Ciao a tutti,
pubblico qui a seguire tre post che cercano di analizzare gli stereotipi che, dall'epoca coloniale ad oggi, condizionano l'incontro fra popolazioni locali del Kenya e del Sudafrica, e occidentali (colonizzatori ed espolaratori in passato, viaggiatori e turisti oggi). Ho cercato di fornire un inquadramento alle danze turistiche cui ho assistito in un albergo di Mombasa, per poter rispondere al primo interrogativo che mi ero posta: quanto la rappresentazione pensata per intrattenere i turisti si discosta o si avvicina all’immaginario che gli stranieri hanno sviluppato sull’Africa a partire dall’epoca coloniale fino ad oggi, come ben mettono in evidenzia gli aspetti enfatizzati dai tour operator?
ecco il primo post:
Alcuni cenni storici: la longevità dello stereotipo del temibile guerriero zulu e la lotta con i bastoni
Gli
zulu sono passati alla storia come coloro i quali sconfissero l’esercito
britannico nella battaglia di Isandlwana nel 1879, armati solo di scudi e
lance. Questo evento ebbe un impatto intenso e duraturo sia fra gli inglesi,
che promossero l’immagine del guerriero zulu fiero e spietato, sia fra i
sudafricani nativi che rivendicarono con orgoglio la temerarietà della
resistenza zulu contro il dominio dei banchi. Lo stesso Mandela, nella sua
autobiografia Lungo cammino verso la libertà, fa menzione del coraggio
degli zulu nella battaglia di Isandlwana, eleggendo questo episodio storico a
fonte di ispirazione per la fondazione dell’ala militare dell’African National
Congress (ANC): Umkhonto we Sizwe, (“Lancia della nazione”).
Dopo
i massacri delle truppe della regina vittoria nel 1879 si diffuse la figura
stereotipata del guerriero zulu in tenuta da combattimento che brandisce la
lancia; questo stereotipo finì per rappresentare quello che gli europei
temevano maggiormente del continente nero: un incontro con il natural born
killer.
In
seguito alla sconfitta del regno zulu, un’altra immagine rappresentativa degli
zulu cominciò a circolare: privato della sua lancia, il guerriero zulu fu
ritratto come un uomo giovane a torso nudo che impugna un bastone (unico
rimando marziale), ovvero l’unica arma che l’autorità britannica aveva
permesso.
Negli
anni Novanta i sommovimenti che precedettero la fine delll’Apartheid nel 1994,
indussero molti giornalisti sudafricani e internazionali a rimettere in campo
lo stereotipo del guerriero zulu aggressivo e fiero. I giornalisti dipinsero le
lotte intestine degli anni Novanta come un orribile ritorno al passato e descrissero
la violenza black on black come un qualcosa di atavico e innato.
Presso
le comunità zulu, i giovani costruivano la propria mascolinità attraverso una
serie di pratiche fra cui la lotta con i bastoni. Il bastone costituiva molto
più che un’arma per il giovane che lo riceveva in dono: esso rappresentava un
obbligo nei confronti della sua discendenza che egli doveva proteggere
difendendo le risorse che l’avrebbero garantita, come ad esempio il bestiame.
Nelle comunità zulu, gli uomini era principalmente dediti all’allevamento di
bestiame mentre le donne si occupavano dell’agricoltura.
La
retorica della mascolinità era dunque funzionale al rispetto comunitario e
all’autorità patriarcale e il bastone costituiva il simbolo del rispetto
generazionale e della sicurezza della fattoria; solo in alcuni casi
circoscritti esso alludeva a significati marziali. Nel caso di guerre, come
durante il regno di Shaka, i soldati erano incoraggiati ad eseguire delle danze
rituali in preparazione della battaglia nelle quali venivano riprese le
gestualità tipiche della lotta con i bastoni.
