16 maggio 2011

post di Marta

RIFLESSIONI CONCLUSIVE
LABORATORIO ANTROPOLOGIA VISIVA 2011


Il laboratorio frequentato a partire da gennaio 2011 mi ha permesso di avvicinare la particolare prospettiva di studio della antropologia visuale che si inserisce nel quadro delle discipline demo-etno- antropologiche.
Dalle prime lezioni, oltre al tentativo di dare una definizione scientifica dell'antropologia visuale, è emersa l’intenzione di discutere e di approfondire il concetto di visuale legato ad un "vedere" che pur essendo un procedimento di natura fisiologica e neurologica, non è estraneo ad influenze di carattere culturale. Compito dell'antropologia visuale, da questo punto di vista, è comprendere quali fattori di natura culturale possono incidere sulla decodifica delle immagini il cui procedimento fisiologico non è immune da condizionamenti di carattere socio-culturale.
Appunto il "vedere" è una funzione cognitiva essenziale per l'uomo.
Fra i vari obiettivi conoscitivi perseguiti dall'antropologia visuale vi è quello di risalire al complesso sistema di credenze, di pratiche rituali, di attribuzioni simboliche associate nei diversi contesti storico-culturali ma più in generale alla facoltà di vedere e al concetto di sguardi.
Quindi, da ciò che ho potuto comprendere durante le lezioni, l’antropologia visuale può essere considerata come una ricerca con le immagini e sulle immagini di una realtà “altra” ovvero, “dell’altro da sé”.
Ma comunque mi pare di aver compreso che l’antropologia visuale non disponga di una definizione univoca. Ed è come se si trovasse in una situazione pre- paradigmatica, poiché la comunità scientifica non ha ancora maturato un parere unanime riguardo agli obiettivi conoscitivi rispetto all'oggetto di studio, al quadro teorico di riferimento, alla metodologia di ricerca riguardo questa disciplina.
A mio avviso questa condizione può rivelarsi come punto di forza dal momento in cui l’antropologia visiva può apparire come onnicomprensiva - perchè vi possono trovare asilo vari filoni teorici, dunque non può privilegiare un aspetto rispetto ad altri e nel contempo positivamente provvisoria- perchè disposta a continui ripensamenti e riformulazioni, sia dei propri obiettivi conoscitivi, che del proprio apparato teorico-metodologico. Considerando la definizione formulata nel 1997 da Fabietti e da Remotti si sottolinea che “l'antropologia visuale mira a sviluppare una teoria generale del visivo, cioè di quel livello di cultura che si offre direttamente agli occhi dell'osservatore e che della cultura costituisce una chiave di accesso, emerge un oggetto di studio che si individua in ciò che si esprime visivamente, che si può cogliere e che si può registrare e fissare mediante l’impiego di strumenti audiovisuali”.
Inoltre, l'antropologia visuale si prefigge come obiettivo conoscitivo: quello di giungere ad una vera e propria teoria del visivo, volta ad analizzare e a decodificare, le forme visibili che le culture variamente assumono. Proprio per questa caratteristica, è costretta ad un continuo confronto con altre discipline anch'esse coinvolte nell'analisi del visuale. Proprio la definizione di antropologia visuale, fino ad ora considerata, invita a riflettere sulle continue trasformazioni che ha subito il suo oggetto di studio in una situazione di mutamento dove si configurano nuove problematiche di studio.
Con l’avvicinamento al progetto Culturalmente: itinerari artistici verso l’interculturalità ho approfondire l’importanza dell’aspetto tecnico ovvero di quegli strumenti con cui abbiamo cercato di documentare l'espressione visiva di una cultura di riferimento. Soprattutto nelle prime lezioni non sono mancate riflessioni sul fronte strettamente metodologico, legate alla validità e alle potenzialità degli strumenti di comunicazione, espressione e registrazione delle immagini. L’approfondimento del carattere teorico-tecnico dell'antropologia visuale è avvenuto con il nostro graduale coinvolgimento nel progetto con Paul e Mike. Qui ci siamo concentrati sulle modalità attraverso le quali la documentazione visuale prodotta debba essere archiviata e conservata affinché le informazioni siano sempre reperibili e potranno poi, essere successivamente divulgate.
