11 febbraio 2014

CAMERA ETNOGRAFICA STORIE E TEORIE DI ANTROPOLOGIA VISUALE Parte Seconda (2/6)


2. Fotografia ed etnografia



1.Fotografie in transito


Per la creazione della macchina fotografica ottica due elementi sono stati rilevanti: la camera oscura e la capacità di alcuni prodotti di reagire alla luce.

E’ facile pensare alla fotografia come una traccia veritiera della realtà, dimenticandosi che la leggibilità della fotografia è il risultato di un processo di manipolazione dei materiali.

La somiglianza tra l’oggetto fotografato e il suo referente reale non è un dato naturale, ma il risultato di un lavoro materiale e semiotico che riguarda un oggetto, la fotografia, e il suo significato. Nella produzione di una fotografia sono presenti tutti e tre i tipi di segno iconico individuati da Charles Sanders Peirce: indice - segno che deriva dal referente – (nel momento dell’impressione della pellicola); icona – che riproduce del referente alcuni elementi morfologici che rinviano ad esso – (nel momento della stampa); simbolo – segno totalmente culturale con la capacità di veicolare significati – (nel corso delle interpretazioni e degli investimenti di significato attribuiti).

Beatrix Heintze propone una distinzione tra contesto di produzione, contesto di uso e contesto di ricezione della fotografia, evidenziando come il primo sia una volta per tutte, mentre gli ultimi due cambiano continuamente, rendendo la fotografia simile ad un camaleonte che muta colore a seconda dell’ambiente in cui è collocata. Saper distinguere e cogliere i transiti di senso da un contesto all’altro è di fondamentale importanza quando analizziamo documenti fotografici.

Il contesto di produzione comprende tutte le informazioni che riguardano il fotografo e l’ambiente culturale, storico e politico che nel loro insieme hanno condizionato il modo in cui la fotografia è stata prodotta. Quello non considerato dall’autore è che l’atto stesso del fotografare diventa un’operazione di senso in quanto performance (matrimonio non è concepibile senza fotografi x es. o un discorso pubblico di un uomo politico locale acquista più autorità se sono presenti fotografi); non considerato è anche lo stato della tecnologia coeva alla fotografia.

Rochelle Kolodny ha individuato tre modalità di strutturazione dell’immagine in relazione alla realtà: il romanticismo, che trasfigura la realtà nel mito; il realismo, che comunica fatti; la modalità documentaria che descrive la realtà applicandovi un punto di vista. Le tre modalità sono intrecciate e possono cambiare nel corso del tempo – una fotografia romantica può diventare un documento nei decenni successivi.

Il contesto d’uso riguarda gli specifici frame nei quali la fotografia è inserita, per es. una pubblicazione, una mostra, la vetrina di un museo..

Il contesto di ricezione riguarda i fruitori e l’occasione in cui il testo di /con fotografie viene osservato.

L’etnograficità di una immagine non è una qualità essenziale ontologicamente posseduta dal contenuto della fotografia, ma una caratteristica che essa assume all’interno di un discorso e di determinate finalità scientifiche di tipo antropologico.

C’è illustrato il caso del fotomontaggio di famiglia studiato dall’autore del libro.. di un italiano emigrato in America che aveva bisogno per un senso di appartenenza di una foto che attestasse lo status di adulto-sposato agli occhi degli altri italiani (p.46-47)

Un’altra modalità attraverso cui le foto cambiano contesto è lo scambio, reso possibile dal momento in cui le stampe fotografiche diventano riproducibili a basso costo. La Grande Esposizione del 1851 tenutasi a Londra è il punto di partenza di questi scambi grazie ai quali si sono formate le collezioni.



2. La fotografia nell’era del positivismo


Nella sua prima fase la fotografia venne utilizzata come indice, traccia veritiera della realtà.

In questa fase storica Charles Darwin, nel suo studio sulle emozioni, utilizzò le fotografie (realizzate dal fotografo Oscar Rejlander) per dimostrare la veridicità delle tesi esposte; non esitò ad intervenire sulle fotografie per enfatizzare gli elementi pertinenti e rimuovere quelli non coerenti.

Darwin era stato sollecitato agli studi fisiognomici da un precedente lavoro del medico fotografo Guillaume-Benjamin-Armand Duchenne che si era interessato della fisionomia nella malattia mentale. Martha Braun rileva che “l’opera di Guillaume Duchenne de Boulogne si verifica all’incontro delle tre più importanti conquiste del XIX secolo: l’elettricità, la fisiologia e la fotografia”. L’interesse per il corpo umano e la sua fisiologia non sarebbe stato possibile senza la fotografia e grazie all’elettricità si è giunti al perfezionamento delle macchine da presa.

Duchenne evidenzia l’importanza dell’uso della luce per sopperire alla mancanza di profondità di campo e per meglio rendere la disposizione muscolare nell’atto dell’espressione delle emozioni.

Oltre che per la fisionomica nell’epoca positivistica la fotografia veniva utilizzata anche per l’antropometria, cioè per ottenere informazioni sulle caratteristiche fisiche e anatomiche dei soggetti ritratti: altezza, lunghezza, forma della mano, capelli.. dati che servivano a collocare gli individui entro determinate categorie razziali e stadi evolutivi.

