4 luglio 2011

Sharing Anthropology di Carlos Y. Flores

Collaborative Video Experience among Maya Film-makers in Post-war Guatemala.
L'antropologo Carlos Y. Flores ha portato avanti una collaborazione improntata alla produzione video tra i Q'eqchi, una comunità Maya dell'Alta Verapaz in Guatemala. Durante questo suo campo di lavoro la regione era da poco uscita dal più lungo e cruento conflitto armato in America Latina – siamo nella seconda metà degli anni '90 – e vedremo come questo inciderà sul prodotto video e sul rapporto con questo strumento.
Tra le osservazioni che ci hanno colpito e che possono essere ricondotte in qualche modo anche alla nostra esperienza in Via Padova, c'è il sentore dell'antropologo che si rende conto, guardando alla società guatemalteca, di quanto la sua percezione/prospettiva sia confusa dall'appartenenza nazionale (viste le sue origini sudamericane) e dal suo status di straniero. Sebbene il rapporto sia diverso, in un caso abbiamo la nazionalità vs. la regione e dall'altro (nel caso ad esempio mio e di Alessandra) la cittadinanza/il domicilio vs. il quartiere, troviamo che il procedimento sia lo stesso, e cioè la possibilità di sentirsi “stranieri” in un determinato tessuto sociale, pur essendo a tutti gli effetti parte dell'organismo “città”. A maggior ragione il nostro caso è emblematico data la circoscrizione del territorio rispetto ad una nazione.
Carlos Y Flores ha collaborato a due produzioni video dei Maya-Q'eqchi, i quali a loro volta lavorano con l'ordine Benedettino della Chiesta Cattolica nella città di Cobàn; ci racconta di come si inserisce all'interno delle sessioni di ripresa nei villaggi intorno alla città e nota come, nonostante il team non sembrasse infastidito dalla sua presenza, indubbiamente i componenti fossero più riservati quando era in mezzo a loro con il suo quaderno degli appunti. Quello che colpisce l'antropologo durante le riprese è in primo luogo l'attenzione prestata dal team a quelle pratiche che sono state messe in risalto da buona parte della letteratura antropologica sulla Mesoamerica come “essenziali” per la civiltà Maya, quali le cerimonie relative alla raccolta di piante sacre (mais e fagioli), rituali sul ciclo-vitale, mitologie e riferimenti all'importante montagna Tzuultaq'a, anche se le cerimonie religiose filmate erano generalmente associate alle festività cattoliche e non Maya. Secondariamente appare strano il fatto che, nonostante molti componenti della troupe fossero stati nell'esercito e tracce di militarismo fossero apparentemente ovunque, nessuno sembrava interessato ad indagare questa dimensione politica relativa alla guerra civile. Infine il prodotto era in lingua spagnola, lingua difficilmente compresa dalla maggior parte dei membri della comunità. Questi punti parevano tutti indicare quale fosse il destinatario del girato finale, un destinatario esterno alla comunità e non la comunità stessa, come invece si presupponeva.
Dopo alcune settimane il team diventa consapevole della competenza in alcune produzioni televisive dell'antropologo e questo gli garantisce un coinvolgimento più ampio. Qui, a nostro avviso, cominciano i problemi dettati dal cosidetto “occhio culturale” e l'antropologo propone di sperimentare un riorientamento sugli oggetti indagati per produrre documentari di osservazione innanzitutto nella loro lingua e poi su quello che egli riteneva maggiormente “tradizionale” e “ancestrale”. Questo riposizionamento rispetto all'oggetto di ricerca, sebbene nel saggio venga identificato come il punto di partenza di un lavoro che coinvolgerà maggiormente i partecipanti e porterà anche alla richiesta di una seconda proposta visiva da parte di Ven de la Cruz, un missionario della Congregazione dell'immacolato cuore di Maria nell'area di Salawim, riteniamo invece che sia stata una forzatura rispetto a quelle che erano le reali prerogative dei Q'eqchi. Infatti, anche se il team si sentì maggiormente coinvolto dal nuovo indirizzo, si è seguito un oggetto di ricerca che parte da un punto di vista occidentale e che si focalizza sul tradizionale e l'ancestrale (sono proprio le parole che usa Flores) mentre il lavoro di partenza teneva conto, a livello inconscio magari, della commistione culturale e del contesto etnografico del qui ed ora, coincidente dunque con il contesto storico.
Flores nel secondo video richiesto dal missionario riesce ad affrontare il tema della violenza militare e trova la compartecipazione dei leader della comunità di Sahakok; ci domandiamo se questo sarebbe comunque avvenuto senza la “spinta” di Flores. Un'altra avvisaglia a sostegno di questa nostra tesi è il fatto che nel momento del montaggio del primo video, il team abbia perso interesse ed entusiasmo, la deduzione è che produrre un film per i Q'eqchi', avesse a che vedere più col processo, come tecnica della modernità, che col prodotto finale.
La conclusione di Flores comunque è che l'approccio visuale abbia permesso l'emergere di un discorso sulla memoria e la possibilità di affrontare un recente passato traumatico.
Una conclusione che invece possiamo trarre noi, anche rispetto al lavoro su Via Padova, alla luce delle nostre opinabilissime considerazioni, è che è importante lasciar emergere lo sguardo interno alla realtà che stiamo indagando senza condizionamenti e senza curarci troppo del prodotto finale, cioè dare più importanza al procedimento, e crediamo sia quello che stiamo imparando a fare.

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