26 gennaio 2014


Spettacoli di danza per turisti a Mombasa: An African Celebration

Lo spettacolo An African Celebration è introdotto da un narratore che racconta come si svolge la vita quotidiana in un non definito villaggio africano (“welcome to an African village”), in un tempo “lontano ma non così lontano”. Le coordinate spazio temporali sono soltanto abbozzate, ciò che sembra essere importante è la celebrazione dell’Africa: “We are here to celebrate our mother land, the nature and our traditions; we are here to celebrate Africa” (siamo qui per celebrare la nostra madre terra, la natura e le nostre tradizioni; siamo qui per celebrare l’Africa). In sottofondo si odono i rumori del vento, degli animali, dell’acqua che scorre; la presenza dell’uomo è segnalata soltanto dal suono dei tamburi in lontananza. Il narratore racconta cosa accade in una “tipica” giornata di un villaggio africano: le donne lavorano nei campi mentre gli uomini combattono per ampliare i confini del clan (il termine “clan” è utilizzato dal narratore stesso). Le donne sono descritte ponendo l’enfasi sugli aspetti del corpo legati alla voluttuosità e alla nudità (“voluptious, wearing nothing but skin”), mentre degli uomini si evidenziano le caratteristiche atletiche e combattive. Entrambi hanno decorazioni sul corpo e sul viso e indossano abiti fatti di frange e pelli.
I turisti sono invitati a chiamare lo spirito africano (“the African spirit”) perché entri in loro e possano così partecipare allo spettacolo e, più in generale, all’Africaness. Le prime danze, dopo il risveglio nel villaggio, vedono le donne intente nella raccolta nei campi e gli uomini armati di bastoni e scudi che combattono con guerrieri di ipotetici villaggi vicini. Le donne, con la loro grazia e bellezza (“any man will get confused”), riescono a riportare la pace al termine della giornata. Il narratore riprende quindi le fila della storia e spiega che nell’Africa moderna, molte cose sono cambiate, ma gli africani rimangono fedeli alla chiamata della loro terra: “The spirit remains alive throught out our lives, Africa as one through time (…) we live as one, work as one, fight for one other”. A questo punto ha inizio una danza festosa sulle note di canzoni attuali (Shakira, Waka Waka [This is Time for Africa]), che si conclude con la partecipazione dei turisti, inviati a salire sul palco e a danzare con i ballerini kenioti.

Sin dalle prime battute, la narrazione si articola intorno ad alcuni temi chiave del discorso coloniale: il nobile selvaggio che vive a contatto con la natura, la sensualità dei corpi delle donne, l’aggressività dei guerrieri. Questi elementi rinforzano la contrapposizione fra la razionalità occidentale e l’istintività dei nativi, fra civilizzazione e arcaicità, modernità e tradizione, secondo la logica evoluzionista che sulla base delle nozioni di sviluppo e progresso colloca le civiltà su una medesima linea evolutiva.
Nell’intenso rapporto fra uomo e natura, la dimensione della cultura emerge unicamente nei suoi aspetti rituali. Così l’enfasi del narratore sul suono dei tamburi (un altro elemento vivo nell’immaginario occidentale sull’Africa) e sugli aspetti celebrativi, come elementi di una tradizione rimasta invariata nel tempo. “Il viaggio turistico è sovente una sorta di volo nostalgico lontano dalle implicazioni della vita moderna” (Aime 2005: 127). Queste considerazioni si basano sul presupposto che alcune società siano rimaste congelate in un tempo lontano, in contrapposizione quindi alla modernità occidentale.