Un terzo tipo, la fotografia etnologica, era impiegato per riportare le caratteristiche esotiche dei popoli lontani (cultura materiale, rituali).

In Italia la fotografia fu al centro di una disputa fra Enrico Giglioli e Paolo Mantegazza avvenuta nel 1897 sulle pagine dell’Archivio per l’Antropologia e l’Etnografia, a proposito dei Nuovi Guineani e dei Maori.

Per Giglioli, basandosi sul metodo fisionomico, i principali tipi Politesi erano cinque.

Per Mantegazza, secondo il metodo craniometrico, erano tre.

Il mutamento importante è che il dato craniometrico si riferiva a misure, il dato visivo si riferisce a forme che rilevano qualità grazie alle quali gli esseri umani sono ascritti a determinati tipi razziali.

Ecco a questo punto porsi il problema della rappresentatività. Fino a che punto un determinato individuo può essere rappresentativo di un tipo razziale? Galton , psicologo legato a Rivers, individuò un metodo conosciuto come “metodo Galton”: si costruiva un ritratto sovrapponendo più fotografie scattate nello stesso modo, per esaltare i caratteri fisiognomici comuni; in tal modo la fotografia avrebbe prodotto “da sé” senza intervento umano il tipo razziale, il “mostro do Galton” come definito da Mazzacane. Esempio chiarissimo di positivista fiducia nella scienza e di come la fotografia si fosse perfettamente integrata nel paradigma oggettivista ottocentesco.

In Italia i protagonisti della scena antropologica di fine XIX secolo - Mantegazza, Loria, Giglioli, tutti della scuola fiorentina – prestarono molta attenzione alla fotografia integrandola in tutti gli aspetti della ricerca.

Mantegazza, per primo, avviò una ricerca sull’espressione del dolore, in contrapposizione al determinismo che contrassegnava gli studi razziali. (Mantegazza, 1876)

Di seguito utilizzò la fotografia nella spedizione in Lapponia con Sommier nel 1879; scattò molte fotografie “etnografiche”, in controtendenza all’uso essenzialmente antropometrico della fotografia.

Si delineano due tipi di pratica fotografica, come Giglioli e Zanetti le definirono nelle Istruzioni per fare le osservazioni antropologiche ed etnologiche (1880): la fotografia scientifica (quella antropometrica) e la fotografia artistica, cioè la fotografia etnografica centrata sul rapporto tra uomo e ambiente. Nelle Istruzioni veniva affermata una teoria antropologica secondo cui ogni cultura poteva essere ricondotta a tre ordini di bisogni fondamentali: materiali, morali e intellettuali. Per gli antropologi fiorentini la fotografia doveva essere utilizzata nelle esposizioni mussali (Museo di Antropologia e di Etnologia fondato da Mategazza nel 1910 e il Museo Preistorico ed Etnografico fondato da Pigorini) interagendo con gli oggetti nel senso di una loro ri-contestualizzazione, documentandone i procedimenti di fabbricazione e di uso.

La fotografia diventa quindi un oggetto da conservare e catalogare, un oggetto da museo; sollecita la costituzione di archivi e circola tra gli studiosi, le istituzioni mussali e i centri di ricerca. E’ dalle fotografie che Boas prende spunto per costruire i suoi life groups, ricostruzioni di scene di vita quotidiana degli Indiani nordamericani realizzate sulla base di un documento fotografico realizzato sul posto.



3. Malinowski e la fotografia


Fra le prime opere di etnografia che hanno incluso fotografie nel testo si ricorda Primitive Art di Franz Boas (1927 con 300 disegni e 15 fotografie), The Tikopia di Raimond Firth (1936), The Nuer di Edward Evan Evans-Pritchard (1940) The Forest People di Colin Turnbull (1961).

Anche i sociologi usarono ampiamente la fotografia: tra il 1896 e il 1916 l’ American Journal of Sociology pubblicò ben 30 articoli che includevano fotografie nel testo; oggi la sociologia ha sviluppato la subdisciplina chiamata “sociologia visuale”.

Ancor prima vanno ricordate le fotografie scattate da Bronislav Malinowski fra il 1914 e il 1918.

“il lavoro fotografico di Malinowski… era il veicolo mediante cui l’etnologo impostava e sembrava percepire, sempre più chiaramente, la sua metodologia dell’”osservazione partecipante”, con un approccio che cercava di entrare dentro la realtà.” (Ricci, 2004, p. 15)

Con Malinowski la fotografia da mero strumento di riproduzione, qual era nella prospettiva positivista, diventa strumento di osservazione capace di applicare un punto di vista e di far vedere la realtà.



4. Mead, Bateson e la fotografia


Balinese Character (1942) di Margaret Mead e Gregory Bateson può essere considerato la prima etnografia basata principalmente sullo studio di fotografie realizzate nel corso della ricerca sul campo. I due autori utilizzarono allo stesso livello di interesse per l’elaborazione teorica le fotografie, i film e le interviste. Il libro fu il risultato di una ricerca durata dal 1936 al 1939 a Bali, durante la quale furono scattate 25000 fotografie, di cui solo 759 pubblicate.

L’idea teorica di base era il concetto di ethos, “un sistema culturalmente standardizzato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui. Essendo una nozione sfuggente i due studiosi cercarono le fotografie per visualizzare la loro idea di ethos balinese.