L’amministrazione
coloniale associò presto questa pratica alla figura del guerriero coraggioso e
dell’aggressività maschile nel Sudafrica; tale identificazione ebbe
ripercussioni anche sul passato recente e ne ha anche sul presente: la
mascolinità zulu, connotata come violenta e bellicosa, è considerata una delle
cause dell’alto tasso di violenza presente in Sudafrica.
Quando
nel 1879 le forze britanniche invasero la terra zulu deponendo il re ed
estendendo un controllo più ampio sul nuovo territorio, costrinsero i nativi a
vivere nelle riserve e promulgarono nuove leggi che limitarono le possibilità
dei giovani di fare uso delle armi a scopo ricreativo. Nell’anno che precedette
l’invasione, l’alto commissario britannico per il Sudafrica aveva coniato la
definizione men-slaying war-machine per appellare i guerrieri. In questo
modo credeva di aver riassunto in un’espressione efficace la natura della
mascolinità zulu nutrita sin dalla giovinezza con la lotta dei bastoni.
Nel
1900 il porto di bastoni era monitorato severamente: un solo bastone era
ammesso in pubblico e le forze di polizia sorvegliavano le occasioni
celebrative in cui era consuetudine organizzare le lotte con i bastoni
(celebrazioni pubbliche come matrimoni e fidanzamenti erano un’occasione ideale
per dimostrare pubblicamente la propria virilità attraverso il combattimento).
Tuttavia gli inglesi non bandirono mai la lotta con i bastoni forse
riconoscendo che l’arte marziale era un importante mezzo attraverso il quale i
ragazzi sviluppavano le regole di un onorevole ritegno. La lotta con i bastoni,
infatti, seguiva regole che privilegiavano la retorica, l’onore e la difesa. I
valorosi lottatori dovevano innanzitutto proteggersi, arretrare nel caso in cui
l’oppositore cadesse a terra indifeso.
La
retorica dell’onorevole ritegno animò l’ANC nel 1912; in particolar modo la
lotta con i bastoni godeva di una grande considerazione fra i sostenitori della
tradizione. Dall’inizio fino alla metà del XX secolo la mancanza di terra e le
condizioni di povertà nelle riserve, spinse numerosi zulu a trovare impiego
come servi e scaricatori in Durban e a svolgere mansioni umili nelle fabbriche
e miniere di Johannesburg. Nonostante molti giovani lasciarono le fattorie,
essi non abbandonarono i loro ideali di mascolinità e portarono la lotta con i
bastoni nelle città adattando i movimenti alle danze rituali. Negli anni Venti
e Trenta del XX secolo queste danze rituali diventarono una forma di intrattenimento
popolare per gli africani di lingua zulu a Durban e Johannesburg
Con
la fine del XIX secolo molti rituali sono caduti in disuso, non però la lotta
con i bastoni. Oggigiorno le lotte con i bastoni sono limitate ai periodi di
vacanza degli zulu emigrati nelle città: a Pasqua e Natale essi lasciano Durban
e Johannesburg per fare ritorno alle fattorie nei villaggi di KwaZulu-Natal. La
lotta con i bastoni continua ad essere praticata ma ciò che sembra essere
cambiato è lo scopo per cui la si pratica. Lo sport rimane un’espressione della
difesa del corpo e della coesione comunitaria, ma cambiamenti importanti
sembrano delinearsi. Essa sembra spostarsi dall’ambito della comunità a quello
della lotta come bene di consumo. La lotta con i bastoni potrebbe non preparare
più i giovani al ruolo di capi famiglia in una società orientata al lavoro
salariale. Il turismo oggi è l’industria che registra la crescita più alta;
accanto ai parchi naturali, una delle maggiori attrattive è costituita dai
resort “tribali” nei quali i turisti possono avere un assaggio della “vera”
Africa. In questo contesto la lotta con i bastoni può rappresentare per i
giovani zulu una fonte di guadagno.
Fonte: Benedict
Carton & Robert Morrell, "Zulu
Masculinities, Warrior Culture and
Stick Fighting: Reassessing Male Violence
and Virtue in South Africa", Journal of Southern African Studies, 38:1
(2012), pp. 31-53
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