia) in sequenza seguendo il ciclo della vita –
da bambini a giovani ai riti di iniziazione agli adulti agli anziani
-. E’ stato scelto il colore per le fotografie, per dare un preciso
senso di contemporaneità con i soggetti fotografati; anche la scelta
del ritratto è stata dettata dal desiderio di coinvolgere
l’osservatore nella vita degli Okiek e di evitare una
rappresentazione stereotipata dell’alterità.
Le didascalie – in kiswahili, okiek e
in inglese - esprimevano punti di vista diversi. Il testo delle
didascalie era suddiviso in quattro “zone”: nella parte superiore
i testi, redatti in Inglese e in Kiswahili, descrivono le persone e
ciò che stanno facendo. Nella parte inferiore, il dialogo in lingua
Okiek è estratto dai commenti che i nativi facevano osservando le
fotografie.
La mostra di Kratz ci dà l’occasione
di affermare che, dal punto di vista dell’etnografo, le fonti vanno
considerate nella trama di relazioni intertestuali in cui sono sempre
inserite. Sono infatti collegate ad altre tipi di fonti (orali,
scritte, sonore, visive, oggettuali) e, nel momento in cui per
comodità di analisi le separiamo, in realtà le rimuoviamo dal loro
contesto e ne semplifichiamo il significato. Rendere conto
dell’intertestualità diventa un momento irrinunciabile per la
coerenza e per la ricchezza della rappresentazione. Ana Maria Mauad
ha usato il concetto di intertestualità “per porre i
testi-immagine come le fotografie e i testi-parola come le interviste
di storia orale in una relazione dialogica. Entrambi i tipi di
testimonianza storica sono compresi come segmenti autonomi ma
collegati in un più ampio contesto culturale che genera
rappresentazioni del passato. Ciascun atto di interpretazione di un
testo è basato sull’interpretazione di altri testi correlati.”
(Mauad, 2022, p.215-216).
7. Rapporti tra fotografia popolare
e cultura visuale in India
Christopher Pinney, antropologo e
maggiore studioso di fotografia indiana, sostiene che lo sfondo nella
fotografia indiana prodotta nella città di Nagda “è uno spazio di
esplorazione.. spesso geografica” .
E se, secondo Pierre Bourdieu –
studioso francese- la fotografia tende a solennizzare un ruolo
sociale (marito, militare, ecc) Pinney afferma che, per quanto possa
essere vero anche per le fotografie a Nagda (discepolo-guru) le pose
inventate che spesso si ritrovano suggeriscono una intenzione
parodica nei confronti dei ruoli sociali. “lo studio fotografico
dventa un luogo non tanto per la solennizzazione del sociale, ma per
l’esplorazione individuale di quello che ancora non esiste nel
mondo sociale” la fotografia, per gli indiani, diventa un mezzo per
autorappresentarsi al di là delle convenzioni. I due elementi più
importanti nel gioco dell’autorappresentazione sono i gesti, il
costume e la scenografia. Ma ovviamente il fotografo interviene
sull’immagine apportando modifiche che si muovono nel campo
dell’inter-ocularità, una modalità che caratterizza la
cultura visuale popolare indiana del Novecento. Appaduray e
Breckenridge (1992) gli studiosi che hanno introdotto il concetto di
inter-ocularità, affermano che nell’India moderna “c’è
una profonda interdipendenza di vari luoghi e modi di vedere” e
questo intreccio di “esperienze oculari” sposta significati e
simboli da un ambito all’altro. Tuttavia secondo altri autori si
deve aggiungere l’inter-testualità: “il campo
dell’intertestualità – scrive Mankekar – si estende dalle
pubblicità e dai cartelloni che dominano il paesaggio urbano.. fino
alla proliferazione dei canali televisivi”. Per altri studiosi il
rinvio inter-oculare o inter-testuale prende il nome di
inter-visualità. Woodman Taylor, per esempio, ha concentrato
la sua analisi sul regime scopino del cinema popolare indiano,
rivelando come gli sguardi vengano utilizzati per sostituire il tatto
e in generale qual che il corpo non può fare o mostrare. Ha
individuato, poi, due tipi di sguardo: il drishti, sguardo
tenuto fermo su un punto focale, attivo nella religione e tipico
della relazione sacra tra un devoto e la divinità e il nazar,
presente nella tradizione poetica persiana e utilizzato per
trasferire sensazioni e emozioni tra gli amanti. In concreto la
inter-testualità visiva della fotografia popolare indiana si
manifesta con l’intersecazione e la sovrapposizione di diverse
tecniche e visioni che sottraggono alla fotografia il suo valore
testimoniale e ne accentuano le potenzialità creative. I fotografi
indiani non esitano a fare doppie esposizioni, fotomontaggi. I
notevoli collages esemplificano in due dimensioni tutto quello che la
fotografia rappresenta nel contesto di Nagda. La prima dimensione è
un compatto e costruito mondo onirico, che questa tecnologia rende
possibile. La seconda dimensione è il livello pittorico frantumato,
rotto dalla esuberante materialità del collage composto da frammenti
fotografici e zone di moduli dipinti con tratti di penna sovrapposta
che avvolge e circonda i ritratti principali.
