17 gennaio 2014

L’occhio del novecento: cinema, esperienza, modernità

di Francesco Casetti

L’occhio del novecento è un testo che pone al centro della sua analisi una riflessione teorica sul rapporto tra cinema e modernità novecentesca, lo fa attraverso un’approfondita analisi di testi sulla storia e teoria del cinema e mediante il commento di numerose sequenze tratte da film. Lo scopo della presente riflessione non è un semplice riassunto del testo ma una lettura da un punto di vista antropologicosui mezzi audiovisivi di acquisizione e di trasmissione delle conoscenze antropologiche.

Introduzione
Il testo inizia affermando come il novecento sarà sicuramente ricordato come il secolo del cinema, perché nessuna opera d’arte, invenzione scientifica o tendenza economica si avvicina per vastità di azione, universalità di consenso e forza al mezzo cinematografico.
Centrale nel contesto è l’occhio, che smette di essere considerato come un organo di senso in sé, per accorgersene basta leggere il sottotitolo con il suo riferimento all’esperienza, che suggerisce un orizzonte di senso a cui riportare l’atto del vedere.
Il testo si pone alcuni interrogativi che vengono esaminati capitolo per capitolo: che tipo di sguardo ha saputo costruire il cinema e dove risiede la sua efficacia?
Per costruire il suo sguardo il cinema ha utilizzato alcuni diversivi, analizzati accuratamente nel testo e accostati ai concetti di spostamento e condensazione resi celebri da Freud. Questo sguardo è stato elaborato lavorando sulle spinte presenti nella modernità del secolo passato, per questo Casetti ha chiamato lo sguardo del cinema “rivelatore”: mette a punto un certo modo di osservare le cose e offre una chiave di lettura dell’esperienza moderna.
Il visivo è una delle dimensioni fondamentali nelle quali le culture trovano espressione: ogni cultura è infatti visibile in una molteplicità di segni. Come afferma Geertz, sono il linguaggio e il pensiero che permettono di formulare simboli, gesti, disegni, suoni, parole, con i quali elaboriamo e assegniamo un significato all’esperienza del vivere.
Il paesaggio viene organizzato in modo da trasmettere determinati temi, la natura stessa viene sistematicamente trasformata secondo forme e modelli che offrono una rappresentazione visiva della cultura che li ha prodotti.
Il cinema in questo senso può offrire una duplice lettura antropologica: da una parte tecniche che possono essere utilizzate nelle varie fasi della ricerca antropologica, dalla racconta alla presentazione dei dati, alla loro divulgazione nella didattica o presso un pubblico più ampio; dall’altra parte uno strumento per analizzare la nostra epoca attraverso lo sguardo che la cinepresa getta sul mondo, è in quest’ottica che si può anche leggere il testo di Casetti, come spunto di riflessione su noi stessi.

Capitolo uno: lo sguardo di un’epoca
Il cinema ripristina la visibilità dell’uomo, restituisce la realtà allo sguardo, insegna ad osservare il mondo in modo nuovo, non funziona da semplice specchio. In ogni fase della sua storia l’uomo ha avuto un modo particolare di cogliere il reale, modificando la propria percezione. La fase presente è dominata dall’esigenza di rendere le cose più umanamente vicine, anche se si presentano con facce diverse. Ovviamente il cinema a volte opera anche da filtro, fa velo alla realtà: la tecnologia introduce disattenzione complicando il rapporto tra osservatore e osservato.
Il cinema possiede molti aspetti che colpiscono in modo diretto, come ad esempio la sua capacità di intrattenere grazie ai suoi racconti espressi tramite un linguaggio che si può definire universale.
Il cinema ricopre il ruolo di medium. Il medium è un mezzo di trasmissione di immagini, parole, suoni e sensazioni, il suo obiettivo principale è la diffusione delle informazioni e per poterlo fare deve sapere anche raccogliere, rielaborare e conservare. Diffondendo l’informazione, un medium dà anche l’opportunità a chi la riceve di rielaborarla. Il tratto centrale è il suo impegno a costruire rappresentazioni largamente fruibili mediante tecnologie efficienti. L’azione di un medium investe direttamente la sfera dei processi simbolici e sociali, tocca gli snodi più delicati di una comunità umana.
Il lavoro di “messa in forma” sociale del cinema è legato alla sua disponibilità a intercettare indicazioni, a ripensarle e fissarle in vesti nuove, fino a farle diventare delle proposte autorevoli e condivise.
In sintesi in un epoca in cui si guarda più ai media che all’arte, nella quale vengono creati un’infinità di miti e di riti, il cinema mette in forma gli spunti che circolano nello spazio sociale. Il cinema in quanto dispositivo della “messa in forma” offre modelli di lettura pronti a diventare a loro volta canonici. Infine in quanto dispositivo di negoziazione cerca di ricomporre ciò che incontra.
Si possono citare come esempio antropologico i pionieristici studi di Margaret Mead e Gregory Bateson, sul tema dell’imponderabilità, dai quali prende avvio una riflessione relativa alla difficoltà incontrata dagli scienziati sociali nell’indagare quegli aspetti della vita che, invece, gli artisti colgono in maniera vivida, questo aspetto ha spinto i due autori a sperimentare il metodo fotografico per cogliere l’ethos balinese.

