3. I soggetti del film
1. La scoperta dello spettatore
Nonostante Bettetini ed Eco abbiano
affermato il carattere culturale della somiglianza iconica e
l’importanza della competenza spettatoriale per interpretare un
testo visivo come isomorfico al referente, l’approccio dei due
studiosi sembra centrato essenzialmente sul lavoro semiotico del
produttore delle immagini e quindi sul testo come produzione
intenzionale di significato.
Un reale interesse per lo spettatore
nasce solo quando, negli anni Settanta, il modello strutturalista —
rappresentato da autori come Lévi-Strauss, Barthes, To dorov, Eco,
Genette — viene incrinato da altri possibili approcci al film, in
primo luogo da quello psicoanalitico.
Mentre gli strutturalisti analizzavano
il testo (filmico o di altro tipo) come una forma autonoma
rispondente a regole generate dal modello (culturale) da cui quel
testo deriva, indipendentemente dall’autore che l’ha realizzata,
con la psicoanalisi e il post-strutturalismo il testo viene osservato
come il luogo in cui avvengono delle pratiche, dei processi di
investimento simbolico e di costruzione processuale del significato.
Con l’approccio psicoanalitico, «lo spettatore, inteso come
soggetto desiderante, viene posto al centro dell’istituzione
cinematografica.. In questa fase la ricerca si sposta da domande
quali “Qual è la natura dei segni cinematografici e quali le leggi
della loro combinazione?” e “Che cosa è un film?”, a
interrogativi come “Che cosa vogliamo dal testo?” e “Qual è il
nostro investimento spettatoriale in esso”. Analizzando gli effetti
del cinema sullo spettatore, l’approccio psicoanalitico mette in
evidenza la dimensione “metapsicologica” del cinema, ovvero le
modalità di attivazione e regolamentazione del desiderio dello
spettatore» (Stam, Burgoyne, Flitterman Lewis, 1999, p. 36). Il
post-strutturalismo, di cui i teorici più importanti sono Jacques
Derrida, definito anche decostruzionista, Louis Foucault,
Jacques Lacan, Julia Kristeva, implica una critica dei concetti di
segno stabile, di soggetto unitario, di identità e di verità»
(ivi, p. 38).
Riconoscendo al fruitore del testo (lo
spettatore, il lettore) un ruolo chiave nella produzione del senso,
si pone la seguente questione: è il testo che costruisce il suo
fruitore ideale, oppure è il fruitore che costruisce il testo nel
corso della sua attività interpretativa?
Veijo Hietala individua due paradigmi
teorici che tentano di fornire una risposta a tale questione:
il paradigma testuale,
rappresentato dalle teorizzazioni di Baudry, Oudart e Metz,
e il paradigma contestuale
sostenuto da studiosi di diversa formazione, quali Gadamer, Jauss,
Hall.
In Francia, dove le teorie
post-strutturaliste ebbero origine, la riflessione filmologica
sviluppò alcune interessanti analisi che indagavano la questione del
soggetto nel film.
Nei primi anni Settanta, Jean-Louis
Baudry e Jean-Pierre Oudart, rispettivamente sulle pagine di
Cinéthique e dei Cahiers du Cinéma, pubblicarono
alcuni importanti saggi che individuavano nella camera obscura e
nella prospettiva rinascimentale le invenzioni che istituivano il
soggetto come focus dell’esperienza visiva.
Jean-Louis Baudry analizza il processo
di produzione dell’immagine filmica e vede nell’apparecchiatura
cinematografica uno strumento significante, non neutro, che possiede
una sua “ideologia” direttamente discendente dalla prospettiva.
Nella visione prospettica, è riconoscibile il luogo del soggetto
osservatore, il punto di vista da cui la scena è osservata. Il
cinema, dal momento che mette in sequenza una successione di
immagini, sembrerebbe porsi fuori di una tale visione monolocale. La
discontinuità delle immagini fotografiche che compongono la
pellicola è poi cancellata dal meccanismo di proiezione che grazie
alla persistenza retinica delle singole immagini/fotogramma produce
l’illusione di continuità e movimento.
