22 luglio 2014

Principles of Visual Anthropology (a cura di Paul Hockings, Walter De Gruyter & C., 1995)

POTENZIALITA' DEI MEZZI AUDIOVISIVI NELLA RICERCA ANTROPOLOGICA

Nella primavera del 1895, all’Exposition Ethnographique de l’Afrique Occidentale, Felix Louis Regnault filma una donna Wolof che modella vasi.
Il suo è il primo esempio di film etnografico.
Tre anni dopo, con la spedizione antropologica dell’Università di Cambridge nello stretto di Torres organizzata da Haddon, abbiamo i primi filmati girati sul campo.
Tuttavia, nonostante Regnault e Haddon insistano, nelle loro pubblicazioni, sull’importanza e sulla validità dell’uso degli strumenti di ripresa nell’ambito della ricerca, nei primi anni del ventesimo secolo il ricorso agli strumenti audio visivi sarà limitato a pochi, sporadici lavori.
Nel secondo decennio del ‘900, le ambientazioni esotiche fanno invece da sfondo a una serie di film, chiamati documetaires romancés, senza alcuna dichiarata pretesa scientifica, girati da Gaston Méliès nei Mari del Sud. Segue, a distanza di una manciata di anni, il lavoro di Curtis tra gli indiani Kwakiutl.
Inoltre, le potenzialità del cinema vengono sfruttate anche in ambito coloniale: gli Americani, nel 1912, proiettano una serie di immagini per sensibilizzare i Filippini all’educazione sanitaria. Il cinema coloniale sancirà il passaggio dal periodo pionieristico del film etnografico all’uso del film nell’antropologia applicata.
“Nanook”, film di R. Flaherty sugli Inuit, girato nel 1922, combina diversi generi, tra cui l’home movie, il documentario e la scenotecnica. Senza alcuna specifica formazione, Flaherty ha realizzato un lavoro di indubbio valore.
Si dovrà, però, attendere sino ai lavori di Mead e Bateson (1936/38) per registrare dei significativi cambiamenti. Gli anni ‘30 hanno rappresentato lo spartiacque tra la scarsa considerazione e il riconoscimento del valore degli strumenti audiovisivi all’interno della ricerca antropologica.
L’evoluzione è stata possibile grazie al ruolo assunto dai film nell’insegnamento della materia, incoraggiato da musei e università, dalla diffusione della nuova forma del documentario (dagli anni ‘20 assume la forma canonica di single-concept film, di durata variabile tra i 10 e i 60 minuti, muto ma sottotitolato, almeno sino al 1927, anno in cui viene introdotta la voce narrante) e dagli avanzamenti tecnici in campo cinematografico. 
Mead e Bateson, nella ricerca in Nuova Guinea, utilizzano strumenti di ripresa, che offrono la possibilità di cogliere una vasta gamma di espressioni non verbali, in altro modo difficilmente apprezzabili.
Negli anni ‘50 il genere viene ulteriormente sviluppato da alcuni etnografi, tra cui Jean Rouch. Partito alla volta della Nigeria, armato di una Bell and Howell da 16 mm, Rouch diventa il primo a fare della realizzazione di film etnografici una professione a tempo pieno. Rouch fa proprio un metodo ampiamente utilizzato nella ricerca psicologica sin dagli inizi del ‘900 (poi ripreso negli studi psichiatrici condotti durante la Seconda Guerra Mondiale): stimola la reazione dei propri attori mostrando loro le riprese effettuate e adopera le macchine da presa e i cameramen per provocare veri e propri psicodrammi. Worth e Adair utilizzano il film stesso come reazione, lasciando gli strumenti di ripresa nella mani di un gruppo di Navaho, da loro istruiti.
Dagli anni ‘60, il film etnografico continua a suscitare non solo una buona dose di interesse, ma soprattutto un acceso dibattito all’interno della materia. Accanto al numero sempre crescente di ricerche condotte avvalendosi degli strumenti di ripresa, si è sviluppata una controversa questione intorno ai vantaggi e ai limiti della videoricerca.
E’ la consapevolezza di avere a che fare con qualcosa di evanescente che, dice Margaret Mead, anima l’esigenza di preservare testimonianze dei costumi e delle vite degli esseri umani viventi.