Il libro è organizzato in due parti: la prima, un saggio introduttivo scritto da Mead, è strutturato come un commento etnografico sugli argomenti trattati con il materiale fotografico; la seconda parte del libro presenta le fotografie che Bateson ha scattato, evidenziando gli interessi nella socializzazione e nella sue parti che compongono l’ethos culturale balinese: “orientamento spaziale e livelli”, “apprendimento”, “integrazione e disintegrazione del corpo”, “orifizi del corpo”, “gioco autocosmico”, “genitori e figli”, “”consanguinei”, “stadi dello sviluppo infantile” e “riti di passaggio”. Ogni tavola a pagina intera è accompagnata, nella pagina opposta, da una spiegazione del contesto delle fotografie e da didascalie di ogni singola immagine.

E’ chiaro che sia le immagini che lo scritto sono ugualmente essenziali, ma (unicità della monografia) c’è un certo grado di autonomia delle immagini. Mentre i testi sarebbero non significativi senza le immagini corrispondenti, non è vero il contrario. Le fotografie ci permettono di osservare il modo in cui il particolare elemento culturale che hanno focalizzato viene rappresentato in quel particolare momento. Una delle principali modalità in cui questo si realizza è attraverso la stretta prossimità delle immagini che sono state registrate in un tempo relativamente breve. Ad es. la tavola 47 “Stimolo e frustrazione” contiene nove immagini di una madre e il suo bambino documentate in due minuti di azione. Possiamo, quindi, osservare le sequenze di comportamento come se fossero prodotte in “tempo reale” e i modi in cui ciascun gesto che interagisce trova risposta dall’altra parte. E’ questo livello di dettaglio comportamentale che fonde l’uso dell’immaginazione fotografica con la sua unicità. Nessun altro etnografo ha tentato di usare i dati visivi in questo modo. Bateson era impegnato in una sorta di analisi sequenziale o internazionale ante litteram.

Alcuni anni dopo Bateson incluse nel suo Naven 21 fotografie strettamente integrate con la scrittura; rifiuta a priori l’idea dell’uso della documentazione fotografica come funzione di prova e illustrazione del testo scritto. Le fotografie si presentano come un corpus autonomo insieme alle didascalie. Queste ultime integrano la scrittura aggiungendo quei significati emotivi e sensoriali che sfuggono al linguaggio scritto; “descrivono dettagliatamente l’immagine soffermandosi su dettagli addirittura assenti, come… il suono prodotto da uno strumento, il carattere di un individuo conosciuto dall’antropologo.. Tutto ciò rivela l’inclusione del soggetto osservatore nella fotografia.” (Marano, 1994°, p. 302)



5. Immagini e parole: le didascalie


Escludendo Balinese Character e Naven la maggior parte delle pubblicazioni etnografiche limitano la didascalia a poche parole che in genere non superano la dimensione di un rigo.

Da un lato questa scelta sembra suggerire l’ingenua idea che le immagini parlino da sole, dall’altro la didascalia interverrebbe sull’immagine – che parlerebbe da sola sì, ma in modo ambiguo – per rendere chiaro il significato, razionalizzarlo e aiutare l’osservatore a “scegliere il corretto livello di percezione” evitando di cadere in interpretazioni troppo individuali o fuori luogo. (Barthes, 1985). Il ruolo fondamentale delle didascalie viene messo anche in luce da un sondaggio del National Geographic di alcuni anni fa in cui emergeva che il 53% dei consumatori ignorava il testo limitandosi a leggere le didascalie.

Ball e Smith partendo dall’idea che la fotografia è polifemica e che il suo significato è stabilito dalla cultura dell’osservatore, ci illustrano un caso dove l’apporto di quest’ultimo è determinante e dove è evidente il rischio di una cattiva comprensione, causata dall’etnocentrismo del contenuto della fotografia. A partire dalla didascalia posta sotto la foto “costruzione di una stalla per il bestiame” vediamo la fotografia in un certo modo e ipotizziamo che la costruzione non sia completata; immaginiamo poi come potrebbe essere completata e come apparirà; tutto questo è basato sulla nostra comprensione culturale generale e non sulla loro.

Se noi poi prendiamo gli scatti delle canoe cerimoniali a Kiriwina non rendono conto della complessità delle relazioni percettive che si stabiliscono tra questo oggetto e l’occhio di un abitante dell’isola che non usa la prospettiva rinascimentale, ma una resa prospettica che ricorda le opere del primo cubismo di Picasso.

“Lo scatto fotografico è di per sé poco significativo se deve memorizzare una forma espressiva di cui non si conoscono i meccanismi di progettazione ed esecuzione. Ed è del tutto inespressivo quando deve suggerire i significati simbolici dell’immagine rappresentata”. (Scoditti, 2003, p.11-12)



6. Fotografie in esposizione 
 

Nelle esposizioni la fotografia non può fare a meno del linguaggio verbale.

Secondo la tradizione ci vuole un pannello introduttivo con notizie sul fotografo, le occasioni e i temi della mostra e brevissimi titoli che accompagnano le fotografie.

