18 novembre 2013

Spettacoli di danza per turisti a Mombasa

Buongiorno a tutti,

vorrei brevemente presentarvi il mio progetto. A giugno-luglio di quest’anno ho trascorso tre settimane a Mombasa (Kenya) per la tesi e ho avuto modo di vedere alcuni spettacoli di danza presentati in contesti turistici. In particolare ho assistito ad alcuni spettacoli organizzati in un albergo ubicato a Nyali beach, a nord di Mombasa, che ospita sia turisti domestici sia internazionali e ho pensato che avrebbero potuto essere il tema del mio progetto.
In riferimento agli spettacoli di danza qui rappresentati, si può fare una distinzione fra quelli messi in scena da una compagnia di ballo impiegata dall’hotel e quelli messi in scena da danzatori “itineranti” che si esibiscono quindi in diversi alberghi della costa.

Con il progetto vorrei quindi occupami di danze tradizionali eseguite in contesti turistici, prendendo in considerazione nello specifico, due spettacoli presentati in questo hotel: il primo, dal titolo An African Celebration, è rappresentato dalla compagnia impiegata dall’albergo, il secondo vede un gruppo di circa 20 Maasai esibirsi in una serie danze tradizionali.
Con il primo spettacolo, prodotto ex novo appositamente per i turisti, vorrei indagare i seguenti aspetti:
-        quanto la rappresentazione pensata per intrattenere i turisti si discosta o si avvicina all’immaginario che gli stranieri hanno sviluppato sull’Africa a partire dall’epoca coloniale fino ad oggi, come ben mettono in evidenzia gli aspetti enfatizzati dai tour operator: l’esotico, il diverso, il tribale, l’arretratezza, la sensualità, la violenza.
-        La dimensione della creatività e della sperimentazione in rapporto agli elementi considerati tradizionali e autentici.

Con il secondo spettacolo, che consiste nella rappresentazione di quattro differenti danze Maasai per gli ospiti dell’albergo, vorrei porre l’attenzione sul fatto che le danze qui esibite sono passate da una dimensione rituale e da una funzione coesiva della comunità a una dimensione teatrale, che non implica una dimensione sociale se non quella di divertire gli spettatori (Marco Aime, L’incontro mancato, Torino, Bollati Boringhieri, 2005 , p. 121). Qui le danze possono rimanere invariate negli aspetti formali (sebbene possano cambiare alcuni elementi come la durata) ma subire un processo di risignificazione.

Ho parlato con alcuni ballerini della compagnia di danza dell’albergo e con alcuni danzatori Maasai. Due di loro hanno accettato di essere intervistati ma non ripresi. Il lavoro sarà dunque costituito da riprese effettuate durante i due spettacoli e da spezzoni di interviste audio.
Nel primo caso le domande erano focalizzate sugli aspetti relativi alla creatività e all’innovazione; nel secondo ho chiesto di parlare delle differenze fra le danze eseguite nella loro comunità e quelle danzate appositamente per i turisti e degli eventuali cambiamenti che possono verificarsi.

Sto ora cercando di lavorare sui materiali raccolti, a presto con nuovi aggiornamenti.
Grazie,
Sara

10 commenti:

  1. Grazie Sara per la condivisione,
    il tutto mi è parso chiaro e ben formulato. Più interessante sarebbe stato, mi viene da aggiungere, se tu avessi condiviso il tutto in fase preliminare alle riprese e durante queste. Qualche materiale di intervista/ripresa dei turisti e delle loro aspettative e/o commenti post performance?
    Se ho ben compreso si è trattato di filmare la performance e back stage di due gruppi di ballo diversi...qualche approfondimento rispetto alle tecniche del corpo implicate nella danza e alla loro trx? qualche materiale visivo di archivio rispetto alla risignificazione a cui hai fatto cenno? (i passi aggiunti, i costumi modificati o altro?)
    Forse varrebbe la pena prendere in considerazione un voice over (tuo commento fuori campo) che contribuisca a dare significato alle immagini (sequenze) che inserirai nel tuo montaggio.
    mi è difficile pronunciarmi sull'approfondimento audiovisivo che proponi senza vedere il materiale che hai girato. cerca di pensare a come - eventualmente - ampliarlo a distanza....e giramelo appena puoi caricandolo sul tubo
    buon lavoro
    sara

