17 maggio 2011

Post di Chiara Moscatelli

RIFLESSIONI CONCLUSIVE
LABORATORIO ANTROPOLOGIA VISIVA 2011

Il laboratorio che ho frequentato a partire da gennaio 2011 mi ha permesso di avvicinarmi in particolare alla prospettiva di studio della antropologia visuale.
L’articolo che ho scelto per dialogare con il testo al fine di trarne spunti teorici e di parallelismo per la riflessione sulla brevissima collaborazione svolta durante le prime riprese del lavoro del progetto “Culturalmente”, è stato “Sharing Anthropology. Collaborative Video Experience among Maya Film-makers in Post- war Guatemala” di Carlos Y. Flores contenuto nel testo “Visual Interventions. Applied visual Anthropology” di Sarah Pink.
Nel testo di Sarah Pink “Visual Intervensions. Applied visual Anthropology” si esamina le pratiche e il valore dell’”antropologia visuale applicata”. L’autrice presenta una serie di casi studiati, i cui autori hanno riconosciuto il potenziale dell’antropologia visuale.
Le pratiche visuali di matrice antropologica sono state usate per creare interventi sociali. Questi studi non sono presentati solo come una serie di esercizi pratici ma sono rilevanti in campo accademico per il contributo etnografico, le implicazioni teoriche e l’innovazione metodologica. Le applicazioni inserite nel libro possono essere applicate sia all’”antropologia visuale” sia all’”antropologia applicata” sia all’antropologia sociale nel suo complesso.
L’ “antropologia visuale applicata” include lo studio degli aspetti visuali della cultura e i metodi etnografici così come della rappresentazione visuale. I documentari etnografici presenti utilizzano i mezzi audio-visivi nel contesto della sanità, le politiche di turismo e di patrimonio culturale, il lavoro in comunità.
Il termine “antropologia visuale applicata” non si riferisce a un campo circoscritto e predeterminato di pratica, la sua definizione è un processo continuo. A testimonianza di ciò,in questo libro vengono riportati dei progetti, attraverso le relazioni dei partecipanti, da cui emergono i legami con le sotto-discipline antropologiche e non solo. Qualsiasi definizione deve rendere conto di sviluppi contemporanei sia nella pratica sia nella teoria e in contesto sia globale sia locale in cui viene applicata questa definizione ampia di “antropologia visuale applicata” mette in evidenza la teoria, la metodologia e la pratica per realizzarla.
Nel capitolo 10 Carlos Y. Flores discute un progetto di film- documentario etnografico, sul suo progetto accademico, per valutare "gli usi, le possibilità e gli effetti dei media audiovisivi tra i gruppi indigeni in un paese da una prospettiva antropologica". Lo scopo della ricerca credo che fosse quello di esaminare le varie relazioni storiche e contemporanee nell’”antropologia visuale applicata” quindi riflettere sullo stato di applicazione dell'antropologia visuale come un campo di pratica a sé stante. Di particolare interesse sono i lavori di Rouch e di D. e J. Mac Dougall, i cui film etnografici hanno spinto la pratica ai confini dell'antropologia visuale attraverso lo sviluppo di collaborazioni con soggetti “protagonisti” coinvolti, spesso con il vantaggio politico che è stato criticato delle relazioni di potere in cui i film- documentario sono stati implicati.
Rouch conia la nozione di "antropologia condivisa" collegata al ruolo che il video può svolgere per la produzione collaborativa della conoscenza etnografica.
Per Rouch, la prima fase del suo film era il video degli stessi soggetti. Egli ha visto che questa forma produceva un effetto di "feedback" basilare per un’”antropologia condivisa”. Si potrebbe teorizzare l’uso del video come portatore di un gioco di ruolo non solo nella rappresentazione di sé stesse, ma anche come una forma di un fare un’"antropologia pubblica ".
D. Mac Dougall definì l’idea di "video partecipativo" come "un video di collaborazione e di paternità tra film-makers e i soggetti " solo successivamente ridefinì questo come "cinema intertestuale"che sarebbe "un principio di autorialità multipla".
Le idee di Rouch e Mac Dougall sono state estremamente influenti nella successiva pratica etnografica di film-making, questa influenza è evidente anche nelle metodologie dell’antropologia visuale .