Il curatore della mostra poi può integrare l’esposizione con rinvii intertestuali ai contesti di produzione e di uso delle fotografie, ai contesti storici in cui le foto sono state prodotte, integrando con oggetti e documenti, ecc.

Un esperimento riuscito, per quanto riguarda il rapporto tra didascalie e immagini, è quello della mostra Okiek Portraits. A Kenyan People Look at Themselves curata da Corinne Kratz, allestita in Kenia e negli Stati Uniti tra il 1989 e il 1997, poi confluita in un libro che è una riflessione sull’occasione che l’esposizione ha offerto come terreno di ricerca sui temi dello stereotipo, della riflessività, delle relazioni sociali, dell’autorappresentazione culturale. (Kratz, 2002)

Sono stati esposti ritratti di individui okiek (Kenia) in sequenza seguendo il ciclo della vita – da bambini a giovani ai riti di iniziazione agli adulti agli anziani -. E’ stato scelto il colore per le fotografie, per dare un preciso senso di contemporaneità con i soggetti fotografati; anche la scelta del ritratto è stata dettata dal desiderio di coinvolgere l’osservatore nella vita degli Okiek e di evitare una rappresentazione stereotipata dell’alterità.

Le didascalie – in kiswahili, okiek e in inglese - esprimevano punti di vista diversi. Il testo delle didascalie era suddiviso in quattro “zone”: nella parte superiore i testi, redatti in Inglese e in Kiswahili, descrivono le persone e ciò che stanno facendo. Nella parte inferiore, il dialogo in lingua Okiek è estratto dai commenti che i nativi facevano osservando le fotografie.

La mostra di Kratz ci dà l’occasione di affermare che, dal punto di vista dell’etnografo, le fonti vanno considerate nella trama di relazioni intertestuali in cui sono sempre inserite. Sono infatti collegate ad altre tipi di fonti (orali, scritte, sonore, visive, oggettuali) e, nel momento in cui per comodità di analisi le separiamo, in realtà le rimuoviamo dal loro contesto e ne semplifichiamo il significato. Rendere conto dell’intertestualità diventa un momento irrinunciabile per la coerenza e per la ricchezza della rappresentazione. Ana Maria Mauad ha usato il concetto di intertestualità “per porre i testi-immagine come le fotografie e i testi-parola come le interviste di storia orale in una relazione dialogica. Entrambi i tipi di testimonianza storica sono compresi come segmenti autonomi ma collegati in un più ampio contesto culturale che genera rappresentazioni del passato. Ciascun atto di interpretazione di un testo è basato sull’interpretazione di altri testi correlati.” (Mauad, 2022, p.215-216).



7. Rapporti tra fotografia popolare e cultura visuale in India


Christopher Pinney, antropologo e maggiore studioso di fotografia indiana, sostiene che lo sfondo nella fotografia indiana prodotta nella città di Nagda “è uno spazio di esplorazione.. spesso geografica” .

E se, secondo Pierre Bourdieu – studioso francese- la fotografia tende a solennizzare un ruolo sociale (marito, militare, ecc) Pinney afferma che, per quanto possa essere vero anche per le fotografie a Nagda (discepolo-guru) le pose inventate che spesso si ritrovano suggeriscono una intenzione parodica nei confronti dei ruoli sociali. “lo studio fotografico dventa un luogo non tanto per la solennizzazione del sociale, ma per l’esplorazione individuale di quello che ancora non esiste nel mondo sociale” la fotografia, per gli indiani, diventa un mezzo per autorappresentarsi al di là delle convenzioni. I due elementi più importanti nel gioco dell’autorappresentazione sono i gesti, il costume e la scenografia. Ma ovviamente il fotografo interviene sull’immagine apportando modifiche che si muovono nel campo dell’inter-ocularità, una modalità che caratterizza la cultura visuale popolare indiana del Novecento. Appaduray e Breckenridge (1992) gli studiosi che hanno introdotto il concetto di inter-ocularità, affermano che nell’India moderna “c’è una profonda interdipendenza di vari luoghi e modi di vedere” e questo intreccio di “esperienze oculari” sposta significati e simboli da un ambito all’altro. Tuttavia secondo altri autori si deve aggiungere l’inter-testualità: “il campo dell’intertestualità – scrive Mankekar – si estende dalle pubblicità e dai cartelloni che dominano il paesaggio urbano.. fino alla proliferazione dei canali televisivi”. Per altri studiosi il rinvio inter-oculare o inter-testuale prende il nome di inter-visualità. Woodman Taylor, per esempio, ha concentrato la sua analisi sul regime scopino del cinema popolare indiano, rivelando come gli sguardi vengano utilizzati per sostituire il tatto e in generale qual che il corpo non può fare o mostrare. Ha individuato, poi, due tipi di sguardo: il drishti, sguardo tenuto fermo su un punto focale, attivo nella religione e tipico della relazione sacra tra un devoto e la divinità e il nazar, presente nella tradizione poetica persiana e utilizzato per trasferire sensazioni e emozioni tra gli amanti. In concreto la inter-testualità visiva della fotografia popolare indiana si manifesta con l’intersecazione e la sovrapposizione di diverse tecniche e visioni che sottraggono alla fotografia il suo valore testimoniale e ne accentuano le potenzialità creative. I fotografi indiani non esitano a fare doppie esposizioni, fotomontaggi. I notevoli collages esemplificano in due dimensioni tutto quello che la fotografia rappresenta nel contesto di Nagda. La prima dimensione è un compatto e costruito mondo onirico, che questa tecnologia rende possibile. La seconda dimensione è il livello pittorico frantumato, rotto dalla esuberante materialità del collage composto da frammenti fotografici e zone di moduli dipinti con tratti di penna sovrapposta che avvolge e circonda i ritratti principali.