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    1. Grazie mille Sara,

      sì in effetti avrei dovuto impostare il lavoro in modo diverso. Purtroppo l’idea mi è venuta proprio quando ero là e non ho avuto la prontezza di discuterne nel mentre, cosa che sarebbe stata ben più utile e interessante. Probabilmente il materiale che ho raccolto non è sufficiente ma assistere a questi spettacoli mi ha portato ad alcune riflessioni che spero di riuscire in qualche modo a concretizzarle attraverso il montaggio.
      Potendo tornare indietro accoglierei con entusiasmo il suo suggerimento di fare alcune interviste agli spettatori prima e dopo lo spettacolo. Soprattutto nel primo caso, molto giocato su alcuni stereotipi ed emblemi dell’”Africaness” che si possono trovare nel discorso e nell’immaginario occidentale sull’Africa a partire dall’epoca coloniale: la virilità dei guerrieri, la lascività e la sensualità delle donne, i tamburi e i suoi ritmi “tribali”, le guerre “tribali”.
      Per fare emergere questo aspetto ho cercato di frapporre il commento del narratore della performance ad alcuni spezzoni audio dell’intervista fatta proprio al narratore. Infatti se la storia racconta di questo villaggio africano "in un tempo lontano ma non così lontano" e in particolare degli scontro fra guerrieri che lottano per ampliare i confini del proprio villaggio, senza specificare nulla a riguardo della sua collocazione geografica o del tempo storico in cui sono accaduti gli eventi narrati, alludendo quindi all'Africa in generale e a un villaggio privo di qualsivoglia caratteristica se non quella dell’essere africano, l’intervistata parla con enfasi del tentativo della sua compagnia di trasporre sulla scena una “tipica” realtà sudafricana con le sue danze tradizionali ma in chiave contemporanea. Il fatto di frapporre le due voci narranti, mi sembra possa aiutare a riflettere sul fatto che nel tentativo di rielaborazione della compagnia in chiave contemporanea si insinui l’adesione all’immaginario che l’Occidente ha solitamente sull’Africa: se da una parte mi sembra che ci sia il desiderio di appropriarsi delle proprie tradizioni per farne qualcosa di nuovo, dall’altra resta il desiderio di rispondere alle aspettative dei turisti.
      Ho provato a fare un primo montaggio, ecco qui: https://vimeo.com/80506794 password: AV (la qualità è molto bassa perché ho salvato il montaggio in bassa risoluzione)
      Si tratta proprio di una bozza di prova, devo sicuramente lavorarci ancora molto e introdurre altre sequenze. L’inquadratura è fissa perché ho pensato di adottare il punto di vista di un ipotetico spettatore che si stava godendo lo spettacolo. Seguendo il suo suggerimento, potrei introdurre il tutto con commento. Riguardo alle possibilità di ampliare il progetto a distanza, pensavo che magari potrei mostrare le registrazioni dello spettacolo ad alcuni conoscenti qui dove vivo e raccogliere in qualche intervista le loro impressioni e magari anche chiedere loro cosa ne pensano delle mie riflessioni riguardo al rapporto fra immaginario europeo sull’Africa e rappresentazione offerta ai turisti.
      Per quanto riguarda il montaggio delle danze Masai, sono più in difficoltà. La ringrazio moltissimo per il suggerimento del materiale d’archivio con cui confrontare le riprese che sono riuscita a fare. Al momento non ho nulla, se non un estratto del documentario Baraka, ma ci sto lavorando.
      Infine, memore dei documenti che mi aveva inviato in effetti mi sono posta il problema ma non avendoli con me non ho fatto firmare nulla, purtroppo. Ho spiegato loro il progetto ed è per questo che hanno accettato di essere registrati ma non filmati durante l’intervista. Forse però non è sufficiente…