CarlosY. Flores illustra come personalmente ha sviluppato una versione di "antropologia condivisa” di Rouch , nel suo documentario collaborativo del progetto con i Q'eqchi' nel dopoguerra, in Guatemala.
Attraverso questo studio Flores esplora dei limiti, della potenzialità e la complessità della realtà di produrre effettivamente una “antropologia condivisa” che sia favorevole alla creazione di auto-identità e autorizzi reciprocamente sia l’antropologo sia il soggetto.
L’applicazione dell’ “antropologia visuale applicata” nei diversi progetti potrebbe rilevare dei potenziali nel contribuire ai processi di intervento sociale, di conoscenza, di merito su una particolare area di interesse antropologico e di sviluppi metodologici, così come alla costruzione di una teoria accademica.
Non credo che il sapere antropologico accademico e l’antropologia visiva devono essere visti come due campi separati.
Si dovrebbe mettere in evidenza il potenziale di una “antropologia visiva” che partecipa alla produzione degli interventi sociali ed è realizzato in materia e si impegna ad essere applicata in contesti istituzionali al di fuori del ristretto mondo accademico.
Nei libri di antropologia applicata viene descritto il metodo utilizzato che comprende non solo l'osservazione partecipata e il contatto con l’informatore attraverso l’intervista, i sondaggi, i questionari,la ricerca-azione, la rapida valutazione etnografica, la valutazione delle necessità, la valutazione sull’impatto sociale, il gruppo di ricerca, la messa a fuoco e l'analisi delle reti sociali.
L'idea che con i metodi collaborativi e partecipativi la ricerca visuale possa produrre risultati utili per la conoscenza etnografica, anche in un arco di tempo breve, è stato suggerito anche dallo stesso J. Rouch nel 1973.
Rouch scrisse che attraverso l’uso del processo di "feedback" aveva osservato che rivisionando i video con gli informatori, l’etnografo aveva potuto raccogliere maggiori informazioni in due settimane rispetto a quelle che avrebbe potuto ottenere in tre mesi di osservazione diretta e di intervista.
L'idea di un’ “antropologia visuale applicata” invita a discostarsi dalla insistenza nei confronti di un immersione a lungo termine come per il metodo sociale della ricerca visiva e della rappresentazione che può anche produrre conoscenze di valore antropologico.
Gli aspetti di auto-rappresentazione e la rappresentazione antropologica che si incarnano e che si esprimono nel settore audiovisivo, vengono proposti con l’uso della metafora e della comunicazione empatica di conoscenza ed esperienza che non possono essere espressi utilizzando solo le parole.
Nel suo saggio Carlo Y. Flores, affronta il ruolo che un film- documentario etnografico di produzione ibrida e di regia di collaborazione con i Maya-Q'eqchi'communities in Alta Verapaz, in Guatemala.
Le condizioni soggettive e storiche che ha fornito il contesto per la produzione video in collaborazione tra cineasti locali, comunità e antropologo visuale vengono analizzati, fornendo importanti intuizioni etnografiche su una popolazione indigena e le sue trasformazioni. Promuovendo nella comunità nuovi meccanismi per la ricostruzione socio-culturali e la consapevolezza, dopo un traumatico e violento periodo di guerra civile.
In questo contesto, i documenti video prodotti forniscono uno spazio all'interno di una pratica più ampia di antropologia condivisa in cui ciascuna delle parti potrebbe avanzare i propri obiettivi attraverso i prodotti ibridi. Il progetto ha rappresentato un'opportunità per esplorare i modi in cui l'antropologia e cinema etnografico potrebbero, contemporaneamente, essere utili sia per il ricercatore sia per la comunità studiata. Ha, inoltre, evidenziato le contraddizioni e le complessità di collaborazione e condivisione di “antropologia visuale applicata”.
Questo film non parla di una popolazione indigena minoritaria e isolata rispetto alla nazione ma vuole raccontare di un gruppo di persone appartenenti a una tribù integrata nel sistema nazionale, anche se svantaggiata nella vita socio-economica e segnata dal conflitto armato.