La fotografia diventa il luogo in cui
confluiscono creativamente sguardi differenti sganciati dalla
referenzialità e capaci di sostenere dimensioni soggettive, emotive,
immaginarie.
8. Ex-voto fotografici
All’interno degli ex-voto trovano
posto anche gli ex-voto fotografici, costituiti essenzialmente da una
fotografia del devoto. La fotografia, nella cultura visuale popolare
contadina, è parte di sé.
Spesso sono polimaterici (prodotti
utilizzando materiali di diversa natura) sono da considerarsi forme
di passaggio dall’ex-voto pittorico a quello fotografico.
Sebbene sia importante analizzare il
contenuto delle immagini, la retorica del testo visivo, i modelli da
cui provengono le scelte dell’autore, non possiamo comprendere
realmente il senso e i significati che alle immagini vengono
attribuiti dai produttori e dai fruitori se trascuriamo di analizzare
l’intero contesto di circolazione e di fruizione.
L’immagine è stata prodotta da un
artigiano, a seguito di una committenza individuale o di gruppo; il
trasporto dell’immagine al santuario è atto fondamentale nel
contesto del pellegrinaggio; l’oggetto diventa carico penitenziale
da portare sul corpo dei devoti; una volta esposto il senso
dell’ex-voto passa dalle mani del devoto agli occhi dei visitatori;
il piano terreno apre un varco verso l’ultraterreno:, questi due
mondi sono visualizzati nel contatto del miracolo; c’è un effetto
potenza quando gli ex-voti sono affiancati e addensati l’uno
accanto all’altro sulle pareti del santuario.
9. Sulla materialità delle immagini
Si pone la questione della materialità
dell’immagine e della sua analisi come oggetto circolante in reti
sociali. Le immagini vengono fatte circolare per trasmettere idee
sulla società e sulla cultura e talvolta intorno ad esse si svolgono
lotte fra gruppi sociali, fra versioni differenti della cultura e
della società. E’ certamente la “mobilità” delle fotografie,
il loro spostarsi in diversi contesti di fruizione che dà alla
fotografia una forza di trasmissione di significati.
Francesco Faeta riconosce nell’analisi
della fotografia documentaria e etnografica relativa la Mezzogiorno
“un potente elemento performativo del contesto nazionale” (Faeta,
2005, p. 109)
Prima aveva puntato l’attenzione
sulla materialità delle immagini e degli ex-voto di cera.
Lo statuto ibrido delle fotografie , di
essere immagini e allo stesso tempo oggetti si rileva negli album di
famiglia – la foto si muove fra ricordo visivo di persone care e
oggetto di famiglia da ereditare e trasmettere ai discendenti - ; le
foto vengono fatte circolare, spedite, collezionate, raccolte. Nei
lavori più recenti Edwards enfatizza lo statuto di oggetto delle
fotografie: “ le fotografie esistono materialmente nel mondo, come
depositi chimici su carta, come immagini montate su una molteplicità
di supporti di diverse dimensioni, colori e decorazioni”. Si tratta
di un importante spostamento verso una “prospettiva materiale”
(material turn) con cui si è abbandonato lo studio
“feticistico” degli oggetti a favore di una contestualizzazione
all’interno delle reti di scambio e circolazione in cui esse – e
le immagini – sono inevitabilmente collocati. Una conseguenza è
che la materialità riguarda da vicino la “biografia sociale”:
“gli oggetti sono implicati e attivi in relazioni sociali, non sono
entità meramente passive in questi processi.” (Edwards, Hart,
2004, p.4).