La fotografia diventa il luogo in cui confluiscono creativamente sguardi differenti sganciati dalla referenzialità e capaci di sostenere dimensioni soggettive, emotive, immaginarie.



8. Ex-voto fotografici 
 

All’interno degli ex-voto trovano posto anche gli ex-voto fotografici, costituiti essenzialmente da una fotografia del devoto. La fotografia, nella cultura visuale popolare contadina, è parte di sé.

Spesso sono polimaterici (prodotti utilizzando materiali di diversa natura) sono da considerarsi forme di passaggio dall’ex-voto pittorico a quello fotografico.

Sebbene sia importante analizzare il contenuto delle immagini, la retorica del testo visivo, i modelli da cui provengono le scelte dell’autore, non possiamo comprendere realmente il senso e i significati che alle immagini vengono attribuiti dai produttori e dai fruitori se trascuriamo di analizzare l’intero contesto di circolazione e di fruizione.

L’immagine è stata prodotta da un artigiano, a seguito di una committenza individuale o di gruppo; il trasporto dell’immagine al santuario è atto fondamentale nel contesto del pellegrinaggio; l’oggetto diventa carico penitenziale da portare sul corpo dei devoti; una volta esposto il senso dell’ex-voto passa dalle mani del devoto agli occhi dei visitatori; il piano terreno apre un varco verso l’ultraterreno:, questi due mondi sono visualizzati nel contatto del miracolo; c’è un effetto potenza quando gli ex-voti sono affiancati e addensati l’uno accanto all’altro sulle pareti del santuario. 


9. Sulla materialità delle immagini 
 

Si pone la questione della materialità dell’immagine e della sua analisi come oggetto circolante in reti sociali. Le immagini vengono fatte circolare per trasmettere idee sulla società e sulla cultura e talvolta intorno ad esse si svolgono lotte fra gruppi sociali, fra versioni differenti della cultura e della società. E’ certamente la “mobilità” delle fotografie, il loro spostarsi in diversi contesti di fruizione che dà alla fotografia una forza di trasmissione di significati.

Francesco Faeta riconosce nell’analisi della fotografia documentaria e etnografica relativa la Mezzogiorno “un potente elemento performativo del contesto nazionale” (Faeta, 2005, p. 109)

Prima aveva puntato l’attenzione sulla materialità delle immagini e degli ex-voto di cera.

Lo statuto ibrido delle fotografie , di essere immagini e allo stesso tempo oggetti si rileva negli album di famiglia – la foto si muove fra ricordo visivo di persone care e oggetto di famiglia da ereditare e trasmettere ai discendenti - ; le foto vengono fatte circolare, spedite, collezionate, raccolte. Nei lavori più recenti Edwards enfatizza lo statuto di oggetto delle fotografie: “ le fotografie esistono materialmente nel mondo, come depositi chimici su carta, come immagini montate su una molteplicità di supporti di diverse dimensioni, colori e decorazioni”. Si tratta di un importante spostamento verso una “prospettiva materiale” (material turn) con cui si è abbandonato lo studio “feticistico” degli oggetti a favore di una contestualizzazione all’interno delle reti di scambio e circolazione in cui esse – e le immagini – sono inevitabilmente collocati. Una conseguenza è che la materialità riguarda da vicino la “biografia sociale”: “gli oggetti sono implicati e attivi in relazioni sociali, non sono entità meramente passive in questi processi.” (Edwards, Hart, 2004, p.4).

La forma degli oggetti immagine determina anche la modalità di fruizione:

grandi album vanno aperti sulle ginocchia – legano le persone del gruppo determinando le relazioni sociali dell’osservazione;

piccoli album tenuti in mano suggeriscono una relazione privata con l’oggetto; guardarlo insieme ad un’altra persona richiede maggiore intimità.

Le immagini possono essere trasferite e ricontestaulizzate su altri supporti – cellulari, magliette, bottiglie… E’ il caso del Print Club o purikura studiati da Chalfen e Murui (2004). In Giappone Print Club, conosciuto come Purinto Kurabu, o Purikura è molto diffuso. Si tratta di una cabina per fotografie digitali che in pochissimo tempo produce una pagina di foto (16-20) adesive a colori. Purikura sono un po’ i discendenti dei manifesti “Wanted!”, dei calendari con le immagini dei propri bambini o delle fototessere scambiate tra amici.



10. Fotografare 
 

vanno ricordati i contributi di John e Malcom Collier per la loro fiducia nella capacità riproduttiva e documentativa della macchina fotografica. Dividono la ricerca etnografica in tre fasi:

  1. l’etnografo si guarda intorno, cerca le informazioni fondamentali per individuare l’obiettivo
  2. fa domande agli informatori attraverso test, questionari, interviste strutturate. Possono intervenire studiosi di altri ambiti disciplinari
  3. sintesi astrattiva dei risultati ottenuti.

