24 maggio 2013

"Filmare le culture", C.Pennacini


FILMARE LE CULTURE. UN’INTRODUZIONE ALL’ANTROPOLOGIA VISIVA

- Cecilia Pennacini -

 
L’antropologia visiva formalizza una prima definizione di se stessa nel congresso dell’American Anthropological Association tenutosi a Chicago nel 1973.
Il saggio della Pennacini muove i suoi passi dal concetto di visione e, quindi, dal rapporto tra essa e la cultura. Esponendo alcune delle teorie psicologiche e antropologiche più note sulla visione, come ad esempio la Gestaltpsycologie, la studiosa illustra la definizione semiotica dell’immagine: ciò che normalmente definiamo visione naturale dell’immagine è in realtà una percezione, il prodotto di scelte e selezioni operate attraverso procedimenti e costruzioni culturali e sociali. La comunicazione visiva, dato l’alto coefficiente di indessicalità delle immagini, viene ad essere, così, una rappresentazione di rappresentazioni, svelando il potenziale comunicativo transculturale dei segni visivi. Per questo oggi l’antropologia considera questi linguaggi/strumenti importanti per condurre e sviluppare le sue ricerche.
Tale prospettiva teorica è piuttosto recente ed è nata a seguito della vecchia concezione positivista che vedeva, e utilizzava, invece, le immagini fotografiche o cinematografiche come strumenti di osservazione e ricerca oggettivi, neutrali, scientifici e inconfutabili per documentare le società studiate. Le prime fotografie etnografiche, come dimostrano la famosa spedizione di Haddon, Rivers e Seligman allo Stretto di Torres (1898-99), il testo di Darwin sulle espressioni delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) e le immagini antropometriche del Royal Anthropological Institute (1870), rispondono ad una logica di musealizzazione delle culture umane, in quanto si fondano ancora sull’idea illuminista della costruzione di un museo o di un’enciclopedia visiva.
Se già l’osservazione partecipante di Malinowski alle isole Trobriand (1921-22) fece nascere l’esigenza nell’antropologo polacco di documentare quelli che lui chiama gli “imponderabili della vita reale” mediante documenti visivi, furono in realtà Gregory Bateson e Margaret Mead ad inaugurare la ricerca etnovisiva. Durante il loro campo di ricerca a Bali tra il 1929-1936, i due antropologi raccoglieranno un corpus di documentazione formato da diverse migliaia di riprese fotografiche e cinematografiche. L’idea di fondo di Bateson, affrontata nel suo studio dal titolo Naven sugli Iatmul della Nuova Guinea (1936), era quella che le culture possiedano un ethos che struttura le culture stesse; fotografare una cultura, quindi, permette di indagare e cogliere quegli aspetti emotivi che a una descrizione verbale solitamente tendono a sfuggire. Davanti all’obiettivo, sostiene l’antropologo, il personaggio osservato assume l’atteggiamento richiesto dal suo status, vale a dire si mette in scena deliberatamente per autorappresentarsi. Nonostante la visione di Bateson sia ancora legata alla tradizione empirista inglese dello struttural-funzionalismo, per alcuni versi essa anticipa le tendenze ermeneutiche degli anni Settanta.
Nella seconda parte del saggio (capp.3-4-5), la Pennacini si concentra sul linguaggio cinematografico.
Il ruolo di precursore del cinema etnografico si attribuisce al medico francese Regnault, quando nel 1895, nel corso dell’Esposizione etnografica di Parigi, con un apparecchio cronofotografico realizzò alcune riprese dei movimenti corporei di alcuni abitanti dell’Africa occidentale e del Madagascar portati nella capitale francese per essere mostrati al pubblico nei padiglioni dell’esposizione. Il paradigma teorico di fondo che supportava il lavoro, naturalmente, era quello positivista ed evoluzionista; lo scopo delle riprese era quello di raccogliere documentazioni oggettive per gli studi dei ricercatori.
Le prime vere e proprie sequenze cinematografiche verranno realizzate nel corso della famosa spedizione inglese allo Stretto di Torres (1898-99), a cui seguirono quelle di Franz Boas.