La ricerca si è rivelata non solo antropologica ma anche personale e comunitaria. Personale perché aiutò l’antropologo,un guatemalteca non indigeno,che durante il conflitto scappò dal suo Paese. Ritornato per svolgere il progetto, durante la ricerca sul campo riscoprì e approfondì la propria identità, condividendo alcuni aspetti con i soggetti e tentando di ricostruire la propria identità in rapporto con gli altri. Fu anche una ricerca comunitaria perché rese visibile il processo di guarigione dalle violenze della guerra attuate dai soggetti coinvolti.
Prendendo spunto teorico da Clifford, l’autore ritiene che questa peculiare situazione lo abbia reso consapevole che ogni versione di “Altro”, ovunque si trova, è anche la costruzione di un “sé”. Al momento, quindi egli stava guardando la società guatemalteca da un punto di vista confuso, sia di un nativo sia di uno straniero al tempo stesso. Quindi l’antropologo era in difficoltà non riusciva a trovare la linea di confine tra i due sguardi e non riusciva a separarli come invece richiedeva l’antropologia occidentale. Così al posto del paradigma occidentale l’autore si trovava a condividere l’idea di M. Jackson che proponeva di scrivere ed esplorare i modi in cui le nostre esperienze si congiungono o si collegano con altri piuttosto che il modo in cui ci distingue. Quindi si proponeva una prospettiva orizzontale, di condivisione dell’interazione e personale che successivamente si suddivideva in più esperienze, composta da voci multiple diverse dalla sola dell’antropologo.
Avviene in questo modo un cambio di prospettiva, dall’oggettivo ci si sposta al soggettivo. Gli sviluppi teorici dell’antropologia nella loro dimensione testuale , seguendo i nuovi e sofisticati metodi, avevano la finalità di dare voce agli indigeni sembrava quindi di occuparsi dei problemi di “cultural translation” .
La discussione occidentale sulle domande fondamentali, una di queste se l’antropologia \ etnografia era diventata un insieme di più voci e quale parte della ricerca ne beneficiava di più, aiutano l’antropologo a trovare le metodologie per interagire con gli indigeni.
Prima di lui la Chiesa cattolica aveva già fatto un progetto di video con film-makers locali in lingua locale, questo primo tentativo fu visionato dall’antropologo prima di iniziare la nuova ricerca così da collaborare con questi film-makers.
Inizialmente adottò il metodo antropologico classico di “osservazione partecipante”, durante le prime riprese video nella città di Coban e nei loro villaggi. Questo significava essenzialmente seguire i film-makers e osservare come interagivano con gli altri membri della loro comunità, anche se nello sviluppo di un rapporto, l’antropologo chiedeva spiegazioni, annotando poi tutto nel diario di campo.
Le riprese dovevano essere quasi naturali, l’antropologo non doveva quasi intervenire. Durante il primo periodo di lavorazione però aveva notato che i film-makers controllavano più le pratiche igieniche o le tipologie di costruzioni, che aspetti più legati alle pratiche esistenziali e religiose; nessuno sembrava interessato alla guerra civile, alle ferite che essa aveva lasciato o alla situazione politica contemporanea.
Dopo poco tempo, dall’inizio delle riprese, l’antropologo iniziò ad assumere un ruolo chiaro anche se continuava ad avere la paura di contaminare il materiale con la sua presenza e le sue conoscenze; però l’antropologo decise di farsi guidare da un intervento coscienzioso.
L’intervento attivo dell’antropologo cambiò l’orientamento e lo scopo della ricerca, si puntò maggiormente sui costumi Maya, sull’impatto della guerra civile e sulla tradizione, il film sarebbe diventato un patrimonio culturale comune e fruibile da tutti.
Le difficoltà maggiori emersero nella fase di montaggio quando fu compito dell’antropologo mantenere alto l’entusiasmo dei film-makers perché le logiche e le aspettative messe in campo dai diversi soggetti erano differenti. Per i nativi era più importante il processo del prodotto (in questo la società rispecchiava la logica Maya) invece per l’antropologo anche il prodotto assumeva la sua importanza. Un alto fattore che determinava il calo di entusiasmo era la presenza decisionale e invasiva dell’antropologo, che finalizzava l’intero lavoro al raggiungimento del proprio scopo.
Fu prodotto un film molto distante dai parametri occidentali a partire dal ritmo filmico ma fu molto apprezzato dal pubblico guatemalteca.