      Ancora grazie,
      Sara

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  2. dimenticavo! ti sei posta la questione della liberatoria per le riprese audiovisive?
    sara

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  3. Ciao a tutti,

    pubblico qui a seguire tre post che cercano di analizzare gli stereotipi che dall'epoca coloniale ad oggi informano l'incontro fra popolazioni locali del Kenya e del Sudafrica, e occidentali (colonizzatori ed espolaratori in passato, viaggiatori e turisti oggi). Ho cercato di fornire un inquadramento alle danze turistiche cui ho assistito in un albergo di Mombasa, per poter rispondere al primo interrogativo che mi ero posta: quanto la rappresentazione pensata per intrattenere i turisti si discosta o si avvicina all’immaginario che gli stranieri hanno sviluppato sull’Africa a partire dall’epoca coloniale fino ad oggi, come ben mettono in evidenzia gli aspetti enfatizzati dai tour operator?

    ecco il primo post:

    Alcuni cenni storici: la longevità dello stereotipo del temibile guerriero zulu e la lotta con i bastoni - PRIMA PARTE

    Gli zulu sono passati alla storia come coloro i quali sconfissero l’esercito britannico nella battaglia di Isandlwana nel 1879, armati solo di scudi e lance. Questo evento ebbe un impatto intenso e duraturo sia fra gli inglesi, che promossero l’immagine del guerriero zulu fiero e spietato, sia fra i sudafricani nativi che rivendicarono con orgoglio la temerarietà della resistenza zulu contro il dominio dei banchi. Lo stesso Mandela, nella sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà, fa menzione del coraggio degli zulu nella battaglia di Isandlwana, eleggendo questo episodio storico a fonte di ispirazione per la fondazione dell’ala militare dell’African National Congress (ANC): Umkhonto we Sizwe, (“Lancia della nazione”).
    Dopo i massacri delle truppe della regina vittoria nel 1879 si diffuse la figura stereotipata del guerriero zulu in tenuta da combattimento che brandisce la lancia; questo stereotipo finì per rappresentare quello che gli europei temevano maggiormente del continente nero: un incontro con il natural born killer.
    In seguito alla sconfitta del regno zulu, un’altra immagine rappresentativa degli zulu cominciò a circolare: privato della sua lancia, il guerriero zulu fu ritratto come un uomo giovane a torso nudo che impugna un bastone (unico rimando marziale), ovvero l’unica arma che l’autorità britannica aveva permesso.
    Negli anni Novanta i sommovimenti che precedettero la fine delll’Apartheid nel 1994, indussero molti giornalisti sudafricani e internazionali a rimettere in campo lo stereotipo del guerriero zulu aggressivo e fiero. I giornalisti dipinsero le lotte intestine degli anni Novanta come un orribile ritorno al passato e descrissero la violenza black on black come un qualcosa di atavico e innato.

    Presso le comunità zulu, i giovani costruivano la propria mascolinità attraverso una serie di pratiche fra cui la lotta con i bastoni. Il bastone costituiva molto più che un’arma per il giovane che lo riceveva in dono: esso rappresentava un obbligo nei confronti della sua discendenza che egli doveva proteggere difendendo le risorse che l’avrebbero garantita, come ad esempio il bestiame. Nelle comunità zulu, gli uomini era principalmente dediti all’allevamento di bestiame mentre le donne si occupavano dell’agricoltura.
    La retorica della mascolinità era dunque funzionale al rispetto comunitario e all’autorità patriarcale e il bastone costituiva il simbolo del rispetto generazionale e della sicurezza della fattoria; solo in alcuni casi circoscritti esso alludeva a significati marziali. Nel caso di guerre, come durante il regno di Shaka, i soldati erano incoraggiati ad eseguire delle danze rituali in preparazione della battaglia nelle quali venivano riprese le gestualità tipiche della lotta con i bastoni.
    L’amministrazione coloniale associò presto questa pratica alla figura del guerriero coraggioso e dell’aggressività maschile nel Sudafrica; tale identificazione ebbe ripercussioni anche sul passato recente e ne ha anche sul presente: la mascolinità zulu, connotata come violenta e bellicosa, è considerata una delle cause dell’alto tasso di violenza presente in Sudafrica.