La fotografia entra nella ricerca etnografica coadiuvando il ricercatore a raggiungere i suoi scopi. Contrasta l’affievolirsi dei ricordi mantenendo vive le prime impressioni sulla “vivacità di una cultura altra”. Quando, poi, il ricercatore è nel vivo della sua ricerca sul campo la macchina fotografica diventa un importante strumento di mediazione; per es. nello studio sul mutamento tecnologico in una comunità di pescatori canadesi sono loro stessi a suggerire le postazioni da cui ottenere le migliori fotografie una “opportunità di collaborazione.. che crea una solida base per la relazione” e poi chiederanno di controllarle. Si apre uno spazio per l’interazione con gli informatori, quindi una relazione più stretta, che permette l’ampliarsi del cerchio delle conoscenze.

La fotografia può, inoltre, restituirci immagini del territorio attraverso punti di vista ampi che coprono porzioni di paesaggio rilevanti, fino alle fotografie aeree; ci danno quindi informazioni sulle interazioni uomo-ambiente, economia, sfruttamento del suolo, ecc.

In relazione all’ambiente domestico ci offre informazioni sull’estetica delle decorazioni, quali segni di ospitalità, quali attività degli abitanti .. può essere utilizzata per stimolare gli informatori a fornirci notizie del passato, si parla di photo-elicitation (vd paragrafo 11)

Il lavoro dei Collier e quello successivo di Jon Prosser (1998) hanno costituito due tappe fondamentali per o sviluppo dei visual methods – un approccio di confine tra sociologia e antropologia e primo segnale dell’approssimarsi dei visual studies – precedendo di qualche anno il “boom” dell’antropologia visuale.

Collier e Prosser sono stati criticati per l’uso di una prospettiva oggettivista, fiduciosa nella capacità della fotografia di prolungarsi nell’osservazione laddove il ricercatore non può.

Nella sua critica al lavoro dei Collier, Sarah Pink scrive che, con un metodo teso a fornire solide basi “oggettive” al lavoro dell’etnografo con la macchina fotografica, i Collier non si rendono conto che il tentativo di rappresentare una totalità finisce per essere una verità parziale, una “finzione” come le altre. La collaborazione con gli informatori non è auspicabile per la definizione del Significato, la per cogliere la frammentazione caleidoscopica di una visione e di un significato che cambia ogni volta che la fotografia passa di mano. La collaborazione, nel senso usato dai Collier, è strumentale al progetto “già dato” dell’etnografo e gli informatori non collaborano consapevolmente alla ricerca i cui obiettivi restano “segreti”. Al contrario, nel senso contemporaneo, fondato nell’antropologia postmoderna e interpretativa, la collaborazione è parte integrante della ricerca etnografica, dal momento che l’oggetto della ricerca è anche lo studio della relazione stessa tra l’etnografo e i nativi; è all’interno di questa relazione che si negoziano i significati, che l’etnografo e i nativi riflettono, ciascuno sulle rispettive pratiche culturali. Si profilano per la Pink due tipi di ricerca, aperta (overt) e coperta (covert); solo nel primo caso la collaborazione del nativo è consapevole, nel secondo le finalità e le modalità di presentazione dei risultati sono a conoscenza del solo ricercatore.

La presenza della macchina fotografica durante le interazioni fra l’etnografo e i nativi è un fattore da non trascurare; essa modifica e dirige la relazione in una direzione precisa. Etnografi e etnofotografi dovrebbero dunque essere consapevoli delle implicazioni prodotte dall’uso dell’apparecchiatura e delle teorie che fondano la rappresentazione visiva; devono inoltre comprendere che la presenza della macchina fotografica interviene nella relazione con l’informatore ed è auspicabile che preventivamente conoscano la cultura visuale degli informatori e gli specifici significati che essi attribuiscono alle fotografie. Tali condizioni costituiscono il frame di un approccio riflessivo; questo comporta, secondo Pink, «innanzitutto sviluppare una coscienza di come gli etnografi giochino il loro ruolo di fotografi in particolari contesti, di come inquadrino particolari immagini e perché scelgano determinati soggetti; in secondo luogo, una considerazione di come queste scelte siamo collegate alle aspettative tanto delle discipline accademiche che delle culture visuali locali; infine, una consapevolezza delle teorie della rappresentazione che informano le loro fotografie. Talvolta è utile tenere un diario riflessivo sullo sviluppo di una pratica fotografica e delle intenzioni e idee che stavano alla base quando si realizzava ciascuna immagine» (ivi, p. 57).

Un’esigenza di consapevolezza è richiesta anche da Francesco Faeta il quale ci avverte dell’incertezza nei riguardi «della descrizione fotografica perché conserva tracce indicali, non afferisce soltanto all’autore, ma anche ai suoi oggetti d’indagine, comporta una componente peculiare nel processo creativo che è quella della situazione fotografica» (Faeta, 2003, p. 105).

