Spettacoli di danza per turisti a Mombasa: An African
Celebration
Lo spettacolo An
African Celebration è introdotto da un narratore che racconta come si
svolge la vita quotidiana in un non definito villaggio africano (“welcome to an
African village”), in un tempo “lontano ma non così lontano”. Le coordinate
spazio temporali sono soltanto abbozzate, ciò che sembra essere importante è la
celebrazione dell’Africa: “We are here to celebrate our mother land, the nature
and our traditions; we are here to celebrate Africa” (siamo qui per celebrare
la nostra madre terra, la natura e le nostre tradizioni; siamo qui per
celebrare l’Africa). In sottofondo si odono i rumori del vento, degli animali,
dell’acqua che scorre; la presenza dell’uomo è segnalata soltanto dal suono dei
tamburi in lontananza. Il narratore racconta cosa accade in una “tipica”
giornata di un villaggio africano: le donne lavorano nei campi mentre gli
uomini combattono per ampliare i confini del clan (il termine “clan” è
utilizzato dal narratore stesso). Le donne sono descritte ponendo l’enfasi sugli
aspetti del corpo legati alla voluttuosità e alla nudità (“voluptious, wearing
nothing but skin”), mentre degli uomini si evidenziano le caratteristiche
atletiche e combattive. Entrambi hanno decorazioni sul corpo e sul viso e
indossano abiti fatti di frange e pelli.
I turisti sono invitati a chiamare lo spirito
africano (“the African spirit”) perché entri in loro e possano così partecipare
allo spettacolo e, più in generale, all’Africaness. Le prime danze, dopo
il risveglio nel villaggio, vedono le donne intente nella raccolta nei campi e
gli uomini armati di bastoni e scudi che combattono con guerrieri di ipotetici
villaggi vicini. Le donne, con la loro grazia e bellezza (“any man will get
confused”), riescono a riportare la pace al termine della giornata. Il
narratore riprende quindi le fila della storia e spiega che nell’Africa
moderna, molte cose sono cambiate, ma gli africani rimangono fedeli alla
chiamata della loro terra: “The spirit remains alive throught out our lives,
Africa as one through time (…) we live as one, work as one, fight for one
other”. A questo punto ha inizio una danza festosa sulle note di canzoni
attuali (Shakira, Waka Waka [This is Time for Africa]), che si conclude
con la partecipazione dei turisti, inviati a salire sul palco e a danzare con i
ballerini kenioti.
Sin dalle prime battute, la narrazione si
articola intorno ad alcuni temi chiave del discorso coloniale: il nobile
selvaggio che vive a contatto con la natura, la sensualità dei corpi delle
donne, l’aggressività dei guerrieri. Questi elementi rinforzano la
contrapposizione fra la razionalità occidentale e l’istintività dei nativi, fra
civilizzazione e arcaicità, modernità e tradizione, secondo la logica
evoluzionista che sulla base delle nozioni di sviluppo e progresso colloca le
civiltà su una medesima linea evolutiva.
Nell’intenso rapporto fra uomo e natura, la
dimensione della cultura emerge unicamente nei suoi aspetti rituali. Così
l’enfasi del narratore sul suono dei tamburi (un altro elemento vivo
nell’immaginario occidentale sull’Africa) e sugli aspetti celebrativi, come
elementi di una tradizione rimasta invariata nel tempo. “Il viaggio turistico è
sovente una sorta di volo nostalgico lontano dalle implicazioni della vita
moderna” (Aime 2005: 127). Queste considerazioni si basano sul presupposto che
alcune società siano rimaste congelate in un tempo lontano, in contrapposizione
quindi alla modernità occidentale.
‘North Zululand’ ngoma dancers, Johannesburg area, ca 1930s |
L’Africa è riconosciuta attraverso le sue
tradizioni che la áncorano a un passato storico privo di profondità, in
contrapposizione alla modernità occidentale. L’elisione del tempo e dello
spazio rinforza il ripiegarsi del presente nel passato e di una geografia
mitica in una reale. La dimensione spazio-temporale è sospesa: ciò che viene
presentato è un villaggio africano e la vita che lì si svolge, senza che questi
siano contestualizzati in un preciso momento storico o in una specifica area
geografica. Soltanto i costumi di scena e la scenografia che ritrae in
silhouette capanne con tetti di paglia - ormai entrate a pieno titolo
nell’immaginario occidentale - potrebbero indurre a pensare che si tratti di un
villaggio zulu, come dichiarato dalla narratrice nella breve intervista
realizzata dietro le quinte.