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    1. Alcuni cenni storici: la longevità dello stereotipo del temibile guerriero zulu e la lotta con i bastoni - SECONDA PARTE

      Quando nel 1879 le forze britanniche invasero la terra zulu deponendo il re ed estendendo un controllo più ampio sul nuovo territorio, costrinsero i nativi a vivere nelle riserve e promulgarono nuove leggi che limitarono le possibilità dei giovani di fare uso delle armi a scopo ricreativo. Nell’anno che precedette l’invasione, l’alto commissario britannico per il Sudafrica aveva coniato la definizione men-slaying war-machine per appellare i guerrieri. In questo modo credeva di aver riassunto in un’espressione efficace la natura della mascolinità zulu nutrita sin dalla giovinezza con la lotta dei bastoni.
      Nel 1900 il porto di bastoni era monitorato severamente: un solo bastone era ammesso in pubblico e le forze di polizia sorvegliavano le occasioni celebrative in cui era consuetudine organizzare le lotte con i bastoni (celebrazioni pubbliche come matrimoni e fidanzamenti erano un’occasione ideale per dimostrare pubblicamente la propria virilità attraverso il combattimento). Tuttavia gli inglesi non bandirono mai la lotta con i bastoni forse riconoscendo che l’arte marziale era un importante mezzo attraverso il quale i ragazzi sviluppavano le regole di un onorevole ritegno. La lotta con i bastoni, infatti, seguiva regole che privilegiavano la retorica, l’onore e la difesa. I valorosi lottatori dovevano innanzitutto proteggersi, arretrare nel caso in cui l’oppositore cadesse a terra indifeso.
      La retorica dell’onorevole ritegno animò l’ANC nel 1912; in particolar modo la lotta con i bastoni godeva di una grande considerazione fra i sostenitori della tradizione. Dall’inizio fino alla metà del XX secolo la mancanza di terra e le condizioni di povertà nelle riserve, spinse numerosi zulu a trovare impiego come servi e scaricatori in Durban e a svolgere mansioni umili nelle fabbriche e miniere di Johannesburg. Nonostante molti giovani lasciarono le fattorie, essi non abbandonarono i loro ideali di mascolinità e portarono la lotta con i bastoni nelle città adattando i movimenti alle danze rituali. Negli anni Venti e Trenta del XX secolo queste danze rituali diventarono una forma di intrattenimento popolare per gli africani di lingua zulu a Durban e Johannesburg
      Con la fine del XIX secolo molti rituali sono caduti in disuso, non però la lotta con i bastoni. Oggigiorno le lotte con i bastoni sono limitate ai periodi di vacanza degli zulu emigrati nelle città: a Pasqua e Natale essi lasciano Durban e Johannesburg per fare ritorno alle fattorie nei villaggi di KwaZulu-Natal. La lotta con i bastoni continua ad essere praticata ma ciò che sembra essere cambiato è lo scopo per cui la si pratica. Lo sport rimane un’espressione della difesa del corpo e della coesione comunitaria, ma cambiamenti importanti sembrano delinearsi. Essa sembra spostarsi dall’ambito della comunità a quello della lotta come bene di consumo. La lotta con i bastoni potrebbe non preparare più i giovani al ruolo di capi famiglia in una società orientata al lavoro salariale. Il turismo oggi è l’industria che registra la crescita più alta; accanto ai parchi naturali, una delle maggiori attrattive è costituita dai resort “tribali” nei quali i turisti possono avere un assaggio della “vera” Africa. In questo contesto la lotta con i bastoni può rappresentare per i giovani zulu una fonte di guadagno.