Ma è solo nel 1922 che l’etno-cinematografia diviene un genere vero e proprio. L’anno coincide con l’uscita del film-documentario di Robert Flaherty, Nanook of the North, un regista non etnografo che riuscì a realizzare il primo vero documento sulla vita di una popolazione esotica ripresa in loco (gli Inuit della Baia di Baffin). Ciò che, infatti, differenzia il film di Flaherty dai precedenti filmati di campo è il fatto che il regista non si limita a registrare i dati posti di fronte all’obiettivo, ma, attraverso un complesso e articolato linguaggio cinematografico e una struttura filmica totalmente innovativa (montaggio delle sequenze, sguardi in macchina, ecc…) costruisce la realtà da lui osservata, e quindi la sua interpretazione di essa. Nanook of the North esprime, pertanto, il tema della relazione tra soggettività e oggettività tipica dell’osservazione etnografica, così come il concetto della reciprocità di sguardi che sempre si incrociano nell’incontro culturale.
A seguito di Nanook, negli anni Venti e Trenta, la produzione di film documentari si intensifica e sul mercato viene introdotto il 16mm; per il sonoro bisognerà, invece, aspettare gli anni Cinquanta.
Nel panorama del cinema sperimentale di avanguardia rientrano Maya Deren, con il suo film sulla danza rituale vudù e la transe ad Haiti L’Haitian film footage (1947-1955), e Jean Rouch, con il film sul movimento religioso degli Hauka del Niger Les maitres fous (1954-55). Il film di Rouch può considerasi un vero e proprio saggio sulla possessione, la quale, secondo il cineasta-antropologo, svolge un funzione psico-sociale all’interno della comunità per la loro integrazione con il sistema coloniale. Come la Deren, quindi, anche Rouch è interessato alla rappresentazione dei riti di possessione come ricerca di una visione dall’interno, ma, al contrario della studiosa che abbandonerà le riprese convinta che esista un limite (l’evento della possessione, appunto) oltre il quale l’occhio e l’obiettivo non possono spingersi, egli, accettando la finzione spettacolare della transe, riuscirà ad oltrepassare il confine della percezione normale per entrare nel mondo “trans-umano” della performance. Rouch utilizza l’espressione cine-transe per spiegare la sua tecnica, una condivisione profonda di sguardi tra osservatori e osservati che si attua nella ripresa cinematografica. Il suo cinema diviene, così, uno strumento epistemologico utile alla ricerca antropologica.
La Pennacini prosegue con l’illustrare l’esperienza dei cosiddetti “Bostoniani” (Marshall, Gardner, Ash), che lavorarono negli anni Sessanta con una metodologia vicina all’impianto teorico del “cinema di osservazione”, e la sperimentazione etnovisiva di Mac Dougall sugli aborigeni australiani. Il suo lavoro, svolto in collaborazione con la comunità dei nativi, aveva come obiettivo quello di costruire un dialogo tra le culture accorciando le distanze culturali; in altre parole fare antropologia con le immagini. Attraverso l’osservazione delle vicende e delle esperienze individuali dei soggetti cinematografici, è possibile riconoscere le proprie e questo processo di identificazione e comprensione è, appunto, ciò che permette di superare le frontiere culturali. In questo senso il cinema può fornire all’antropologia un linguaggio e uno strumento in grado di veicolare l’incontro tra culture.
Il saggio termina con la riflessione riguardante il sodalizio possibile tra cinema e antropologia. La prospettiva ermeneutica nata intorno agli anni Settanta considera le culture come sistemi di segni (si veda la metafora di Geertz della cultura come testo). La ricerca antropologica diviene un dialogo, un’interpretazione, una negoziazione di significati tra antropologo e nativi. Ma i segni possono essere verbali e visivi insieme, anche perché la rappresentazione etnografica risente oggi di una certa difficoltà nell’adeguare le forme tradizionali di rappresentazione ai nuovi metodi d’indagine e a un mondo che cambia così velocemente. Il linguaggio cinematografico possiede, infatti, capacità e potenzialità che la scrittura non possiede; a quest’ultima si devono aggiungere anche i limiti rappresentati dall’acquisizione/comprensione linguistica e dal carattere scientifico delle monografie, che le rende destinatarie spesso solo di un pubblico esperto.
Per questo la prospettiva di ricerca per il futuro, secondo la Pennacini, potrebbe essere quella di non operare più una separazione tra l’antropologia scritta e l’antropologia visiva, ma integrare le metodologie in una molteplicità di approcci comuni all’intero ambito antropologico nel suo insieme.

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