Tale “incertezza” trova appoggio teorico nella nozione benjaminiana di inconscio ottico; quella capacità della fotografia di offrirci qualcosa al di là dell’immediato dato visibile, al di là della prima apparenza morfologica, qualcosa che il fotografo non vede nel mirino quando scatta. Ciò non toglie che la fotografia sia innanzitutto, dice Faeta, un «costrutto autoriale» evitando così la trappola implicita nel concetto di inconscio. Le immagini sono, afferma Faeta sulla scorta teorica di Wittgenstein, concretizzazioni dei nostri modelli di rappresentazione della realtà (ivi, p. 106)

Scrive Faeta: «Una fotografia poco testimonierà del reale, dunque; molto del suo autore e della situazione che ha creato: di un campo di tensione, di un modulo conoscitivo, che sono quelli dell’osservazione e della sue messa in codice. Una fotografia documenta essenzialmente un’attività, centrale nei processi di conoscenza e formazione della società e della cultura, quella dell’osservazione, appunto: il suo autore, le sue convenzioni, le sue norme, i suoi codici di traduzione in forma, le sue funzioni, i valori che vi presiedono» (ivi, p. 7).

Sembrerebbe a questo punto che la fotografia abbia smarrito il suo referente reale e con esso la sua valenza cognitiva e etno-grafica; tuttavia in essa rimane il senso della traccia, ma di che cosa? La fotografia “è indispensabile fonte di conoscenza antropologica non soltanto perché ripete sinteticamente e in modo verosimile forme della realtà, ma in quanto contribuisce a svelare la logica dell’osservazione e la ricezione ditale logica nell’ambito della cultura osservata.” (ibidem)

Per fare questo bisogna, secondo Faeta, adottare alcuni “accorgimenti teorici”; innanzitutto è necessario riconoscere che la fotografia agisce come una sorta di “setaccio” della realtà rendendo quest’ultima morfologicamente disponibile all’osservazione; essa “svela, attraverso la sua finzione, la struttura della realtà che rappresenta… nella direzione del levare realtà per giungere al segno e all’astrazione” (ivi, p. 108). In secondo luogo la fotografia anche nasconde, occulta gli intervalli tra una immagine e l’altra e fa di quelle immagini potenzialmente dei costrutti simbolici -metonimici, direi. L’operazione stessa del vedere consiste nel portare il mondo fuori di sé, nell’oggettivarlo, nel portarlo dinanzi agli occhi per essere guardato…. questa operazione di oggettivazione ha come primo risultato una soggettivazione dell’io, proprio in quanto distinto dal mondo. Che l’atto del vedere sia un’operazione costruttiva e non naturale è dato dal fatto che non tutti vedono le stesse cose e che all’interno della stessa cultura si tende a vedere in modo culturalmente condivisibile con la collettività. La macchina fotografica si adeguai alla visione del fotografo e, anzi, la esalta enfatizzando ciò che essa occulta e ciò che pone in evidenza. Infine bisogna individuare il «grado di difformità della rappresentazione fotografica rispetto al reale»: essa è somigliante alla realtà che intende rappresentare e, nonostante per molti aspetti ne resti lontana quel carattere di isomorfismo costituisce un legame con la realtà che va recuperato e utilizzato ponendolo in comparazione incrociando i “dati” visivo con quelli provenienti da altre fonti documentarie. Questa capacità di “dire le cose” o, meglio, di farsi leggere, fonda il suo essere linguaggio sotto qualche forma e di possedere pertanto una grammatica e una sintassi (ivi, p. 114) che si esprimono attraverso tre moduli fondamentali: l’istantanea, il ritratto e la sequenza.

L’istantanea è un tipo di scatto fotografico prodotto senza la partecipazione consapevole dei soggetti fotografati e senza una particolar attenzione “registica” del fotografo

Secondo Faeta l’istantanea va utilizzata soprattutto come documento da confrontare con altri tipi di documenti visivi (stampe, disegni, fotogrammi da film) per misurare lo scarto fra l’osservazione diretta e quella prodotta con gli strumenti di registrazione.

Il ritratto, una modalità visiva ampiamente utilizzata da Faeta nel suo Nelle Indie di quaggiù (Faeta, 1996), è il «luogo iconico dell’incontro», un tipo di rappresentazione dell’altro che si deve inserire nella ricerca solo quando la relazione tra chi fotografa e chi è fotografato si sia posta su un piano di fiducia o collaborazione. La visione del ritratto da parte dei soggetti fotografati, deve poter fornire informazioni su1 fotografo-ricercatore, «il suo rispetto nei loro confronti, la logica di fondo dell’indagine» (ivi, p. 120).

La sequenza fotografica, infine, ci consente di descrivere un evento nel suo svolgersi nel tempo; isola degli istanti, le fotografie, che comparati fra loro mostrano il non-fotografato che li separa, riducendone così la portata metonimica che ogni singola immagine tende ad assumere nei confronti della “totalità” cui si riferisce. La sequenza può modellarsi su tre diversi tipologie: fissa, quando il fotografo non si muove mai dalla sua postazione e costruisce la sequenza da quell’unico punto di vista; libera, quando appunto l’etnofotografo si muove liberamente sulla scena dell’evento cercando di seguirne lo svolgimento; infine la sequenza mobile: qui il fotografo programma i punti di vista da cui fotografare.