La forma degli oggetti immagine
determina anche la modalità di fruizione:
grandi album vanno aperti sulle
ginocchia – legano le persone del gruppo determinando le relazioni
sociali dell’osservazione;
piccoli album tenuti in mano
suggeriscono una relazione privata con l’oggetto; guardarlo insieme
ad un’altra persona richiede maggiore intimità.
Le immagini possono essere trasferite e
ricontestaulizzate su altri supporti – cellulari, magliette,
bottiglie… E’ il caso del Print Club o purikura studiati
da Chalfen e Murui (2004). In Giappone Print Club, conosciuto come
Purinto Kurabu, o Purikura è molto diffuso. Si tratta
di una cabina per fotografie digitali che in pochissimo tempo produce
una pagina di foto (16-20) adesive a colori. Purikura sono un po’ i
discendenti dei manifesti “Wanted!”, dei calendari con le
immagini dei propri bambini o delle fototessere scambiate tra amici.
10. Fotografare
vanno ricordati i contributi di John e
Malcom Collier per la loro fiducia nella capacità riproduttiva e
documentativa della macchina fotografica. Dividono la ricerca
etnografica in tre fasi:
- l’etnografo si guarda intorno, cerca le informazioni fondamentali per individuare l’obiettivo
- fa domande agli informatori attraverso test, questionari, interviste strutturate. Possono intervenire studiosi di altri ambiti disciplinari
- sintesi astrattiva dei risultati ottenuti.
La fotografia entra nella ricerca
etnografica coadiuvando il ricercatore a raggiungere i suoi scopi.
Contrasta l’affievolirsi dei ricordi mantenendo vive le prime
impressioni sulla “vivacità di una cultura altra”. Quando, poi,
il ricercatore è nel vivo della sua ricerca sul campo la macchina
fotografica diventa un importante strumento di mediazione; per es.
nello studio sul mutamento tecnologico in una comunità di pescatori
canadesi sono loro stessi a suggerire le postazioni da cui ottenere
le migliori fotografie una “opportunità di collaborazione.. che
crea una solida base per la relazione” e poi chiederanno di
controllarle. Si apre uno spazio per l’interazione con gli
informatori, quindi una relazione più stretta, che permette
l’ampliarsi del cerchio delle conoscenze.
La fotografia può, inoltre,
restituirci immagini del territorio attraverso punti di vista ampi
che coprono porzioni di paesaggio rilevanti, fino alle fotografie
aeree; ci danno quindi informazioni sulle interazioni uomo-ambiente,
economia, sfruttamento del suolo, ecc.
In relazione all’ambiente domestico
ci offre informazioni sull’estetica delle decorazioni, quali segni
di ospitalità, quali attività degli abitanti .. può essere
utilizzata per stimolare gli informatori a fornirci notizie del
passato, si parla di photo-elicitation (vd paragrafo 11)
Il lavoro dei Collier e quello
successivo di Jon Prosser (1998) hanno costituito due tappe
fondamentali per o sviluppo dei visual methods – un
approccio di confine tra sociologia e antropologia e primo segnale
dell’approssimarsi dei visual studies – precedendo di
qualche anno il “boom” dell’antropologia visuale.
Collier e Prosser sono stati criticati
per l’uso di una prospettiva oggettivista, fiduciosa nella capacità
della fotografia di prolungarsi nell’osservazione laddove il
ricercatore non può.
Nella sua critica al lavoro dei
Collier, Sarah Pink scrive che, con un metodo teso a fornire solide
basi “oggettive” al lavoro dell’etnografo con la macchina
fotografica, i Collier non si rendono conto che il tentativo di
rappresentare una totalità finisce per essere una verità parziale,
una “finzione” come le altre. La collaborazione con gli
informatori non è auspicabile per la definizione del Significato, la
per cogliere la frammentazione caleidoscopica di una visione e di un
significato che cambia ogni volta che la fotografia passa di mano. La
collaborazione, nel senso usato dai Collier, è strumentale al
progetto “già dato” dell’etnografo e gli informatori non
collaborano consapevolmente alla ricerca i cui obiettivi restano
“segreti”. Al contrario, nel senso contemporaneo, fondato
nell’antropologia postmoderna e interpretativa, la collaborazione è
parte integrante della ricerca etnografica, dal momento che l’oggetto
della ricerca è anche lo studio della relazione stessa tra
l’etnografo e i nativi; è all’interno di questa relazione che si
negoziano i significati, che l’etnografo e i nativi riflettono,
ciascuno sulle rispettive pratiche culturali. Si profilano per la
Pink due tipi di ricerca, aperta (overt) e coperta (covert);
solo nel primo caso la collaborazione del nativo è consapevole, nel
secondo le finalità e le modalità di presentazione dei risultati
sono a conoscenza del solo ricercatore.