      Fonte: Benedict Carton & Robert Morrell, Zulu Masculinities, Warrior Culture and
      Stick Fighting: Reassessing Male Violence and Virtue in South Africa, Journal of Southern African Studies, 38:1 (2012), pp. 31-53


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  4. SECONDO POST

    “Villaggi culturali” in Sudafrica come display dell’”autentica” vita “tribale” - PRIMA PARTE

    In Sudafrica, durante l’Apartheid, la maggior parte delle culture native erano tenute nascoste al pubblico. In quel periodo storico furono delineate dieci aree geografiche, create con il pretesto di preservare la cultura e le tradizioni dei dieci gruppi indigeni individuati sulla base di una supposta identità politica, culturale e linguistica. Ciascuna area era stata infatti deputata a ospitare uno dei dieci gruppi etnici classificati dal governo e sarebbe dovuta diventare, nel tempo, uno stato-nazione indipendente.
    Queste homeland erano di difficile accesso a causa di una serie di restrizioni che vietavano la libera circolazione sia degli autoctoni sia degli esterni. Per rafforzare l’ideologia alla base della segregazione razziale, il governo e gli organi di stampa presentarono i gruppi indigeni sudafricani in termini essenzialistici. I musei, che esibivano manufatti disposti in “setting tribali”, fissi e immobili, sotto la stretta supervisione del governo, costituirono per un lungo periodo l’unico accesso a queste popolazioni da parte di esterni. Le modalità espositive di questi musei erano strutturate in modo da porre l’enfasi sulle profonde differenze culturali che separavano i bianchi civilizzati dalle popolazioni indigene. Furono talvolta ricreate anche alcune danze tribali e scene di vita nei villaggi accessibili ai turisti, ma anche tali rappresentazioni erano funzionali al supporto dell’ideologia del governo: proponevano una rappresentazione essenzializzata delle culture indigene.
    A metà degli anni Settanta, il governo, per promuovere il turismo interno, aprì la strada alla costruzione di casinò all’interno di alcune homelands. Sebbene questi casinò fossero per la maggior parte costruiti vicino alle maggiori vie di comunicazione, offrivano la possibilità di dare un’occhiata alla vita nelle di questi territori.
    Quando l’Apartheid fu abolito, l’accesso alle aree rurali divenne libero; l’apertura democratica del nuovo governo favorì lo sviluppo del turismo internazionale che da quel momento crebbe rapidamente. Il paese poteva offrire splendide bellezze naturali, una ricca fauna ed “esotici” gruppi tribali. Fra il 1988 e le elezioni democratiche del 1994, si registrò un cambiamento nell’interesse verso le popolazioni indigene e la loro rappresentazione; lo sviluppo di villaggi culturali può essere considerata una testimonianza di tale cambiamento.
    Negli anni immediatamente precedenti il 1994, i sudafricani mostrano progressivamente sempre più interesse nella storia. Dopo secoli di storiografia distorta, i sudafricani cominciarono a farsi domande su cosa fosse stato tenuto nascosto loro. Lo stesso interesse era rivolto alla cultura: c’era curiosità intorno a quelle realtà che l’Apartheid aveva distorto o celato. Fu in questo clima che nacque il sito a tema culturale di Shakaland. Nel 1986 la South African Broadcasting Corporation trasmise una miniserie dal titolo Shaka Zullu che celebrava la vita e le vicende del celebre re zulu, che divenne popolare sia in Sudafrica sia oltreoceano. I set realizzati per la serie comprendevano la ricostruzione di un piccolo e di un grande villaggio zulu vicino a Eswhowe nella provincia del Kwazulu-Natal. Sebbene il grande villaggio venne distrutto durante le riprese delle ultime scene, quello piccolo, che rappresentava il villaggio del padre di Shaka, restò in piedi e divenne poi parte di Shakaland. Per la costruzione del sito fu impiegato dal gruppo Protea Hotel un antropologo: Barry Leitch. L’idea di Leitch era quella di offrire ai visitatori un’esperienza culturale degli zulu unica, senza fare mistero del fatto che Shakaland era stato in precedenza un set cinematografico.

