In Sudafrica, durante l’Apartheid, la maggior parte delle culture
native erano tenute nascoste al pubblico. In quel periodo storico furono
delineate dieci aree geografiche, create con il pretesto di preservare la
cultura e le tradizioni dei dieci gruppi indigeni individuati sulla base di una
supposta identità politica, culturale e linguistica. Ciascuna area era stata
infatti deputata a ospitare uno dei dieci gruppi etnici classificati dal
governo e sarebbe dovuta diventare, nel tempo, uno stato-nazione indipendente.
Queste homeland erano di difficile accesso a causa di una
serie di restrizioni che vietavano la libera circolazione sia degli autoctoni
sia degli esterni. Per rafforzare l’ideologia alla base della segregazione
razziale, il governo e gli organi di stampa presentarono i gruppi indigeni
sudafricani in termini essenzialistici. I musei, che esibivano manufatti
disposti in “setting tribali”, fissi e immobili, sotto la stretta supervisione
del governo, costituirono per un lungo periodo l’unico accesso a queste
popolazioni da parte di esterni. Le modalità espositive di questi musei erano
strutturate in modo da porre l’enfasi sulle profonde differenze culturali che
separavano i bianchi civilizzati dalle popolazioni indigene. Furono talvolta
ricreate anche alcune danze tribali e scene di vita nei villaggi accessibili ai
turisti, ma anche tali rappresentazioni erano funzionali al supporto
dell’ideologia del governo: proponevano una rappresentazione essenzializzata
delle culture indigene.
A metà degli anni Settanta, il governo, per promuovere il turismo
interno, aprì la strada alla costruzione di casinò all’interno di alcune homelands.
Sebbene questi casinò fossero per la maggior parte costruiti vicino alle
maggiori vie di comunicazione, offrivano la possibilità di dare un’occhiata
alla vita nelle di questi territori.
Quando l’Apartheid fu abolito, l’accesso alle aree rurali divenne
libero; l’apertura democratica del nuovo governo favorì lo sviluppo del turismo
internazionale che da quel momento crebbe rapidamente. Il paese poteva offrire
splendide bellezze naturali, una ricca fauna ed “esotici” gruppi tribali. Fra
il 1988 e le elezioni democratiche del 1994, si registrò un cambiamento
nell’interesse verso le popolazioni indigene e la loro rappresentazione; lo
sviluppo di villaggi culturali può essere considerata una testimonianza di tale
cambiamento.
Negli anni immediatamente precedenti il 1994, i sudafricani
mostrano progressivamente sempre più interesse nella storia. Dopo secoli di
storiografia distorta, i sudafricani cominciarono a farsi domande su cosa fosse
stato tenuto nascosto loro. Lo stesso interesse era rivolto alla cultura: c’era
curiosità intorno a quelle realtà che l’Apartheid aveva distorto o celato. Fu
in questo clima che nacque il sito a tema culturale di Shakaland. Nel 1986 la
South African Broadcasting Corporation trasmise una miniserie dal titolo Shaka
Zullu che celebrava la vita e le vicende del celebre re zulu, che divenne
popolare sia in Sudafrica sia oltreoceano. I set realizzati per la serie
comprendevano la ricostruzione di un piccolo e di un grande villaggio zulu
vicino a Eswhowe nella provincia del Kwazulu-Natal. Sebbene il grande villaggio
venne distrutto durante le riprese delle ultime scene, quello piccolo, che
rappresentava il villaggio del padre di Shaka, restò in piedi e divenne poi
parte di Shakaland. Per la costruzione del sito fu impiegato dal gruppo Protea
Hotel un antropologo: Barry Leitch. L’idea di Leitch era quella di offrire ai
visitatori un’esperienza culturale degli zulu unica, senza fare mistero del
fatto che Shakaland era stato in precedenza un set cinematografico. Qui i
visitatori potevano fermarsi per un giorno soltanto oppure alloggiare in una
delle abitazioni costruite secondo la struttura ad alveare degli zulu. Alcuni
“consulenti” conoscitori dell’etnia zulu, guidavano i visitatori durante
l’esperienza introducendoli al capo villaggio, un uomo anziano che parlava
soltanto la lingua vernacolare. Il capo villaggio spiegava nella sua lingua
alcuni aspetti della homestead e rispondeva ad eventuali domande, sempre
con la mediazione linguistica dei consulenti. La sera venivano organizzati
spettacoli di danze tradizionali e una sessione con un sangoma (un
medium spiritico) che i consulenti culturali chiamavano healer (l’intenzione
era quella di evitare l’associazione esotica con la stregoneria). Il giorno
dopo i visitatori venivano portati in un “vero” villaggio zulu. Nelle
intenzioni di Leitch questa visita era necessaria per decostruire l’eventuale
mistificazione degli zulu nelle performance organizzate nel villaggio
“artificiale”, esponendo i visitatori alla realtà della povertà e ai
cambiamenti che erano intercorsi negli ultimi decenni negli stili di vita degli
zulu. In questo modo i visitatori avrebbero potuto fare esperienza di ciò che
era “reale” in termini di contemporaneità.
