di Francesco
Casetti
L’occhio del novecento è un testo
che pone al centro della sua analisi una riflessione teorica sul rapporto tra
cinema e modernità novecentesca, lo fa attraverso un’approfondita analisi di
testi sulla storia e teoria del cinema e mediante il commento di numerose
sequenze tratte da film. Lo scopo della presente riflessione non è un semplice
riassunto del testo ma una lettura da un punto di vista antropologicosui mezzi audiovisivi di acquisizione e di trasmissione delle conoscenze antropologiche.
Introduzione
Il testo inizia affermando come
il novecento sarà sicuramente ricordato come il secolo del cinema, perché
nessuna opera d’arte, invenzione scientifica o tendenza economica si avvicina
per vastità di azione, universalità di consenso e forza al mezzo cinematografico.
Centrale nel contesto è l’occhio,
che smette di essere considerato come un organo di senso in sé, per
accorgersene basta leggere il sottotitolo con il suo riferimento
all’esperienza, che suggerisce un orizzonte di senso a cui riportare l’atto del
vedere.
Il testo si pone alcuni
interrogativi che vengono esaminati capitolo per capitolo: che tipo di sguardo
ha saputo costruire il cinema e dove risiede la sua efficacia?
Per costruire il suo sguardo il
cinema ha utilizzato alcuni diversivi, analizzati accuratamente nel testo e
accostati ai concetti di spostamento e condensazione resi celebri da Freud.
Questo sguardo è stato elaborato lavorando sulle spinte presenti nella
modernità del secolo passato, per questo Casetti ha chiamato lo sguardo del cinema
“rivelatore”: mette a punto un certo modo di osservare le cose e offre una
chiave di lettura dell’esperienza moderna.
Il visivo è una delle dimensioni
fondamentali nelle quali le culture trovano espressione: ogni cultura è infatti
visibile in una molteplicità di segni. Come afferma Geertz, sono il linguaggio
e il pensiero che permettono di formulare simboli, gesti, disegni, suoni,
parole, con i quali elaboriamo e assegniamo un significato all’esperienza del
vivere.
Il paesaggio viene organizzato in
modo da trasmettere determinati temi, la natura stessa viene sistematicamente
trasformata secondo forme e modelli che offrono una rappresentazione visiva
della cultura che li ha prodotti.
Il cinema in questo senso può
offrire una duplice lettura antropologica: da una parte tecniche che possono
essere utilizzate nelle varie fasi della ricerca antropologica, dalla racconta
alla presentazione dei dati, alla loro divulgazione nella didattica o presso un
pubblico più ampio; dall’altra parte uno strumento per analizzare la nostra
epoca attraverso lo sguardo che la cinepresa getta sul mondo, è in quest’ottica
che si può anche leggere il testo di Casetti, come spunto di riflessione su noi
stessi.
Capitolo uno: lo sguardo di un’epoca
Il cinema ripristina la visibilità
dell’uomo, restituisce la realtà allo sguardo, insegna ad osservare il mondo in
modo nuovo, non funziona da semplice specchio. In ogni fase della sua storia l’uomo
ha avuto un modo particolare di cogliere il reale, modificando la propria
percezione. La fase presente è dominata dall’esigenza di rendere le cose più
umanamente vicine, anche se si presentano con facce diverse. Ovviamente il
cinema a volte opera anche da filtro, fa velo alla realtà: la tecnologia
introduce disattenzione complicando il rapporto tra osservatore e osservato.
Il cinema possiede molti aspetti
che colpiscono in modo diretto, come ad esempio la sua capacità di intrattenere
grazie ai suoi racconti espressi tramite un linguaggio che si può definire
universale.
Il cinema ricopre il ruolo di
medium. Il medium è un mezzo di trasmissione di immagini, parole, suoni e
sensazioni, il suo obiettivo principale è la diffusione delle informazioni e
per poterlo fare deve sapere anche raccogliere, rielaborare e conservare.
Diffondendo l’informazione, un medium dà anche l’opportunità a chi la riceve di
rielaborarla. Il tratto centrale è il suo impegno a costruire rappresentazioni
largamente fruibili mediante tecnologie efficienti. L’azione di un medium
investe direttamente la sfera dei processi simbolici e sociali, tocca gli snodi
più delicati di una comunità umana.
Il lavoro di “messa in forma”
sociale del cinema è legato alla sua disponibilità a intercettare indicazioni,
a ripensarle e fissarle in vesti nuove, fino a farle diventare delle proposte autorevoli
e condivise.
In sintesi in un epoca in cui si
guarda più ai media che all’arte, nella quale vengono creati un’infinità di
miti e di riti, il cinema mette in forma gli spunti che circolano nello spazio
sociale. Il cinema in quanto dispositivo della “messa in forma” offre modelli di
lettura pronti a diventare a loro volta canonici. Infine in quanto dispositivo
di negoziazione cerca di ricomporre ciò che incontra.