Capitolo due: inquadrare il mondo
Il cinema si impone per la sua capacità visiva, in quanto capace di cogliere la realtà in cui siamo immersi, guardando la realtà sullo schermo, inevitabilmente portiamo allo scoperto noi stessi, vediamo solo quello che la prospettiva adottata ci consente di cogliere. Il cinema riscatta lo sguardo, ma nello stesso tempo lo ancora ad un atto percettivo. La sua limitatezza è legata proprio alla presenza di un punto di vista che fa da contrasto ad una assolutezza a cui non si vuole rinunciare. Sullo schermo il mondo è sempre colto da una certa prospettiva, la realtà appare in tutta la sua ricchezza e densità esaltando da un lato la propria capacità di visione e dall’altro denunciandone i limiti.
Anche nell’antropologia visiva si è assistito alle più svariate forme di sperimentazione riguardo all’uso di particolari tecniche narrative e stilistiche, con una notevole diversificazione dei temi affrontati e dei linguaggi visivi utilizzati per rappresentarli, seguendo l’esperienza contenuta in questo testo e nei testi citati dall’autore, sicuramente si possono trovare diversi spunti di riflessione sull’utilizzo di tecniche e per la messa in pratica di strategie già sperimentate nel linguaggio cinematografico.

Capitolo tre: doppia visione
L’idea di considerare l’inquadratura come un punto di vista sul mondo porta a sottolineare la soggettività rispetto ad una visione oggettiva: le cose hanno una loro esistenza al di fuori del cinema. Di conseguenza il cinema compie un lavoro all’interno dell’immagine, sul piano della figurazione e del racconto, per dar loro corpo all’ oggettività o alla soggettività. Come esempio si può portare la tipica produzione hollywoodiana degli anni Quaranta, dove i fatti vengono presentati attraverso la visione di un personaggio, con una narrazione in soggettiva sicuramente influenzata dal successo e dalla diffusione della psicoanalisi.
La contrapposizione tra azione e riflessione è qualcosa che il cinema esporla tramite diversi mezzi, ci aiuta a distinguere gli eventi dalla coscienza che se ne può avere. Questa restituzione della realtà non è neutra: da un lato la macchina da presa filtra e trasforma, dall’altra lo schermo evidenzia ciò che è solo pensabile.
A metà degli anni Cinquanta Edgar Morin esplora come oggettività e soggettività si mescolino nell’esperienza filmica. Sullo schermo il mondo si presenta come mera riproduzione, ma lo spettatore si identifica e si proietta in quanto immerso in un mix di reale e irreale. Per Morin nella nostra epoca si sta assistendo non solo al ritorno dell’“osservatore” nelle scienze fisiche, ma anche al ritorno del “concettualizzatore” e quindi dell’“osservatore-concettualizzatore”, questo pone indirettamente il problema del soggetto, in particolare per le scienze umaniste, non è possibile superare l’aporia che vede solo l’esistenza di interazioni tra individui che nel pensiero di Morin fanno emergere la società, questo dualismo tra soggetto e oggetto è ben presente nell’analisi di Casetti.

Capitolo quattro: l’occhio di vetro
Il mondo è popolato da dispositivi meccanici che assoggettano psicologicamente chi dovrebbero servire, il cinema in questo senso compie un inganno: grazie alla produzione fotografica, fa sembrare vere le proprie rappresentazioni. Il cinema sottrae la vita, la trasforma, la svuota, ma nel contempo ci aiuta ad osservare le cose nella loro realtà attraverso nuove prospettive. La riflessione sulle potenzialità della macchina da presa riporta in pieno al problema di chi sia il soggetto che muove lo sguardo filmico. Si può dire che quanto vediamo sullo schermo è la percezione di qualcuno, se chi percepisce è un occhio meccanico? E in che rapporti è questo occhio meccanico con l’occhio dell’uomo?
La macchina da presa è capace di restituirci il mondo, ma non perché ne fissa le apparenze, bensì perché ne coglie il meccanismo, associando il suo occhio alla presenza di un operatore.
Il cinema si propone come un utensile che prolunga l’azione dell’uomo ma cerca anche di diventare un dispositivo autonomo, che lo esonera da ogni presenza presentandosi così come punto di convergenza e compromesso. L’occhio meccanico è anche il punto in cui le diverse misure si sovrappongono e riuniscono.