Il processo di conservazione è tradizionalmente affidato alla scrittura. Anche oggi, nonostante la vasta gamma di strumenti che il progresso in campo tecnologico ci ha messo a disposizione, il metodo canonico della ricerca etnografica rimane l’osservazione diretta sul campo e la scrittura (nella forma di appunti, note di campo e quindi di etnografia).
L’avversione all’introduzione di strumentazione innovativa nei contesti di ricerca muove principalmente da due diverse considerazioni: la prima, di carattere economico e tecnico, riguarda gli elevati costi e le difficoltà che possono essere riscontrate nell’uso degli strumenti. La seconda considerazione è prettamente metodologica, e riguarda i risultati della ricerca condotta mediante l’uso di questa strumentazione, che viene accusata di selettività e parzialità.
Dall’altra parte, vi è un consistente numero di pareri che vanno assolutamente nella direzione opposta. Sempre Margaret Mead, nella breve introduzione alla raccolta di saggi “Principles of Visual Anthropology”, insiste sull’importanza della raccolta di testimonianze visuali e mostra come sia possibile aggirare le obiezioni avanzate, constatando che, da una parte, l’avanzamento della disciplina richiede la disponibilità ad investire nell’attrezzatura e, dall’altra, che sono sufficienti competenze minime per poter utilizzare la strumentazione in maniera efficace. 
Alle accuse metodologiche, si può controbattere, come sostenuto da Vincent Crapanzano, che l’etnografia sia sempre, in qualche modo, parziale, che sia un metodo provvisorio di venire a patti con un’altra cultura, che non possa prescindere dal momento della produzione (che è prerogativa esclusiva dell’etnografo). 
Inoltre, l’elemento di disturbo introdotto dall’utilizzo della strumentazione e dalla presenza di cameramen può essere minimizzato lasciando, ad esempio, la telecamera fissa in un punto.
Per di più, i vantaggi del ricorso agli strumenti di ripresa possono essere apprezzati proprio laddove la scrittura presenta evidenti limiti: i video permettono un’osservazione che copre un lasso di tempo maggiore, colgono le azioni nella loro complessità all’interno del loro ambiente naturale, conservandole per permetterne la visione a diversi osservatori in diversi momenti, possono essere la base da cui partire per un confronto tra ricercatori e partecipanti e tra teorie astratte e comportamenti concreti, come sostenuto da Joseph Schaeffer.
E’, pertanto, necessario riconsiderare il ruolo degli strumenti audiovisivi nell’ambito della ricerca antropologica.
Per contrastare il processo di uniformazione e di scomparsa di culture che si sta verificando a livello globale l’eredità culturale dell’umanità deve essere registrata nella sua eterogeneità e ricchezza, come indicato nella risoluzione stilata dai copresidenti Jean Rouch e Paul Hockings, appovata dal IX Congresso di Scienze Antropologiche ed Etnologiche, tenutosi a Chicago nel 1973.
E’ indispensabile focalizzarsi sull’organizzazione di un programma di riprese globale che dedichi particolare attenzione alle culture che stanno scomparendo, sulla catalogazione e sulla conservazione del materiale già realizzato, ma soprattutto sulla formazione e sull’insegnamento delle tecniche di realizzazione del film etnografico.
“Molte delle situazioni con cui abbiamo a che fare - dice Margaret Mead (Introduzione di “Principles of Visual Anthropology", a cura di Paul Hockings, Walter De Gruyter & C., 1995, p. 10) - [...] non possono essere replicate in laboratorio. Ma con materiali video e audio correttamente raccolti, commentati e preservati, possiamo riprodurre ripetutamente e analizzare scupolosamente lo stesso materiale. Come strumenti migliori ci hanno insegnato di più sul cosmo, allo stesso modo registrazioni migliori di questo prezioso materiale possono illuminare la nostra crescente conoscenza e l’apprezzamento del genere umano”.

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