Si possono citare come esempio
antropologico i pionieristici studi di Margaret Mead e Gregory Bateson, sul
tema dell’imponderabilità, dai quali prende avvio una riflessione relativa alla
difficoltà incontrata dagli scienziati sociali nell’indagare quegli aspetti
della vita che, invece, gli artisti colgono in maniera vivida, questo aspetto
ha spinto i due autori a sperimentare il metodo fotografico per cogliere
l’ethos balinese.
Capitolo due: inquadrare il mondo
Il cinema si impone per la sua
capacità visiva, in quanto capace di cogliere la realtà in cui siamo immersi, guardando
la realtà sullo schermo, inevitabilmente portiamo allo scoperto noi stessi,
vediamo solo quello che la prospettiva adottata ci consente di cogliere. Il
cinema riscatta lo sguardo, ma nello stesso tempo lo ancora ad un atto
percettivo. La sua limitatezza è legata proprio alla presenza di un punto di
vista che fa da contrasto ad una assolutezza a cui non si vuole rinunciare.
Sullo schermo il mondo è sempre colto da una certa prospettiva, la realtà
appare in tutta la sua ricchezza e densità esaltando da un lato la propria
capacità di visione e dall’altro denunciandone i limiti.
Anche nell’antropologia visiva si
è assistito alle più svariate forme di sperimentazione riguardo all’uso di
particolari tecniche narrative e stilistiche, con una notevole diversificazione
dei temi affrontati e dei linguaggi visivi utilizzati per rappresentarli,
seguendo l’esperienza contenuta in questo testo e nei testi citati dall’autore,
sicuramente si possono trovare diversi spunti di riflessione sull’utilizzo di
tecniche e per la messa in pratica di strategie già sperimentate nel linguaggio
cinematografico.
Capitolo tre: doppia visione
L’idea di considerare
l’inquadratura come un punto di vista sul mondo porta a sottolineare la
soggettività rispetto ad una visione oggettiva: le cose hanno una loro
esistenza al di fuori del cinema. Di conseguenza il cinema compie un lavoro
all’interno dell’immagine, sul piano della figurazione e del racconto, per dar
loro corpo all’ oggettività o alla soggettività. Come esempio si può portare la
tipica produzione hollywoodiana degli anni Quaranta, dove i fatti vengono
presentati attraverso la visione di un personaggio, con una narrazione in
soggettiva sicuramente influenzata dal successo e dalla diffusione della
psicoanalisi.
La contrapposizione tra azione e
riflessione è qualcosa che il cinema esporla tramite diversi mezzi, ci aiuta a
distinguere gli eventi dalla coscienza che se ne può avere. Questa restituzione
della realtà non è neutra: da un lato la macchina da presa filtra e trasforma,
dall’altra lo schermo evidenzia ciò che è solo pensabile.
A metà degli anni Cinquanta Edgar
Morin esplora come oggettività e soggettività si mescolino nell’esperienza
filmica. Sullo schermo il mondo si presenta come mera riproduzione, ma lo
spettatore si identifica e si proietta in quanto immerso in un mix di reale e irreale.
Per Morin nella nostra epoca si sta assistendo non solo al ritorno
dell’“osservatore” nelle scienze fisiche, ma anche al ritorno del
“concettualizzatore” e quindi dell’“osservatore-concettualizzatore”, questo
pone indirettamente il problema del soggetto, in particolare per le scienze
umaniste, non è possibile superare l’aporia che vede solo l’esistenza di interazioni
tra individui che nel pensiero di Morin fanno emergere la società, questo
dualismo tra soggetto e oggetto è ben presente nell’analisi di Casetti.
Capitolo quattro: l’occhio di vetro
Il mondo è popolato da
dispositivi meccanici che assoggettano psicologicamente chi dovrebbero servire,
il cinema in questo senso compie un inganno: grazie alla produzione
fotografica, fa sembrare vere le proprie rappresentazioni. Il cinema sottrae la
vita, la trasforma, la svuota, ma nel contempo ci aiuta ad osservare le cose
nella loro realtà attraverso nuove prospettive. La riflessione sulle
potenzialità della macchina da presa riporta in pieno al problema di chi sia il
soggetto che muove lo sguardo filmico. Si può dire che quanto vediamo sullo
schermo è la percezione di qualcuno, se chi percepisce è un occhio meccanico? E
in che rapporti è questo occhio meccanico con l’occhio dell’uomo?
La macchina da presa è capace di
restituirci il mondo, ma non perché ne fissa le apparenze, bensì perché ne
coglie il meccanismo, associando il suo occhio alla presenza di un operatore.
Il cinema si propone come un
utensile che prolunga l’azione dell’uomo ma cerca anche di diventare un
dispositivo autonomo, che lo esonera da ogni presenza presentandosi così come
punto di convergenza e compromesso. L’occhio meccanico è anche il punto in cui
le diverse misure si sovrappongono e riuniscono.