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  5. “Villaggi culturali” in Sudafrica come display dell’”autentica” vita “tribale” - SECONDA PARTE


    A Shakalnd i visitatori potevano fermarsi per un giorno soltanto oppure alloggiare in una delle abitazioni costruite secondo la struttura ad alveare degli zulu. Alcuni “consulenti” conoscitori dell’etnia zulu, guidavano i visitatori durante l’esperienza introducendoli al capo villaggio, un uomo anziano che parlava soltanto la lingua vernacolare. Il capo villaggio spiegava nella sua lingua alcuni aspetti della homestead e rispondeva ad eventuali domande, sempre con la mediazione linguistica dei consulenti. La sera venivano organizzati spettacoli di danze tradizionali e una sessione con un sangoma (un medium spiritico) che i consulenti culturali chiamavano healer (l’intenzione era quella di evitare l’associazione esotica con la stregoneria). Il giorno dopo i visitatori venivano portati in un “vero” villaggio zulu. Nelle intenzioni di Leitch questa visita era necessaria per decostruire l’eventuale mistificazione degli zulu nelle performance organizzate nel villaggio “artificiale”, esponendo i visitatori alla realtà della povertà e ai cambiamenti che erano intercorsi negli ultimi decenni negli stili di vita degli zulu. In questo modo i visitatori avrebbero potuto fare esperienza di ciò che era “reale” in termini di contemporaneità.
    Dopo gli anni d’oro di Shakaland il sito perse la sua missione originaria per diventare una mercificazione della differenza culturale. Sulla presentazione del sito web si legge: “Welcome to Shakaland Experience the essence of Africa: pulsating tribal rythms, assagai- wielding warriors and the mysterious rituals of the Sangoma, interpreting messages from the spirits, SHAKALAND, one of South Africa’s most unique tourist attractions, tucked away in an indiginous setting of aloes and mimosa trees, overlooking the Umhlatuzana Lake. Originally recreated for the films Shaka Zulu and John Ross, Shakaland is an unusual cross-cultural centre and living museum, where Zulu folk peruse the customs and traditions of their forebears”.

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  6. “Villaggi culturali” in Sudafrica come display dell’”autentica” vita “tribale” - TERZA PARTE

    Dopo Shakaland, numerosi villaggi culturali furono costruiti sfruttando il crescente interesse del turismo internazionale per le realtà “tribali” del Sudafrica. Gli zulu continuarono a esercitare una forte attrattiva come dimostra la creazione di un’altra grande attrazione: DumZulu Traditional Village Lodge che trae ispirazione dal “primo” Shakalnd. Qui risiedono più di cinquanta zulu compreso un sangoma. DumaZulu si avvale anche del visto del re zulu Goodwill Zwelithini, la cui approvazione è garanzia di oggettività e autenticità.
    In aggiunta, i materiali promozionali del sito, recitano: “World renowned and respected anthropologist, Graham Stewart, known as the ‘White Zulu’ for his association with the Zulu culture and heritage since 1967 lives at DumaZulu and manages the entire DumaZulu complex” aggiungendo così l’autenticità scientifica garantita dall’antropologo all’esperienza. Infine, anche l’elemento selvatico è incluso nel pacchetto attraverso la presenza nel villaggio di numerose specie di serpenti locali e di un parco di coccodrilli che ospita uno dei più grandi coccodrilli del paese.
    Se a Shakaland l’esperienza del visitatore era orchestrata in modo da ridurre al minimo il romanticismo di sapore coloniale, qui l’elemento esotico è posto in primo piano attraverso il ricorso a un linguaggio che esalta la dimensione spettacolare, la bellezza struggente, la presenza di uno stregone e quella dei tamburi.
    Durante l’Apartheid, i villaggi rurali abitati dalla popolazione indigena erano tenuti piuttosto nascosti, ma oggigiorno sono esposti a una crescente mercificazione che esalta l’immaginario di un’Africa selvaggia e pericolosa. Inoltre, se in precedenza l’accento era posto sulla diversità che doveva essere preservata attraverso l’isolamento delle culture, ora l’enfasi cade sull’elemento esotico e tradizionale. Agli occhi dei turisti spesso ciò che è tradizionale, dove per tradizionale si intende ciò che è sempre stato così senza mai subire variazioni, corrisponde a ciò che è autentico. I turisti sono alla ricerca dell’autenticità e i “villaggi culturali” sono eletti a display dell’”autentica” vita tribale, ovvero che si è mantenuta inalterata nel tempo. Se l’ideologia alla base dell’Apartheid, così come gran parte dell’antropologia del secolo scorso, si è fondata su un paradigma classificatorio che intendeva mettere in luce le differenze piuttosto che gli elementi comuni, oggi viene comunque promossa dal governo e dall’industria turistica un’immagine legata all’esotismo di luoghi remoti, abitati da popoli diversi che vivono ancora come un tempo.