A Carlos Y. Flores gli fu commissionato un secondo documentario sulla violenza militare durante la guerra. Questo secondo documentario ebbe un uso terapeutico per superare il trauma della guerra civile e aiutare il riscatto sociale delle persone oltre a razionalizzare il passato traumatico e renderlo più controllato e canalizzato nel presente.
La conclusione fu rendere la comunità più consapevole della loro specificità politica e culturale per un maggior controllo su cosa volessero preservare, distruggere e modificare.
L’antropologo attraverso la creazione di un film- documentario etnografico ha accesso a informazioni privilegiate sugli eventi locali.
Carlos Y. Flores rimase colpito dagli sforzi iniziali del regista Rouch, dalla sua idea di “antropologia condivisa”, un termine coniato dopo che egli riuscì a realizzare documentari con il coinvolgimento attivo dei soggetti africani.
Con un approccio più olistico che coinvolge, in un esercizio di cooperazione tra soggetti e antropologo, egli ha cercato di combinare elementi diversi di esperienza globale e locale. Ad un livello quasi teorico con pratiche che beneficiano da diverse varianti e dalle correnti antropologiche revisioniste e postmoderne, in particolare nei settori di “antropologia visiva applicata” e politica, queste varianti hanno facilitato la costruzione polifonica del testo antropologico. Questa apertura ha indubbiamente spostato i modi in cui l'antropologia, in generale e l’antropologia visuale, in particolare, è stata praticata e rende possibile concepire delle diverse forme di interazione con i soggetti in campo e più modi di fare etnografia sperimentale.
La qualità di essere un’impresa condivisa e collaborativa dipende più dalla capacità dei progetti di stabilire un terreno comune dove gli operatori possono perseguire diversi interessi di negoziare, di combinare e materializzare collettivamente gli aspetti.
Piuttosto che i progetti in cerca di regole fisse o di orientamenti, ci sarebbe bisogni di esperienze interpretative, in cerca di senso e di ricerca-azione collettiva. Nonostante le buone intenzioni la costruzione collettiva di un testo con caratteristiche a più voci potrebbe facilmente finire per mascherare forme nuove e sofisticate di appropriazione culturale in cui la finalità della condivisione è solo un'illusione.
Come afferma Paulo Freire, la ricerca deve essere un coinvolgimento, non un invasione. Chi ha condiviso le imprese antropologiche dovrebbero fornire spazi per sé, la scoperta e la costruzione creativa di identità: prima di tutto dovrebbe essere un processo in cui sia l’antropologo sia il soggetto abilitato possano esserci reciprocamente.
La produzione di conoscenza antropologica attraverso la videocamera consente di costruire un mondo terzo, delle immagini ritenute necessarie ma ambigue. Foto che mostrano qualcosa che l’antropologo ha visto ma che si presentano come già scritte, rielaborate e associate a una immagine - concetto.
La fisicità, l’incontro con l’Altro nell’esperienza sul campo permette di creare il significato antropologico costruendolo insieme ai soggetti che entrano in relazione e parte attiva della ricerca.
L’etnografo deve riflettere su come acquisire le conoscenze e come comunicarle al pubblico. Guardare è diverso da vedere, anche l’investimento intenzionale di senso selettivo implica uno scopo prima di filmare. Rendersi consapevoli del livello d’intenzionalità soffermandosi e riflettendo, è parte integrante e deve essere presente nel lavoro dell’etnografo –film-maker per rendere visibile l’intenzionalità e facendola emergere anche dal prodotto audiovisivo conclusivo.
Secondo Mac Douglall tra produzione visiva e produzione scritta c’è un’enorme differenza, non c’è la necessità di usare il mezzo audiovisivo al posto, o in sostituzione, del mezzo scritto ma si potrebbero sfruttare entrambi; le loro diversità saranno utili per formare un sapere antropologico più complementare. L’uso della scrittura possiede numerose potenzialità e consente una maggior astrazione che invece non permette il materiale audio-visivo perché l’utilizzo delle immagini fornisce una continuità fisica di corrispondenza con il mondo. Il mezzo audiovisivo ha la potenzialità di usare termini produttivi, e simultaneamente utilizzare una molteplicità di volti e voci, svolgendo così un lavoro di dialettica all’interno del video stesso e presentando differenti posizioni, permettendo così un accesso diretto alla soggettività e intersoggettività dei soggetti coinvolti.