E’ stato interessante osservare come la moltitudine di informazioni raccolte siano rientrate in specifiche note di campo costituite dalle riprese, una modalità particolare per fare conoscenza in maniera diversa. A tal proposito mi pare opportuno far riferimento ad alcune considerazioni di MacDougall sulle risorse e sulle potenzialità dei mezzi audiovisivi. David MacDougall ha sottolineato che la nostra percezione ordinaria dell’esistenza, del sé e dell’altro, passa attraverso la percezione di una immagine. Ed è proprio questa percezione che colloca la visione su di un piano di adesione alla vita, ad un esserci-nel-mondo, qualificandola come un’esperienza di partecipazione. Pertanto l’azione del filmare può essere interpretata come atto che precede il pensiero in cui una osservazione di un certo interesse, di una certa intenzione e lascia una traccia persistente. Ed è proprio con la finalità di mettere in luce questa traccia che si è sviluppato il progetto Culturalmente che ha visto coinvolti me e i miei compagni dal primo incontro conoscitivo con i due artisti coinvolti. Proprio dal primo momento con Paul e Mike è emersa la reale possibilità di creare un terreno di incontro fra sguardi convergenti. Infatti, dall’insegnamento di Rouch, ho potuto osservare l’importanza dell’esperienza di vita nel lavoro che abbiamo avviato considerando la centralità del filmato come momento di condivisione, come luogo di un gioco che caratterizza fortemente il farsi delle immagini in cui diventa decisivo il modo in cui la cinepresa agisce, in cui si muove e in cui esplora lo spazio, perché in questa dinamica si riflettono presenze e sguardi che possono condurre ad una comprensione multisituata e polifonica.
Dopo iniziali preoccupazioni sull’adozioni di adeguate modalità con cui avvicinare Paul e Mike, si è potuto osservare una crescente empatia creatasi anche grazie alla modalità partecipatoria e collaborativa utilizzata per condurre il nostro lavoro pur con il breve tempo a disposizione.
Questa viene ad essere una questione importante verso la quale si sono espressi vari autori tra i quali Sarah Pink che nel suo testo “Visual Intervensions. Applied Visual Anthropology” dove ha esaminato il valore e le pratiche dell’antropologia visuale applicata. Nel libro, sono riportate le esperienze su una serie di casi studiati da diversi autori che hanno prodotto degli interessanti documentari etnografici creati con l’utilizzo di mezzi audio visivi andando a sondare il contesto della sanità, le politiche sociali, la dimensione del turismo nella valenza di patrimonio culturale.
Di questo libro, rispettando quanto richiesto dalla docente, ho proceduto all’attenta lettura dell’articolo di Carlos Y Flores (capitolo 10) dal titolo “Sharing Anthropology. Collaborative Video Experience among Maya Film- makers in post-war Guatemala”.
L’autore presenta un progetto di film- documento etnografico al fine di valutare “gli usi, le possibilità e gli effetti dei media audiovisivi tra i gruppi indigeni in un paese da una prospettiva antropologica”. Emerge lo scopo ultimo di riflettere sullo stato di applicazione dell’antropologia visuale come specifico campo di pratica. Flores dichiara di aver voluto sviluppare una versione di Rouch di “antropologia condivisa” nel suo documentario collaborativo nel progetto con i Q’eqchi’ in Guatemala al termine della guerra civile che, dopo il colpo di stato appoggiato dagli Stati Uniti nel 1954, ha visto instaurarsi una dittatura che ha combattuto con metodi spietati la guerriglia armata, composta prevalentemente da indigeni. Solo nel 1985 i militari hanno ceduto il potere ai civili ed è stato avviato un processo di democratizzazione. I protagonisti della ricerca sono un gruppo di persone appartenenti ad una tribù non minoritaria, integrata nel sistema nazionale anche se svantaggiata da un punto di vista socio economico e segnata dal conflitto armato. Inoltre l’autore aggiunge che i soggetti del Guatemala sono diversi dagli indigeni studiati in Brasile o in Australia in quanto non hanno dovuto difendere il riconoscimento della loro etnia.
Il lavoro dell’autore si colloca nella seconda metà degli anni 90 quando la popolazione ancora aveva mantenuto un ricordo molto vivo della militarizzazione e della dislocazione sociale ma nel contempo si stava impegnando a potenziare nuovi meccanismi di ricostruzione sociale. Questa esperienza ha permesso di considerare i films etnografici come utili strumenti di ricerca e di studio di comunità. Infatti, lo studio seguito ha innescato un meccanismo virtuoso per portare alla luce la nuova realtà formatasi dopo il conflitto civile. La ricerca effettuata dall’autore si è rivelata non solo antropologica ma anche personale e comunitaria. In effetti, Flores è un guatemalteco non indigeno e tale progetto gli ha permesso di