    Fonti:
    Marco Aime, L’incontro mancato, Torino, Bollati-Boringhieri, 2007
    Gerhard Schütte, “Tourists and Tribes in the ‘New’ South Africa”, Ethnostory, Vol. 50, n. 3 (2003), pp. 473-487

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  7. TERZO POST

    I masai come simbolo nazionale del Kenya - PRIMA PARTE


    I colonialisti britannici, così come i mercanti e i viaggiatori che visitarono il Kenya, hanno per lungo tempo descritto i Samburu e i Masai come un popolo di pastori primitivi, esotici e riluttanti al cambiamento (Kasfir 2007). In seguito all’Indipendenza del Kenya nel 1963, queste immagini hanno continuato ad attrarre viaggiatori e turisti dall’Europa, ma hanno anche generato nuovi contesti in cui sia i Masai, sia i Samburu, potessero produrre capitale. I discorsi pubblici nazionali e le brochure turistiche, individuano le etnie Samburu e Masai attraverso l’immagine emblematica del giovane ed esotico guerriero (moran), che impugna la lancia e lo scudo, mezzo nudo, con i capelli colorati di ocra e adornato con bracciali e collane di perline colorate. Mutuata dalle rappresentazioni dei primi viaggiatori e ufficiali coloniali, l’immagine del guerriero masai divenne l’icona della tradizione e una delle attrattive principali del Kenya come destinazione turistica internazionale, accanto alla fauna selvatica e alle spiagge paradisiache.
    Nel discorso coloniale britannico i pastori Masai e i Samburu costituivano un problema, sia a causa dei loro grandi greggi che mettevano a rischio la conservazione dei pascoli e dell’ambiente in generale, sia perché essi mostravano uno scarso interesse nei vantaggi offerti dalla colonizzazione (beni materiali, partecipazione nell’economia del denaro ecc.) preferendo rimanere fedeli a uno stile di vita spartano e rifiutandosi di diventare lavoratori salariati alle dipendenze degli europei. Nello stato post-coloniale, i pastori erano comunque visti come un problema: la necessità di terreni dove pascolare i greggi si scontra con il bisogno di creare parchi e riserve dove i turisti possano osservare la flora e la fauna del luogo. Lo stesso problema si manifesta anche con le crescenti popolazioni sedentarie del Kenya, come i kikuyu, che praticano l’agricoltura e che necessitano di terreni da coltivare. Ma i Masai e i Samburu oggi sono al centro dell’interesse dei turisti che non si limita alla bellezza del mare e alla ricchezza della fauna, ma che è diretto anche all’incontro con i popoli “tribali” (Kasfir 2010: 377).

    Gli studi antropologici sul turismo hanno mostrato come le rappresentazioni visuali e testuali mediano le relazioni asimmetriche fra i turisti e le comunità ospitanti. Cartoline, magliette, coffee-table books, statuette intagliate nel legno che ritraggono guerrieri masai prodotte dai Kamba, ma anche film hollywoodiani come The Air Up There (1994) con Kevin Bacon e The Ghost and the Darkness (1996) con Michael Douglas e Val Kilmer, sono alcuni esempi di strumenti attraverso cui l’immagine del guerriero viene mercificata.
    Gli elementi che descrivono i masai, enfatizzati in questi materiali, compaiono in parte nei resoconti di viaggiatori e missionari del XIX secolo che raggiunsero un vasto pubblico.