La scrittura è una descrizione astratta con esempi per rendere esplicito il concetto conclusivo. La parte video, invece, è più ristretta e dettagliata per la forma ma non può esplicitare concetti.
Lo scritto segue una posizione logocentrica (spiegazione, descrizione e esperienza) mentre le riprese audiovisive seguono una logica inversa (esperienza,descrizione spiegazione), quindi unendo queste due differenti metodologie l’etnografo utilizza due differenti punti di vista sull’oggetto da indagare.
La memoria e la costruzione del sé sono elementi di interesse ed esplorazione possibili anche attraverso l’uso della telecamera e della produzione filmica. La produzione audiovisiva può attuare la messa in atto dell’antropologia performativa. Non vengono prodotti oggetti da comprensioni ricavate dal vedere dei soggetti e dei filmati ma emerge il sapere antropologico incorporato come riflessione sull’esperienza e la riflessione sull’esperienza stessa.
Il pezzo di pellicola che viene impressionato è molto più limitato rispetto alla realtà che osserviamo. Rifacendoci alla teoria di James, egli ipotizza una prospettiva ristretta. Ogni racconto implica uno sguardo che è legato a un punto di vista che non va oltre a dove noi guardiamo e fa emergere il nostro punto di vista e la nostra intenzione. Lo sguardo non è assoluto ma posizionato e incorporato, esso opera parziali prelievi e agisce in quel momento, in quello spazio e in quel tempo.
La soggettività è rappresentata diversamente se c’è drammatizzazione esteriore, drammatizzazione interiore o drammatizzazione descrittiva.
Come prodotto della visione umana, il fare immagini potrebbe essere considerato solo surrogato. Le immagini sono specchi dei nostri corpi, replicano tutte le attività del corpo nei loro movimenti fisici, nei loro slittamenti di attenzione nei loro impulsi conflittuali fra ordine e disordine. Le immagini corporali non sono solo immagini di altri corpi ma sono anche immagini del corpo dietro la macchina da presa e le sue relazioni con il mondo. Inquadrare è un modo per evidenziare descrivere o giudicare. Ciò addomestica e organizza la visione, allarga e restringe, togliendo quei collegamenti con la vita verso cui il film-makers è cieco, come quando richiede spiegazioni su eventi che sappiamo essere più complessi. L’atto di inquadrare è fatto dunque di due impulsi intrecciati: inquadrare ma anche mostrare cosa c’è oltre e nonostante l’inquadratura. Il film riflette il gioco fra il significato e l’essere. I suoi significati si fanno carichi dell’autonomia del saper essere quando è il caso di fermarsi nelle nostre interpretazioni è così importante per permettere a questi momenti di connettersi e di entrare in risonanza. La mia o le mie immagini dell’Altro formano il grosso di quello che io so di te, l’apparenza è conoscenza in un certo senso, il mostrare diventa un modo per dire l’indicibile, la conoscenza visiva ci dà uno dei mezzi primari di comprensione dell’esperienza di altre persone. Diversamente dalla conoscenza che si trasmette con le parole quello che mostriamo con le immagini non ha né trasparenza né volizione si tratta di un altro genere di conoscenza dura e opaca ma capace di restituire i più fini dettagli. Il video mette l’essere contro il significato.
La persona è data dalla soggettività che uno si situa; la nostra lettura sul video sono dati negoziati dalla nostra soggettività. Le diverse modalità di rappresentare la narrazione soggettiva, il discorso, la prospettiva, la testimonianza, l’implicazione ed l’esplicazione, è indicatore narrativo di locus primario di espressione questa diversa comunità tematica declina la soggettività e le diversità di percezione.
In conclusione, per la limitata partecipazione al progetto “Culturalmente” posso solo affermare, basandomi sulla visione delle riprese (note di campo), che il progetto sta cercando di seguire le basi teoriche di Rouch e Mac Dougall facendo partecipare attivamente film –makers, antropologa e soggetti quindi mettendo le diverse soggettività in dialogo tra loro e arricchendo il documentario di più voci e di più punti di vista. Questa attiva partecipazione e “contaminazione” oltre ad arricchire il prodotto sta favorendo, a mio parere, un incontro “oltre i confini” tra persone.

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