11. La photo-elicitation


Con questo termine si intende l’uso delle fotografie come stimolo alla memoria e alla narrazione in genere. La pratica è stata descritta dai Collier (1986) con il nome di foto-intervista e consiste nell’utilizzare le fotografie in quanto «strumenti con cui ottenere conoscenza oltre quella fornita dall’analisi diretta» delle immagini (Collier, Collier, 1986, p. 99). Collier propone una sequenza di atti da compiere per realizzare una buona foto-intervista: «Il passo preliminare all’intervista è cercare qualcuno che risponda alla tue domande, preferibilmente qualcuno adeguato. Il secondo è farsi invitare a casa dell’informatore, e infine essere capace di ritornare per interviste successive» (ivi, p. 105). Nella foto intervista i ruoli si ribaltano: è l’informatore l’esperto, ed è più facile che egli racconti spontaneamente: «i fatti sono nelle immagini; gli informatori non devono sentire che stanno diffondendo delle confidenze», L’antropologo prenderà nota sul taccuino e sembrerà che stia prendendo appunti riguardo alla fotografie, non alla vita dell’informatore (ivi, p. 107),

L’approccio di Collier è stato criticato da Sarah Pink per la prospettiva oggettivista adottata, secondo la quale “i fatti sono nelle immagini” e le persone che hanno vissuto gli eventi fotografati possono estrarli e presentarceli. Altri studiosi hanno preso le distanze da questo approccio; Harper, per esempio, ha connesso l’uso della fotografia all’interno della new ethnography che, sorta dalla critica all’oggettivismo etnografico, pone la presenza e l’esperienza del ricercatore come un elemento imprescindibile e creativo della ricerca. La photo elicitation, per Harper, non è un modo per trovare conferma alle ipotesi, alla visione predefinita e visualizzata dall’etnografo nelle fotografie, ma un modo per ridefinire la relazione con l’informatore e riaprire il dialogo.

Patrizia Faccioli, impegnata nel campo della sociologia visuale, rileva le implicazioni relazionali e le loro conseguenze sul frame della ricerca: «Dal momento che le immagini possono non avere per il ricercatore lo stesso significato che hanno per il soggetto, questi realizza che la sua visione del mondo è diversa da quella di colui che ha posto la domanda e che il suo dato-per-scontato non è dato-per-scontato dal ricercatore. L’intervistato è quindi incoraggiato a spiegare meglio il suo mondo di significati, mentre il ricercatore, dal canto suo, riesce a vedere le cose dal punto di vista del soggetto. Il focus della comunicazione diventa allora l’immagine, piuttosto che una domanda che rischia di influenzare e organizzare le percezioni degli intervistati dentro le categorie concettuali del ricercatore... L’uso della foto come stimolo nel corso di un’intervista produce un’interazione diversa fra osservatore e osservato, nel senso che può accorciare le distanze, sia perché non possiede la connotazione forte del linguaggio, sia perché il focus della comunicazione si sposta dall’intervistato alla fotografia» (Faccioli, 1997, p. 42).

Harper suddivide gli studi con photo-elicitation in quattro ambiti di applicazione.

1. Organizzazione sociale/classe sociale/famiglia: comprende «studi sulle foto di famiglia, libri che documentano movimenti di educazione del popolo …….organizzazione sociale di un villaggio indonesiano» (Harper, 2002, p. 16). In questo ambito sono presenti, in genere, fotografie che documentano la vita sociale, anche prodotte dagli stessi soggetti della ricerca

2. Etnografia storica e comunità: questa area di indagini fa riferimento agli studi di Suchar e Rotenberg sulla gentrification, un termine che si riferisce al processo di insediamento e appropriazione simbolica di un quartiere popolato da bassi strati sociali da parte di nuovi residenti appartenenti alla classe media. Suchar, attraverso le sue fotografie, ha mostrato come «i residenti urbani trasformino i quartieri cittadini basandosi su strategie che provengono dalle loro identità e luoghi d’origine. I ritratti sono contestualizzati nell’ambiente e rappresentano sia i nuovi che i vecchi residenti; i soggetti sono collocati nei loro appartamenti e case, circondati dagli oggetti con cui definiscono il loro spazio. Questo campo di applicazione delle fotografie deve, secondo Harper. avvalersi di fotografie d’epoca di almeno sessanta-settanta anni prima, perché l’osservazione delle immagini deve riportare soggetti alle loro esperienze più antiche per ricostruire una memoria della comunità.

3. Identità: questa area di studi basati sulla photo-elicitation include indagini volte a esaminare «l’identità sociale di fanciulli, drogati, emigrati di diversi gruppi etnici.. e autobiografie visuali» (ivi, p. 18)

4. Cultura/Studi culturali: Harper sintetizza i cultural studies come «interpretazione dei segni» e indica nella photo-elicitation un “antidoto” alla critica di generalismo che colpisce i cultural studies, offrendoci l’esempio di alcuni studi sulla pubblicità in cui l’interpretazione associata alle immagini riesce a contestualizzarsi nel vissuto di specifiche persone, e di altri studi in cui la cui la cultura visiva locale viene individuata sulla base dei commenti che le persone danno a ciò che vedono nelle fotografie loro mostrate.

Il metodo della photo-elicitation è utilizzato quindi sopratutto nell’ambito della ricerca sociologica; è vero però che anche gli antropologi talvolta lo usano, senza catalogarlo come photo-elicitation.


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