Dopo gli anni d’oro di Shakaland il sito
perse la sua missione originaria per diventare una mercificazione della
differenza culturale. Sulla presentazione del sito web si legge: “Welcome to
Shakaland Experience the essence of Africa: pulsating tribal rythms, assagai-
wielding warriors and the mysterious rituals of the Sangoma, interpreting
messages from the spirits, SHAKALAND, one of South Africa’s most unique tourist
attractions, tucked away in an indiginous setting of aloes and mimosa trees,
overlooking the Umhlatuzana Lake. Originally recreated for the films Shaka Zulu
and John Ross, Shakaland is an unusual cross-cultural centre and living museum,
where Zulu folk peruse the customs and traditions of their forebears”.
Dopo Shakaland, numerosi villaggi
culturali furono costruiti sfruttando il crescente interesse del turismo
internazionale per le realtà “tribali” del Sudafrica. Gli zulu continuarono a
esercitare una forte attrattiva come dimostra la creazione di un’altra grande
attrazione: DumZulu Traditional Village Lodge che trae ispirazione dal “primo”
Shakalnd. Qui risiedono più di cinquanta zulu compreso un sangoma. DumaZulu si
avvale anche del visto del re zulu Goodwill Zwelithini, la cui approvazione è
garanzia di oggettività e autenticità.
In aggiunta, i materiali promozionali del
sito, recitano: “World renowned and respected anthropologist, Graham Stewart,
known as the ‘White Zulu’ for his association with the Zulu culture and
heritage since 1967 lives at DumaZulu and manages the entire DumaZulu complex”
aggiungendo così l’autenticità scientifica garantita dall’antropologo
all’esperienza. Infine, anche l’elemento selvatico è incluso nel pacchetto
attraverso la presenza nel villaggio di numerose specie di serpenti locali e di
un parco di coccodrilli che ospita uno dei più grandi coccodrilli del paese.
Se a Shakaland l’esperienza del visitatore
era orchestrata in modo da ridurre al minimo il romanticismo di sapore
coloniale, qui l’elemento esotico è posto in primo piano attraverso il ricorso
a un linguaggio che esalta la dimensione spettacolare, la bellezza struggente,
la presenza di uno stregone e quella dei tamburi.
Durante l’Apartheid, i villaggi rurali
abitati dalla popolazione indigena erano tenuti piuttosto nascosti, ma
oggigiorno sono esposti a una crescente mercificazione che esalta l’immaginario
di un’Africa selvaggia e pericolosa. Inoltre, se in precedenza l’accento era
posto sulla diversità che doveva essere preservata attraverso l’isolamento
delle culture, ora l’enfasi cade sull’elemento esotico e tradizionale. Agli
occhi dei turisti spesso ciò che è tradizionale, dove per tradizionale si
intende ciò che è sempre stato così senza mai subire variazioni, corrisponde a
ciò che è autentico. I turisti sono alla ricerca dell’autenticità e i “villaggi
culturali” sono eletti a display dell’”autentica” vita tribale, ovvero che si è
mantenuta inalterata nel tempo. Se l’ideologia alla base dell’Apartheid, così
come gran parte dell’antropologia del secolo scorso, si è fondata su un
paradigma classificatorio che intendeva mettere in luce le differenze piuttosto
che gli elementi comuni, oggi viene comunque promossa dal governo e
dall’industria turistica un’immagine legata all’esotismo di luoghi remoti,
abitati da popoli diversi che vivono ancora come un tempo.
Fonti:
Marco Aime, L’incontro mancato, Torino,
Bollati-Boringhieri, 2007
Gerhard Schütte,"Tourist and Tribes in the 'New' South Africa", Ethnostory, Vol. 50,
n. 3 (2003), pp. 473-487
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