La presenza della macchina fotografica
durante le interazioni fra l’etnografo e i nativi è un fattore da
non trascurare; essa modifica e dirige la relazione in una direzione
precisa. Etnografi e etnofotografi dovrebbero dunque essere
consapevoli delle implicazioni prodotte dall’uso
dell’apparecchiatura e delle teorie che fondano la rappresentazione
visiva; devono inoltre comprendere che la presenza della macchina
fotografica interviene nella relazione con l’informatore ed è
auspicabile che preventivamente conoscano la cultura visuale degli
informatori e gli specifici significati che essi attribuiscono alle
fotografie. Tali condizioni costituiscono il frame di un
approccio riflessivo; questo comporta, secondo Pink, «innanzitutto
sviluppare una coscienza di come gli etnografi giochino il loro ruolo
di fotografi in particolari contesti, di come inquadrino particolari
immagini e perché scelgano determinati soggetti; in secondo luogo,
una considerazione di come queste scelte siamo collegate alle
aspettative tanto delle discipline accademiche che delle culture
visuali locali; infine, una consapevolezza delle teorie della
rappresentazione che informano le loro fotografie. Talvolta è utile
tenere un diario riflessivo sullo sviluppo di una pratica fotografica
e delle intenzioni e idee che stavano alla base quando si realizzava
ciascuna immagine» (ivi, p. 57).
Un’esigenza di consapevolezza è
richiesta anche da Francesco Faeta il quale ci avverte
dell’incertezza nei riguardi «della descrizione fotografica perché
conserva tracce indicali, non afferisce soltanto all’autore, ma
anche ai suoi oggetti d’indagine, comporta una componente peculiare
nel processo creativo che è quella della situazione fotografica»
(Faeta, 2003, p. 105).
Tale “incertezza” trova appoggio
teorico nella nozione benjaminiana di inconscio ottico; quella
capacità della fotografia di offrirci qualcosa al di là
dell’immediato dato visibile, al di là della prima apparenza
morfologica, qualcosa che il fotografo non vede nel mirino quando
scatta. Ciò non toglie che la fotografia sia innanzitutto, dice
Faeta, un «costrutto autoriale» evitando così la trappola
implicita nel concetto di inconscio. Le immagini sono, afferma Faeta
sulla scorta teorica di Wittgenstein, concretizzazioni dei nostri
modelli di rappresentazione della realtà (ivi, p. 106)
Scrive Faeta: «Una fotografia poco
testimonierà del reale, dunque; molto del suo autore e della
situazione che ha creato: di un campo di tensione, di un modulo
conoscitivo, che sono quelli dell’osservazione e della sue messa in
codice. Una fotografia documenta essenzialmente un’attività,
centrale nei processi di conoscenza e formazione della società e
della cultura, quella dell’osservazione, appunto: il suo autore, le
sue convenzioni, le sue norme, i suoi codici di traduzione in forma,
le sue funzioni, i valori che vi presiedono» (ivi, p. 7).
Sembrerebbe a questo punto che la
fotografia abbia smarrito il suo referente reale e con esso la sua
valenza cognitiva e etno-grafica; tuttavia in essa rimane il senso
della traccia, ma di che cosa? La fotografia “è indispensabile
fonte di conoscenza antropologica non soltanto perché ripete
sinteticamente e in modo verosimile forme della realtà, ma in quanto
contribuisce a svelare la logica dell’osservazione e la ricezione
ditale logica nell’ambito della cultura osservata.” (ibidem)
Per fare questo bisogna, secondo Faeta,
adottare alcuni “accorgimenti teorici”; innanzitutto è
necessario riconoscere che la fotografia agisce come una sorta di
“setaccio” della realtà rendendo quest’ultima morfologicamente
disponibile all’osservazione; essa “svela, attraverso la sua
finzione, la struttura della realtà che rappresenta… nella
direzione del levare realtà per giungere al segno e all’astrazione”
(ivi, p. 108). In secondo luogo la fotografia anche nasconde, occulta
gli intervalli tra una immagine e l’altra e fa di quelle immagini
potenzialmente dei costrutti simbolici -metonimici, direi.
