I
colonialisti britannici, così come i mercanti e i viaggiatori che visitarono il
Kenya, hanno per lungo tempo descritto i Samburu e i Masai come un popolo di
pastori primitivi, esotici e riluttanti al cambiamento (Kasfir 2007). In
seguito all’Indipendenza del Kenya nel 1963, queste immagini hanno continuato
ad attrarre viaggiatori e turisti dall’Europa, ma hanno anche generato nuovi
contesti in cui sia i Masai, sia i Samburu, potessero produrre capitale. I
discorsi pubblici nazionali e le brochure turistiche, individuano le etnie
Samburu e Masai attraverso l’immagine emblematica del giovane ed esotico
guerriero (moran), che impugna la lancia e lo scudo, mezzo nudo, con i
capelli colorati di ocra e adornato con bracciali e collane di perline
colorate. Mutuata dalle rappresentazioni dei primi viaggiatori e ufficiali
coloniali, l’immagine del guerriero masai divenne l’icona della tradizione e
una delle attrattive principali del Kenya come destinazione turistica
internazionale, accanto alla fauna selvatica e alle spiagge paradisiache.
Nel
discorso coloniale britannico i pastori Masai costituivano un problema, sia a
causa dei loro grandi greggi che mettevano a rischio la conservazione dei
pascoli e dell’ambiente in generale, sia perché essi mostravano uno scarso
interesse nei vantaggi offerti dalla colonizzazione (beni materiali,
partecipazione nell’economia del denaro ecc.) preferendo rimanere fedeli a uno
stile di vita spartano e rifiutandosi di diventare lavoratori salariati alle
dipendenze degli europei. Nello stato post-coloniale, i pastori erano comunque
visti come un problema: la necessità di terreni dove pascolare i greggi si
scontra con il bisogno di creare parchi e riserve dove i turisti possano osservare
la flora e la fauna del luogo. Lo stesso problema si manifesta anche con le
crescenti popolazioni sedentarie del Kenya, come i kikuyu, che praticano
l’agricoltura e che necessitano di terreni da coltivare. Ma i Masai e i Samburu
oggi sono al centro dell’interesse dei turisti che non si limita alla bellezza
del mare e alla ricchezza della fauna, ma che è diretto anche all’incontro con
i popoli “tribali” (Kasfir 2010: 377).
Gli studi
antropologici sul turismo hanno mostrato come le rappresentazioni visuali e
testuali mediano le relazioni asimmetriche fra i turisti e le comunità
ospitanti. Cartoline, magliette, coffee-table books, statuette intagliate nel
legno che ritraggono guerrieri masai prodotte dai Kamba, ma anche film
hollywoodiani come The Air Up There (1994) con Kevin Bacon e The
Ghost and the Darkness (1996) con Michael Douglas e Val Kilmer, sono alcuni
esempi di strumenti attraverso cui l’immagine del guerriero viene mercificata.
Gli
elementi che descrivono i masai, enfatizzati in questi materiali, compaiono in
parte nei resoconti di viaggiatori e missionari del XIX secolo che raggiunsero
un vasto pubblico.
Il primo
resoconto del guerriero masai fu opera del geografo Joseph Thomson, Through
Masai Land (1885), che li descrisse elogiandone la fierezza, il portamento
aristocratico ma anche bestiali, violenti e fornicatori. Contribuì, inoltre,
enfatizzandone le differenze rispetto alle altre popolazioni africane e la loro
fiera indipendenza, a creare uno stereotipo funzionale alla dominazione coloniale
da sempre impegnata a mantenere e sfruttare le differenze etniche (Hughes
2006). Seguirono poi altre pubblicazioni e resoconti di viaggio che ebbero
molta eco fra gli europei del XIX secolo. È il caso del resoconto del libro del
missionario tedesco Krapf pubblicato in Germania nel 1858 e poi tradotto in
inglese due anni dopo. Qui i masai sono descritti come guerrieri combattivi
(sebbene molti fatti storici lo smentiscano), avidi di terra più di quanto ne
avessero realmente bisogno e consumatori di cibi crudi (latte, sangue e miele).
Queste descrizioni furono utilizzate dall’amministrazione coloniale per
legittimare le successive misure repressive dirette contro i masai (i masai non
erano in grado di sfruttare al meglio la terra per cui era legittimo sottrargliela)
e per rimuoverli dalla categoria di “uomini civilizzati” relegandoli quella di
“uomini naturali” (i masai consumano cibi crudi) (Hughes 2006).
Dal 1890 in
poi fotografie di boscimani australiani e di guerrieri masai e zulu dominarono
le rappresentazioni popolari delle popolazioni africane nei libri, nelle
cartoline, e nelle esposizioni coloniali. I guerrieri finirono per
rappresentare i rispettivi gruppi etnici, rinforzando l’idea nell’immaginario
occidentale, che queste “tribù” fossero prevalentemente marziali (Hughes 2006:
268).
Nel 1901 il
libro The Last of the Masai, di Sidney e Hildegarde Hinde, aggiunse un
ulteriore elemento che da quel momento caratterizzò l’immagine dei guerrieri
masai: essi vennero dipinti come un esempio di razza pura che stava
scomparendo. Il titolo del libro stava ad indicare il fatto che la cultura
masai, con le sue tradizioni, i suoi costumi e le sue credenze non erano state
contaminate dal contatto con la civilizzazione e gli altri popoli Bantu. Con
queste affermazioni, la nostalgia divenne un elemento costante della loro
rappresentazione (Hughes 2006).
Oggi, nella
promozione turistica del Kenya, alcune di queste caratteristiche sono
utilizzate per sponsorizzare i masai come simbolo nazionale. Essi sono la
faccia della “vecchia Africa”, descritti come primitivi, la cui bellezza
aristocratica e selvaggia, costituisce un’attrattiva per i turisti occidentali
desiderosi di incontrare il guerriero “tribale” (Hughes 2006). Ma se i
resoconti storici e la promozione turistica sono al di fuori del controllo dei
masai, il loro coinvolgimento nell’industria turistica attraverso le danze
organizzate negli alberghi della costa, nei lodge dei parchi e nelle riserve
nazionali, nonché l’apertura ai turisti, dietro pagamento di una tassa di
ammissione, dei loro villaggi, comporta una partecipazione volontaria. I masai
hanno compreso che l’interesse dei turisti per i loro costumi e le loro
tradizioni, può tradursi in un vantaggio economico che può quindi essere
sfruttato offrendo ai turisti una rappresentazione di se stessi che incontri le
loro aspettative.
Fonti:
Hughes L., “’Beautiful Beasts’ and Brave Warriors: The
Longevity of Maasai Stereotype”, in Romanucci-Ross L., De Vos G. A. e Tsuda T.
(a cura di), Ethnic Identity: Problems and Prospects for the Twenty-First
Century, Lanham, MD, AltaMira Press, 2006, pp. 264-294
Kasfir S.
L., “Slam-Drunkikg and te Last Noble Savage”, Visual Anthropology, vol.
15, n. 3-4 (2010), pp. 369-385
Meiu G.P., “On Difference, Desire and the Aesthetics
of the Unexpected: The White Masai in Kenyan Tourism”, in Skinner J. e
Theodossopoulos D., Great Expectations. Immagination and Anticipation on
Tourism, New York – Oxford, Berghahn Books, 2011, pp. 96-113
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