Capitolo cinque: sensazioni forti
Nel testo Kracauer invita a
considerare i cinema non solo come edifici in cui si proiettano film, ma veri e
propri luoghi di culto, la loro caratteristica è l’accurata magnificenza della
loro esteriorità. Gli spazi e l’arredo servono a colpire i sensi di chi vi
entra. Per Kracauer questo culto dell’esteriorità rispecchia fedelmente una
società frammentata, confusa ed eccitata, quale è quella che sta emergendo
attorno alla centralità delle masse.
L’elemento più tipico delle città
moderne è la folla, composta da diversi tipi di individui, che possiede qualche
cosa di pittoresco, che incuriosisce e che talvolta fa paura, il cinema si
sintonizza con il suo tempo anche attraverso questo aspetto: sembra soprattutto
celebrare l’ebrezza della velocità. Ma se il cinema assume in sé le misure
della velocità, è anche vero che esso sa evitarne i pericoli, i suoi
procedimenti consentono allo spettatore di non smarrire mai l’orientamento. Gli
stimoli inviati sono strutturati, finalizzati e tradotti in un atteggiamento
preciso dove un insieme di shock percettivi diventano un complesso di emozioni.
Da questo punto di vista è facile
fare un paragone con le etnografie che ci avvicinano all’altro senza doverci
“sporcare le mani” stando comodamente seduti nei nostri salotti leggendo o
guardando i resoconti filtrati dall’occhio dell’antropologo.
Capitolo sei: il posto dell’osservatore
I film offrono rivelazioni: i
personaggi prendono vita, gli oggetti hanno atteggiamenti, gli alberi
gesticolano, la realtà letteralmente rinasce catturando il nostro sguardo. Lo
spettatore partecipa al destino dell’osservato, si muove sul suo stesso
terreno, nel medesimo campo di forze, ma intrecciandosi con l’oggetto del suo
sguardo finisce con il perdere la sua posizione di vantaggio, fino a
confondersi con quanto ha di fronte.
Sullo sfondo della modernità c’è
l’avanzare di una nuova percezione dello spazio complessivo, grazie
all’apparente annullamento di ogni distanza, le sale cinematografiche sono lo
specchio perfetto del contesto sociale nel quale un individuo si muove e alla
fine, quando le luci si riaccendono, lo spettatore interrompe il suo rapporto
con lo spettacolo. Qualche cosa ovviamente gli rimane addosso: l’esperienza che
lo ha portato fuori dal suo mondo per immetterlo in un altro, ma anche la
consapevolezza di aver fatto parte di un corpo collettivo.
Capitolo sette: ossimori e disciplina
In tutto il testo sono presenti numerose
descrizioni tratte da film più o meno recenti, questi esempi offrono un
eccellente punto di osservazione su cosa il cinema può essere. Se è vero che
opere teoriche danno forma al cinema è anche vero che il cinema a sua volta dà
forma a istanze che si muovono attorno e grazie ad esso.
Il cinema è modellato, ma a sua
volta modella, la sua capacità di costruire uno sguardo del tempo si gioca
innanzi tutto in questo doppio incastro, si presenta come uno straordinario
luogo in cui si opera una “messa in forma negoziata” delle istanze che
circolano nello spazio sociale.
Conclusioni
Per Casetti lo sguardo del cinema
è stato innanzitutto uno sguardo ossimorico che ha saputo raccogliere e far convivere
alcune delle contraddizioni che contrassegnano la modernità novecentesca. Il
primo punto di confronto vede in gioco il frammento e la totalità. L'immagine
cinematografica delimitata da una cornice è sempre un prelievo parziale di una
realtà più vasta. Essa si presenta dunque come un frammento che sembra voler
sottolineare la limitatezza del nostro sguardo. Il cinema inoltre mette in
gioco la dialettica fra essere umano e macchina: da una parte avvalendosi di un
occhio meccanico che vede più e meglio di quello umano dall'altra facendo però
anche in modo che quest'occhio assuma criteri di osservazione tipici dell'umano
costruendo ad esempio fuochi di attenzione decisamente antropomorfici. Non si
fatica a leggere in tutta l’opera un parallelo con lo sguardo antropologico,
fin dai suoi primi sviluppi, basti pensare alla famosa citazione
mailinowskiana: “afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con
la vita, di rendersi conto della sua visione, del suo mondo”. La metafora
ottica qui utilizzata non è certo casuale: immagine letteraria, riproduzione
fotografica o cinematografica che sia, imprime tutta la forza che è insita
nello sguardo del cinema.
È questa capacità di negoziazione che ha permesso al
cinema di raccogliere le istanze della modernità di rileggerle e mediarle; che
gli ha conferito lo statuto di sguardo ossimorico trasformandolo nell' “occhio
del Novecento”.
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