Come la fase dello specchio descritta
da Lacan rappresenta per il bambino l’unificazione dei frammenti
del corpo in una prima immagine dell’io cosi l’ego trascendentale
riunisce i frammenti discontinui dei fenomeni, dei vissuti, in un
senso organizzato. Baudry osserva infine che il cinema diventa
strumento dell’ideologia dominante: esso crea «una
fantasmatizzazione del soggetto» e «collabora con marcata efficacia
alla conservazione dell’idealismo» e questo è possibile a
condizione che «lo strumento stesso sia occultato, rimosso»: la
«fantasmatizzazione del soggetto». cioè la sua cancellazione dalla
scena della visione al fine di far apparire la visione come
“naturale”, prodotta dallo stesso spettatore che dunque
fantasmatizza il soggetto immaginando se stesso al suo posto, avviene
attraverso l’occultamento dell’apparato tecnico che produce la
visione.
In conclusione, per Baudry lo
spettatore come soggetto della visione è costruito dal testo visivo
che illusoriamente lo colloca come produttore del testo — soggetto
trascendentale di un testo costruito per lui e da lui — occultando
il processo di produzione e l’ideologia dell’apparato ottico di
ripresa.
Jean Oudart, sulla scia di Baudry,
sostiene che «nel sistema rappresentativo della pittura occidentale
come in quello del cinema, sono simultaneamente ignorati 1) la
figurazione (noi diremo l’effetto di realtà) in quanto prodotto di
codici pittoriali specifici; 2) la rappresentazione che la
costituisce come finzione includendovi lo spettatore (noi diremo
l’effetto di reale). Per Oudart, che fonda la sua teoria sul
concetto lacaniano di sutura (cfr. sotto) esemplificandola con
Las Meninas (1656) di Velasquez, lo spettatore è inscritto
nel testo visivo sotto la forma di un’assenza (manque). Come
rivela Las Meninas, i testi visivi presuppongo un osservatore
per il quale l’immagine è costruita.
In un saggio successivo, come il
precedente pubblicato nei Cahiers du Cinéma, Oudart ribadisce
la funzione del cinema come incarnazione dell’ideologia borghese
intesa come «un discorso nel quale un soggetto (il soggetto del
significante, in altre parole il soggetto della produzione, nella
misura in cui il significante consiste in un prodotto economico,
linguistico, ecc.) ha articolato la questione della sua produzione,
del suo avvento simbolico, sul modo della rimozione, proprio della
borghesia, come notava Marx, costituendosi come astorico» (Oudart,
1971b, p. 45).
Hietala (1996, p. 178) nota che il
modello Baudry-Oudart è un adattamento per il cinema delle teorie
neo-marxiste di Louis Althusser secondo il quale l’ideologia è «un
sistema (che possiede la propria logica e il proprio rigore) di
rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, secondo i casi)
dotate di un’esistenza e di una funzione storica nell’ambito di
una società» (cit. in Tullio-Altan, 1971, p. 229).
Il terzo studioso che Hietala ascrive
al paradigma testualista è il semiologo del cinema Christian
Metz che, utilizzando una terminologia differente, giunge alle
medesime conclusioni di Baudry e Oudart. Facendo riferimento alla
distinzione storia/discorso del linguista Emile Benveniste -
dove con discorso si intende un
atto comunicativo fra un parlante e un ascoltatore e l’intenzione
del parlante di influenzare l’ascoltatore, e con storia il
contenuto impersonale, Metz sostiene che il cinema tradizionale
cancella le tracce del soggetto dell’enunciazione visiva per
lasciare uno spazio che lo spettatore occu pa percependosi
illusoriamente come il soggetto dell’enunciazione.