riscoprire la propria identità dopo aver abbandono il paese d’origine durante il conflitto. Dall’altra parte, anche l’intera comunità ha potuto avviare un cammino ricostituivo dopo la tragica esperienza del conflitto. Ed è per questo che l’autore sottolinea non solo un interesse accademico ma anche personale in un’analisi dell’impatto politico sulla popolazione indigena. Questo spiccato interesse personale ha condotto Flores di fronte a dubbi personali da guatemalteco che si percepisce in una “mezza appartenenza guatemalteca” che lo ha proiettato a vivere l’esperienza in prima persona pur mantenendo una prospettiva esterna in una specie di doppia visione del contesto senza riuscire a trovare una linea di confine tra i due sguardi. A tal proposito menziona Clifford rispetto alla modalità di divenire consapevoli che ogni versione di “altro” possa essere orientata anche alla costruzione di un sé. Flores sottolinea una prospettiva soggettiva di profonda condivisione con la presenza di voci multiple e ciò è stato reso possibile avvicinando nuovi paradigmi al di fuori del modello accademico.
Inizialmente Flores si è concentrato sul metodo dell’osservazione partecipante in un lavoro di integrazione con il video team durante le riprese video nella città di Coban e nei villaggi circostanti. Flores riprendeva i film –makers mentre gli stessi interagivano con gli altri membri della comunità annotando tutto nel diario di campo. Questo punto di osservazione esterno pare non abbia condizionato il normale fluire delle attività quotidiane registrate. Flore notò che nel primo periodo di lavorazione si erano registrati degli aspetti che lo stesso autore non pensava rilevanti, ad esempio non vi era alcun rimando alla guerra civile e all’attuale posizione socio politica.
Dopo un calcolato distacco dalla scena, Flores si è inserito con un intervento attivo orientando la ricerca sull’impatto della guerra in termini culturali al fine di creare un prodotto destinato a divenire patrimonio comune in grado di raggiungere il maggior numero di portatori di interesse.
Flores ebbe varie difficoltà nel momento del montaggio del materiale reperito in quanto assistette ad un calo di interesse da parte dei film makers maggiormente attratti dal processo costruttivo piuttosto che dal prodotto finito. Il film prodotto risultò molto distante dai parametri occidentali ma venne apprezzato dai guatemaltechi. Ma comunque la conclusione più apprezzabile fu rendere la comunità locale più consapevole della loro specificità politica e culturale in vista di un maggior controllo sull’intenzione di quali elementi preservare, distruggere e modificare.
La ricerca di Flores ci illustra un’impresa condivisa e collaborativa che conduce ad una produzione di conoscenza antropologica che l’esperienza sul campo riesce a racchiudere un significato costruendolo insieme ai soggetti che entrano in relazione.
Ed è proprio all’interno del video che possiamo dare spazio ad una molteplicità di voci in un continuo gioco di dialettica di definizione all’interno di una rappresentazione dove vi sono diversi livelli di condivisione. Con il film dell’esperienza etnografica si riesce a costruire l’immagine dell’altro dato che il mezzo audio visivo ci permette di esplorare il punto di vista dei soggetti nell’iscrizione nei loro corpi. Il visivo, per non essere chiuso, può essere utilizzato per evocare esperienze sensoriali nell’audience. Ci permette quindi di riflettere in termini di risonanza che comprende gli stati emotivi relativi agli enunciati dei soggetti ovvero è la comprensione dello stato emotivo altrui senza sostituzione. Ed è proprio la costruzione del sé che può essere elemento osservabile attraverso l’utilizzo di un mezzo audio visivo come la telecamera. L’antropologia ha quindi un ruolo performativo in quanto produce significato che emerge, si svela e non esiste a priori. Si attua un’apertura al cambiamento dove il film si manifesta come antropologia performativa mettendo in scena il processo di conoscenza antropologica . Quindi i films producono una sorte di comprensione dei soggetti che vengono rappresentati. Il film include l’esperienza e non è solo l’oggetto che viene presentato in modo astratto ma è conoscenza sulle relazioni che ne nascono. Fare la conoscenza di……..diceva MacDougall e con questa significativa citazione concludo le mie riflessioni sul percorso effettuato durante il Laboratorio.

Marta Barella
Laboratorio Antropologia Visiva gennaio-maggio 2011

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