Manca qualsiasi riferimento alla
contemporaneità: gli eventi storici degli ultimi due secoli sembrano non avere
avuto alcuna ripercussione su questo villaggio africano, che vive al riparo da
cambiamenti e contaminazioni.
La lotta con i bastoni eseguita dai giovani che
“combattono per ampliare i confini del clan”, è interpretata unicamente nei
suoi aspetti marziali, secondo la prospettiva coloniale che associava questa
pratica alla figura del guerriero coraggioso e all’aggressività maschile nel
Sudafrica, minimizzando, in questo modo, gli aspetti legati alla difesa del
gregge (gli uomini erano principalmente dediti all’allevamento) e alla
sicurezza familiare.
Nell’intervista emerge che il coreografo dello
spettacolo ha studiato e si è ispirato alle danze tradizionali zulu per
realizzare la coreografia. Lo spettacolo propone una rivisitazione delle danze
zulu in chiave contemporanea e “keniota”, secondo le parole della narratrice
intervistata: “This is a Southafrican dance, from zulu group, but we try to
modernize it, to make it kenyan”.
Il riferimento alle danze tradizionali zulu è
interessante, al di là degli aspetti coreografici, per il parallelismo che crea
fra kenioti e zulu. A partire dal 1890, immagini che ritraggono guerrieri masai
e zulu dominavano le rappresentazioni popolari dei popoli africani nei libri,
nelle cartoline, e nelle esposizioni coloniali (Hughes 2006: 268). Zulu e masai
hanno finito per essere considerati i due popoli africani per eccellenza,
rappresentativi dell’”essenza africana”.
Ciò che infatti sembra interessare, non è
mostrare la vita e le tradizioni di un popolo in particolare, ma una
generalizzazione funzionale alla descrizione dell’Africa in termini
essenzialistici. Il fine è quello di assecondare il desiderio di esotico, di
tradizione, di autenticità perduta, del turista che in questa rappresentazione
può trovare le conferme dell’idea che sì è fatto dell’Africa. Nella maggior
parte dei casi, gli europei desiderano vedere l’Africa e gli africani nello
stesso modo in cui li hanno immaginati, basandosi sulla costruzione della
rappresentazione dell’altro di matrice coloniale. La costruzione dell’altro
promossa da molti operatori, dai media e dalla pubblicistica, del settore
turistico, aspira, infatti, a marcare la diversità, perché soltanto se l’altro
è percepito come lontano e diverso il turista potrà provare lo stupore e le
emozioni di cui è in cerca (Aime 2005: 128). Il discorso turistico con i suoi
vaghi riferimenti all’africano primitivo o africano tribale, è finalizzato a
creare una distanza fra il turista e l’africano.
Infine mi sembra interessante la chiusura dello
spettacolo con le parole: “The spirit remains alive throught out our lives,
Africa as one trought time (…) we live as one, work as one, fight for one
other”.
Il governo keniota ricorre spesso alla retorica
dell’unità nazionale a dispetto delle tensioni che caratterizzano i rapporti
fra i numerosi gruppi etnici che compongono il Kenya. Il messaggio, promulgato
anche musei governativi come il Bomas a Nairobi, asserisce che l’eredità
multi-etinica del Kenya appartiene a tutti i kenioti; questo messaggio è qui
esteso a tutta l’Africa come se esistesse un unico popolo, un unico spirito, un
unico modo per essere africani.
Anche la pubblicistica nazionale che promuove
il Kenya come ideale meta turistica ricorre spesso a slogan come “Kenya all of
Africa in one country”. Come è noto l’Africa è un continente attraversato da
conflitti, molti dei quali portano le vestigia del passato coloniale. Il Kenya
stesso affronta tensioni ancora vive fra i numerosi gruppi etnici che popolano
il paese. Ma l’immagine offerta ai turisti è quella di una realtà idilliaca che
rimane invariata nel tempo a dispetto degli inevitabili cambiamenti che ne
accompagnano la storia. Nello spettacolo, gli stereotipi legati alla
rappresentazione dell’altro come violento, istintivo e aggressivo, sono sì
esplorati, ma allo stesso tempo contenuti da un messaggio rassicurante di pace
e fraternità. Tale messaggio è funzionale alla promozione del Kenya come
paradiso delle vacanze dove i turisti sono accolti a braccia parte e possono
sentirsi al sicuro, come a casa propria.
Fonti:
Marco Aime, L’incontro mancato, Torino,
Bollati-Boringhieri, 2005
Edward. M. Bruner, “The Masaai and the Lion King: Authenticity,
Nationalism, and Globalization
in African Tourism”, American Ethnologist, vol. 28, n. 4 (Nov.
2001), pp. 881-908
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