Capitolo cinque: sensazioni forti
Nel testo Kracauer invita a considerare i cinema non solo come edifici in cui si proiettano film, ma veri e propri luoghi di culto, la loro caratteristica è l’accurata magnificenza della loro esteriorità. Gli spazi e l’arredo servono a colpire i sensi di chi vi entra. Per Kracauer questo culto dell’esteriorità rispecchia fedelmente una società frammentata, confusa ed eccitata, quale è quella che sta emergendo attorno alla centralità delle masse.
L’elemento più tipico delle città moderne è la folla, composta da diversi tipi di individui, che possiede qualche cosa di pittoresco, che incuriosisce e che talvolta fa paura, il cinema si sintonizza con il suo tempo anche attraverso questo aspetto: sembra soprattutto celebrare l’ebrezza della velocità. Ma se il cinema assume in sé le misure della velocità, è anche vero che esso sa evitarne i pericoli, i suoi procedimenti consentono allo spettatore di non smarrire mai l’orientamento. Gli stimoli inviati sono strutturati, finalizzati e tradotti in un atteggiamento preciso dove un insieme di shock percettivi diventano un complesso di emozioni.
Da questo punto di vista è facile fare un paragone con le etnografie che ci avvicinano all’altro senza doverci “sporcare le mani” stando comodamente seduti nei nostri salotti leggendo o guardando i resoconti filtrati dall’occhio dell’antropologo.

Capitolo sei: il posto dell’osservatore
I film offrono rivelazioni: i personaggi prendono vita, gli oggetti hanno atteggiamenti, gli alberi gesticolano, la realtà letteralmente rinasce catturando il nostro sguardo. Lo spettatore partecipa al destino dell’osservato, si muove sul suo stesso terreno, nel medesimo campo di forze, ma intrecciandosi con l’oggetto del suo sguardo finisce con il perdere la sua posizione di vantaggio, fino a confondersi con quanto ha di fronte.
Sullo sfondo della modernità c’è l’avanzare di una nuova percezione dello spazio complessivo, grazie all’apparente annullamento di ogni distanza, le sale cinematografiche sono lo specchio perfetto del contesto sociale nel quale un individuo si muove e alla fine, quando le luci si riaccendono, lo spettatore interrompe il suo rapporto con lo spettacolo. Qualche cosa ovviamente gli rimane addosso: l’esperienza che lo ha portato fuori dal suo mondo per immetterlo in un altro, ma anche la consapevolezza di aver fatto parte di un corpo collettivo.

Capitolo sette: ossimori e disciplina
In tutto il testo sono presenti numerose descrizioni tratte da film più o meno recenti, questi esempi offrono un eccellente punto di osservazione su cosa il cinema può essere. Se è vero che opere teoriche danno forma al cinema è anche vero che il cinema a sua volta dà forma a istanze che si muovono attorno e grazie ad esso.
Il cinema è modellato, ma a sua volta modella, la sua capacità di costruire uno sguardo del tempo si gioca innanzi tutto in questo doppio incastro, si presenta come uno straordinario luogo in cui si opera una “messa in forma negoziata” delle istanze che circolano nello spazio sociale.

Conclusioni
Per Casetti lo sguardo del cinema è stato innanzitutto uno sguardo ossimorico che ha saputo raccogliere e far convivere alcune delle contraddizioni che contrassegnano la modernità novecentesca. Il primo punto di confronto vede in gioco il frammento e la totalità. L'immagine cinematografica delimitata da una cornice è sempre un prelievo parziale di una realtà più vasta. Essa si presenta dunque come un frammento che sembra voler sottolineare la limitatezza del nostro sguardo. Il cinema inoltre mette in gioco la dialettica fra essere umano e macchina: da una parte avvalendosi di un occhio meccanico che vede più e meglio di quello umano dall'altra facendo però anche in modo che quest'occhio assuma criteri di osservazione tipici dell'umano costruendo ad esempio fuochi di attenzione decisamente antropomorfici. Non si fatica a leggere in tutta l’opera un parallelo con lo sguardo antropologico, fin dai suoi primi sviluppi, basti pensare alla famosa citazione mailinowskiana: “afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita, di rendersi conto della sua visione, del suo mondo”. La metafora ottica qui utilizzata non è certo casuale: immagine letteraria, riproduzione fotografica o cinematografica che sia, imprime tutta la forza che è insita nello sguardo del cinema.
È questa capacità di negoziazione che ha permesso al cinema di raccogliere le istanze della modernità di rileggerle e mediarle; che gli ha conferito lo statuto di sguardo ossimorico trasformandolo nell' “occhio del Novecento”.

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