L’operazione stessa del vedere consiste nel portare il mondo fuori
di sé, nell’oggettivarlo, nel portarlo dinanzi agli occhi per
essere guardato…. questa operazione di oggettivazione ha come primo
risultato una soggettivazione dell’io, proprio in quanto distinto
dal mondo. Che l’atto del vedere sia un’operazione costruttiva e
non naturale è dato dal fatto che non tutti vedono le stesse cose e
che all’interno della stessa cultura si tende a vedere in modo
culturalmente condivisibile con la collettività. La macchina
fotografica si adeguai alla visione del fotografo e, anzi, la esalta
enfatizzando ciò che essa occulta e ciò che pone in evidenza.
Infine bisogna individuare il «grado di difformità della
rappresentazione fotografica rispetto al reale»: essa è somigliante
alla realtà che intende rappresentare e, nonostante per molti
aspetti ne resti lontana quel carattere di isomorfismo costituisce un
legame con la realtà che va recuperato e utilizzato ponendolo in
comparazione incrociando i “dati” visivo con quelli provenienti
da altre fonti documentarie. Questa capacità di “dire le cose”
o, meglio, di farsi leggere, fonda il suo essere linguaggio sotto
qualche forma e di possedere pertanto una grammatica e una sintassi
(ivi, p. 114) che si esprimono attraverso tre moduli fondamentali:
l’istantanea, il ritratto e la sequenza.
L’istantanea è un tipo di scatto
fotografico prodotto senza la partecipazione consapevole dei soggetti
fotografati e senza una particolar attenzione “registica” del
fotografo
Secondo Faeta l’istantanea va
utilizzata soprattutto come documento da confrontare con altri tipi
di documenti visivi (stampe, disegni, fotogrammi da film) per
misurare lo scarto fra l’osservazione diretta e quella prodotta con
gli strumenti di registrazione.
Il ritratto, una modalità visiva
ampiamente utilizzata da Faeta nel suo Nelle Indie di quaggiù
(Faeta, 1996), è il «luogo iconico dell’incontro», un tipo di
rappresentazione dell’altro che si deve inserire nella ricerca solo
quando la relazione tra chi fotografa e chi è fotografato si sia
posta su un piano di fiducia o collaborazione. La visione del
ritratto da parte dei soggetti fotografati, deve poter fornire
informazioni su1 fotografo-ricercatore, «il suo rispetto nei loro
confronti, la logica di fondo dell’indagine» (ivi, p. 120).
La sequenza fotografica, infine, ci
consente di descrivere un evento nel suo svolgersi nel tempo; isola
degli istanti, le fotografie, che comparati fra loro mostrano il
non-fotografato che li separa, riducendone così la portata
metonimica che ogni singola immagine tende ad assumere nei confronti
della “totalità” cui si riferisce. La sequenza può modellarsi
su tre diversi tipologie: fissa, quando il fotografo non si
muove mai dalla sua postazione e costruisce la sequenza da
quell’unico punto di vista; libera, quando appunto
l’etnofotografo si muove liberamente sulla scena dell’evento
cercando di seguirne lo svolgimento; infine la sequenza mobile:
qui il fotografo programma i punti di vista da cui fotografare.
Con questo termine si intende l’uso
delle fotografie come stimolo alla memoria e alla narrazione in
genere. La pratica è stata descritta dai Collier (1986) con il nome
di foto-intervista e consiste nell’utilizzare le fotografie in
quanto «strumenti con cui ottenere conoscenza oltre quella
fornita dall’analisi diretta» delle immagini (Collier, Collier,
1986, p. 99). Collier propone una sequenza di atti da compiere per
realizzare una buona foto-intervista: «Il passo preliminare
all’intervista è cercare qualcuno che risponda alla tue domande,
preferibilmente qualcuno adeguato. Il secondo è farsi invitare a
casa dell’informatore, e infine essere capace di ritornare per
interviste successive» (ivi, p. 105). Nella foto intervista i ruoli
si ribaltano: è l’informatore l’esperto, ed è più facile che
egli racconti spontaneamente: «i fatti sono nelle immagini; gli
informatori non devono sentire che stanno diffondendo delle
confidenze», L’antropologo prenderà nota sul taccuino e sembrerà
che stia prendendo appunti riguardo alla fotografie, non alla vita
dell’informatore (ivi, p. 107),
L’approccio di Collier è stato
criticato da Sarah Pink per la prospettiva oggettivista adottata,
secondo la quale “i fatti sono nelle immagini” e le persone che
hanno vissuto gli eventi fotografati possono estrarli e
presentarceli. Altri studiosi hanno preso le distanze da questo
approccio; Harper, per esempio, ha connesso l’uso della fotografia
all’interno della new ethnography che, sorta dalla critica
all’oggettivismo etnografico, pone la presenza e l’esperienza del
ricercatore come un elemento imprescindibile e creativo della
ricerca. La photo elicitation, per Harper, non è un modo per
trovare conferma alle ipotesi, alla visione predefinita e
visualizzata dall’etnografo nelle fotografie, ma un modo per
ridefinire la relazione con l’informatore e riaprire il dialogo.