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  8. I masai come simbolo nazionale del Kenya - SECONDA PARTE


    Il primo resoconto del guerriero masai fu opera del geografo Joseph Thomson, Through Masai Land (1885), che li descrisse elogiandone la fierezza, il portamento aristocratico ma anche bestiali, violenti e fornicatori. Contribuì, inoltre, enfatizzandone le differenze rispetto alle altre popolazioni africane e la loro fiera indipendenza, a creare uno stereotipo funzionale alla dominazione coloniale da sempre impegnata a mantenere e sfruttare le differenze etniche (Hughes 2006). Seguirono poi altre pubblicazioni e resoconti di viaggio che ebbero molta eco fra gli europei del XIX secolo. È il caso del resoconto del libro del missionario tedesco Krapf pubblicato in Germania nel 1858 e poi tradotto in inglese due anni dopo. Qui i masai sono descritti come guerrieri combattivi (sebbene molti fatti storici lo smentiscano), avidi di terra più di quanto ne avessero realmente bisogno e consumatori di cibi crudi (latte, sangue e miele). Queste descrizioni furono utilizzate dall’amministrazione coloniale per legittimare le successive misure repressive dirette contro i masai (i masai non erano in grado di sfruttare al meglio la terra per cui era legittimo sottrargliela) e per rimuoverli dalla categoria di “uomini civilizzati” relegandoli quella di “uomini naturali” (i masai consumano cibi crudi) (Hughes 2006).
    Dal 1890 in poi fotografie di boscimani australiani e di guerrieri masai e zulu dominarono le rappresentazioni popolari delle popolazioni africane nei libri, nelle cartoline, e nelle esposizioni coloniali. I guerrieri finirono per rappresentare i rispettivi gruppi etnici, rinforzando l’idea nell’immaginario occidentale, che queste “tribù” fossero prevalentemente marziali (Hughes 2006: 268).
    Nel 1901 il libro The Last of the Masai, di Sidney e Hildegarde Hinde, aggiunse un ulteriore elemento che da quel momento caratterizzò l’immagine dei guerrieri masai: essi vennero dipinti come un esempio di razza pura che stava scomparendo. Il titolo del libro stava ad indicare il fatto che la cultura masai, con le sue tradizioni, i suoi costumi e le sue credenze non erano state contaminate dal contatto con la civilizzazione e gli altri popoli Bantu. Con queste affermazioni, la nostalgia divenne un elemento costante della loro rappresentazione (Hughes 2006).
    Oggi, nella promozione turistica del Kenya, alcune di queste caratteristiche sono utilizzate per sponsorizzare i masai come simbolo nazionale. Essi sono la faccia della “vecchia Africa”, descritti come primitivi, la cui bellezza aristocratica e selvaggia, costituisce un’attrattiva per i turisti occidentali desiderosi di incontrare il guerriero “tribale” (Hughes 2006). Ma se i resoconti storici e la promozione turistica sono al di fuori del controllo dei masai, il loro coinvolgimento nell’industria turistica attraverso le danze organizzate negli alberghi della costa, nei lodge dei parchi e nelle riserve nazionali, nonché l’apertura ai turisti, dietro pagamento di una tassa di ammissione, dei loro villaggi, comporta una partecipazione volontaria. I masai hanno compreso che l’interesse dei turisti per i loro costumi e le loro tradizioni, può tradursi in un vantaggio economico che può quindi essere sfruttato offrendo ai turisti una rappresentazione di se stessi che incontri le loro aspettative.


    Fonti:

    Hughes L., “’Beautiful Beasts’ and Brave Warriors: The Longevity of Maasai Stereotype”, in Romanucci-Ross L., De Vos G. A. e Tsuda T. (a cura di), Ethnic Identity: Problems and Prospects for the Twenty-First Century, Lanham, MD, AltaMira Press, 2006, pp. 264-294

    Kasfir S. L., “Slam-Drunkikg and te Last Noble Savage”, Visual Anthropology, vol. 15, n. 3-4 (2010), pp. 369-385

    Meiu G.P., “On Difference, Desire and the Aesthetics of the Unexpected: The White Masai in Kenyan Tourism”, in Skinner J. e Theodossopoulos D., Great Expectations. Immagination and Anticipation on Tourism, New York – Oxford, Berghahn Books, 2011, pp. 96-113

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