‘North Zululand’ ngoma dancers, Johannesburg area, ca 1930s


L’Africa è riconosciuta attraverso le sue tradizioni che la áncorano a un passato storico privo di profondità, in contrapposizione alla modernità occidentale. L’elisione del tempo e dello spazio rinforza il ripiegarsi del presente nel passato e di una geografia mitica in una reale. La dimensione spazio-temporale è sospesa: ciò che viene presentato è un villaggio africano e la vita che lì si svolge, senza che questi siano contestualizzati in un preciso momento storico o in una specifica area geografica. Soltanto i costumi di scena e la scenografia che ritrae in silhouette capanne con tetti di paglia - ormai entrate a pieno titolo nell’immaginario occidentale - potrebbero indurre a pensare che si tratti di un villaggio zulu, come dichiarato dalla narratrice nella breve intervista realizzata dietro le quinte.
Manca qualsiasi riferimento alla contemporaneità: gli eventi storici degli ultimi due secoli sembrano non avere avuto alcuna ripercussione su questo villaggio africano, che vive al riparo da cambiamenti e contaminazioni.
La lotta con i bastoni eseguita dai giovani che “combattono per ampliare i confini del clan”, è interpretata unicamente nei suoi aspetti marziali, secondo la prospettiva coloniale che associava questa pratica alla figura del guerriero coraggioso e all’aggressività maschile nel Sudafrica, minimizzando, in questo modo, gli aspetti legati alla difesa del gregge (gli uomini erano principalmente dediti all’allevamento) e alla sicurezza familiare.
Nell’intervista emerge che il coreografo dello spettacolo ha studiato e si è ispirato alle danze tradizionali zulu per realizzare la coreografia. Lo spettacolo propone una rivisitazione delle danze zulu in chiave contemporanea e “keniota”, secondo le parole della narratrice intervistata: “This is a Southafrican dance, from zulu group, but we try to modernize it, to make it kenyan”.
Il riferimento alle danze tradizionali zulu è interessante, al di là degli aspetti coreografici, per il parallelismo che crea fra kenioti e zulu. A partire dal 1890, immagini che ritraggono guerrieri masai e zulu dominavano le rappresentazioni popolari dei popoli africani nei libri, nelle cartoline, e nelle esposizioni coloniali (Hughes 2006: 268). Zulu e masai hanno finito per essere considerati i due popoli africani per eccellenza, rappresentativi dell’”essenza africana”.
Ciò che infatti sembra interessare, non è mostrare la vita e le tradizioni di un popolo in particolare, ma una generalizzazione funzionale alla descrizione dell’Africa in termini essenzialistici. Il fine è quello di assecondare il desiderio di esotico, di tradizione, di autenticità perduta, del turista che in questa rappresentazione può trovare le conferme dell’idea che sì è fatto dell’Africa. Nella maggior parte dei casi, gli europei desiderano vedere l’Africa e gli africani nello stesso modo in cui li hanno immaginati, basandosi sulla costruzione della rappresentazione dell’altro di matrice coloniale. La costruzione dell’altro promossa da molti operatori, dai media e dalla pubblicistica, del settore turistico, aspira, infatti, a marcare la diversità, perché soltanto se l’altro è percepito come lontano e diverso il turista potrà provare lo stupore e le emozioni di cui è in cerca (Aime 2005: 128). Il discorso turistico con i suoi vaghi riferimenti all’africano primitivo o africano tribale, è finalizzato a creare una distanza fra il turista e l’africano.
Infine mi sembra interessante la chiusura dello spettacolo con le parole: “The spirit remains alive throught out our lives, Africa as one trought time (…) we live as one, work as one, fight for one other”.
Il governo keniota ricorre spesso alla retorica dell’unità nazionale a dispetto delle tensioni che caratterizzano i rapporti fra i numerosi gruppi etnici che compongono il Kenya. Il messaggio, promulgato anche musei governativi come il Bomas a Nairobi, asserisce che l’eredità multi-etinica del Kenya appartiene a tutti i kenioti; questo messaggio è qui esteso a tutta l’Africa come se esistesse un unico popolo, un unico spirito, un unico modo per essere africani.
Anche la pubblicistica nazionale che promuove il Kenya come ideale meta turistica ricorre spesso a slogan come “Kenya all of Africa in one country”. Come è noto l’Africa è un continente attraversato da conflitti, molti dei quali portano le vestigia del passato coloniale. Il Kenya stesso affronta tensioni ancora vive fra i numerosi gruppi etnici che popolano il paese. Ma l’immagine offerta ai turisti è quella di una realtà idilliaca che rimane invariata nel tempo a dispetto degli inevitabili cambiamenti che ne accompagnano la storia. Nello spettacolo, gli stereotipi legati alla rappresentazione dell’altro come violento, istintivo e aggressivo, sono sì esplorati, ma allo stesso tempo contenuti da un messaggio rassicurante di pace e fraternità. Tale messaggio è funzionale alla promozione del Kenya come paradiso delle vacanze dove i turisti sono accolti a braccia parte e possono sentirsi al sicuro, come a casa propria.


Fonti:
Marco Aime, L’incontro mancato, Torino, Bollati-Boringhieri, 2005

Edward. M. Bruner, “The Masaai and the Lion King: Authenticity, Nationalism, and Globalization
in African Tourism”, American Ethnologist, vol. 28, n. 4 (Nov. 2001), pp. 881-908









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