Patrizia Faccioli, impegnata nel campo
della sociologia visuale, rileva le implicazioni relazionali e le
loro conseguenze sul frame della ricerca: «Dal momento che le
immagini possono non avere per il ricercatore lo stesso significato
che hanno per il soggetto, questi realizza che la sua visione del
mondo è diversa da quella di colui che ha posto la domanda e che il
suo dato-per-scontato non è dato-per-scontato dal ricercatore.
L’intervistato è quindi incoraggiato a spiegare meglio il suo
mondo di significati, mentre il ricercatore, dal canto suo, riesce a
vedere le cose dal punto di vista del soggetto. Il focus della
comunicazione diventa allora l’immagine, piuttosto che una domanda
che rischia di influenzare e organizzare le percezioni degli
intervistati dentro le categorie concettuali del ricercatore... L’uso
della foto come stimolo nel corso di un’intervista produce
un’interazione diversa fra osservatore e osservato, nel senso che
può accorciare le distanze, sia perché non possiede la connotazione
forte del linguaggio, sia perché il focus della comunicazione
si sposta dall’intervistato alla fotografia» (Faccioli, 1997, p.
42).
Harper suddivide gli studi con
photo-elicitation in quattro ambiti di applicazione.
1. Organizzazione sociale/classe
sociale/famiglia: comprende «studi sulle foto di famiglia, libri
che documentano movimenti di educazione del popolo …….organizzazione
sociale di un villaggio indonesiano» (Harper, 2002, p. 16). In
questo ambito sono presenti, in genere, fotografie che documentano la
vita sociale, anche prodotte dagli stessi soggetti della ricerca
2. Etnografia storica e comunità:
questa area di indagini fa riferimento agli studi di Suchar e
Rotenberg sulla gentrification, un termine che si riferisce al
processo di insediamento e appropriazione simbolica di un quartiere
popolato da bassi strati sociali da parte di nuovi residenti
appartenenti alla classe media. Suchar, attraverso le sue fotografie,
ha mostrato come «i residenti urbani trasformino i quartieri
cittadini basandosi su strategie che provengono dalle loro identità
e luoghi d’origine. I ritratti sono contestualizzati nell’ambiente
e rappresentano sia i nuovi che i vecchi residenti; i soggetti sono
collocati nei loro appartamenti e case, circondati dagli oggetti con
cui definiscono il loro spazio. Questo campo di applicazione delle
fotografie deve, secondo Harper. avvalersi di fotografie d’epoca di
almeno sessanta-settanta anni prima, perché l’osservazione delle
immagini deve riportare soggetti alle loro esperienze più antiche
per ricostruire una memoria della comunità.
3. Identità: questa area di
studi basati sulla photo-elicitation include indagini volte a
esaminare «l’identità sociale di fanciulli, drogati, emigrati di
diversi gruppi etnici.. e autobiografie visuali» (ivi, p. 18)
4. Cultura/Studi culturali:
Harper sintetizza i cultural studies come «interpretazione
dei segni» e indica nella photo-elicitation un “antidoto” alla
critica di generalismo che colpisce i cultural studies, offrendoci
l’esempio di alcuni studi sulla pubblicità in cui
l’interpretazione associata alle immagini riesce a
contestualizzarsi nel vissuto di specifiche persone, e di altri
studi in cui la cui la cultura visiva locale viene individuata sulla
base dei commenti che le persone danno a ciò che vedono nelle
fotografie loro mostrate.
Il metodo della photo-elicitation
è utilizzato quindi sopratutto nell’ambito della ricerca
sociologica; è vero però che anche gli antropologi talvolta lo
usano, senza catalogarlo come photo-elicitation.
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