In sintesi il paradigma testuale
presenta due fondamentali caratteristiche:
1) attribuisce all’apparato ottico
del cinema (ma la tesi può essere facilmente trasferita anche alla
fotografia) un significato ideologico di base dal quale non ci si può
distaccare (Baudry);
2) attraverso meccanismi narrativi, gli
effetti di reale (la rappresentazione secondo il canone della
prospettiva e la narrazione) e gli effetti di realtà (la
verosimiglianza degli “oggetti” rappresentati e delle relazioni
fra di essi), istituisce l’osservatore come soggetto per cui la
visione è costruita (Oudart). Hietala fa notare che la teoria di
Baudry sugli “effetti ideologici dell’apparato di base”, per la
quale nessun cinema è possibile al di fuori dell’idealismo e
dell’ideologia borghese, è contraddetta dagli stessi
post-strutturalisti, quando acclamano Eisenstein e il cinema russo
degli anni Venti e Trenta come esempi di cinema anti-ideologico. E’
stato osservato anche come «questo scetticismo nella possibilità di
sovvertire l’apparato non è senza correlazione con un certo
declino e disfattismo della sinistra del periodo — i primi anni
Settanta — durante il quale vennero formulate queste teorie.»
(Stam, Burgoyne, Flitterman-Lewis, 1999, pp. 241-242).
A cavallo fra gli anni Settanta e
Ottanta comincia a diffondersi un approccio diverso all’analisi
della ricezione del film. Da un lato le teorie della ricezione
letteraria spostano l’attenzione sull’orizzonte di attesa
del lettore (Jauss, 1982) come elemento fondamentale
nell’interpretazione dei testi e sulla lettura come pratica
creativa capace di fornire provvisoria coerenza al testo (cfr.
Iser, 1987), dall’altro i teorici dell’ermeneutica come Gadamer
riconoscono che il fruitore, sia esso uno studioso o un semplice
lettore, si avvicina al testo portandosi dietro la sua cultura e i
suoi pregiudizi e pertanto prima della comprensione del testo c’è
una pre-comprensione da cui parte quell’attività interpretativa
definita come circolo ermeneutico consistente nello
stratificarsi della conoscenza a ogni successiva indagine e
interpretazione dei testi (o fatti).
Hietala fa delle teorie di Stuart Hall
(1980) sulla ricezione della televisione il punto centrale della
prospettiva contestuale. Hall, insieme con altri studiosi del Centre
for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham,
ha affermato che gruppi sociali diversi danno un significato
differente ai programmi televisivi, sebbene il testo veicoli un
significato dominante, preferenziale. Uno spettatore, a seconda della
sua appartenenza sociale, può accettare il significato proposto
dall’autore del testo, può rigettarlo in toto o anche aggiungervi
ulteriori connotazioni determinate dalle specifiche condizioni
culturali producendo un’interpretazione negoziata.
Come osserva dunque Hietala, «mentre i
testualisti hanno difeso la tesi che il fruitore è fermamente
inscritto e posizionato dal testo, l’approccio contestualista
suggerisce che il fruitore può anche rifiutare la posizione offerta…
In altre parole, ciò che il testo (il film) costruisce è soltanto
la posizione dello spettatore, che lo spettatore reale non è, ad
ogni modo, obbligato a occupare» (1996, p. 182). Hietala
evidenzia anche che nella teoria di Hall la questione del significato
del testo non è posta in termini di comprensione, ma di approvazione
o disapprovazione dei contenuti ideologici proposti.
L’intelligibilità, la comprensione del testo, dei significati
proposti dall’autore, è un’altra questione che innanzitutto non
dipende dalla posizione del fruitore: un testo può essere compreso
da molte posizioni di lettura.
L’antropologia visuale ha cominciato
a interrogarsi sulla ricezione del film etnografico solo verso la
metà degli anni Novanta del secolo scorso con il convegno della
Nordic Anthropological Film Association dal titolo The
Construction of the Viewer (Crawford, Haistensson, 1996). Vanno
rilevati però i precedenti contributi di Worth e Gross (1981) e di
Wilton Martinez in Film as Ethnography, volume collettaneo
curato da Peter Ian Crawford e David Turton (1992).
Worth e Gross proposero un modello
basato su una serie di opposizioni: a) nonsegni-eventi/segni-eventi
(il primo termine indica «quelle attività della vita quotidiana che
non evocano l’uso di una strategia per determinare il loro
significato» (Worth, Gross, cit, in Martinez, 1996, p. 72); b) la
suddivisione dei segni-eventi in naturali e simbolici; e)
l’opposizione fra “attribuzione” (di precomprensioni
dell’osservatore) e “inferenza comunicativa” (del significato
testuale) intesa come due tipi di interpretazione. Questo modello,
osserva Martinez, «è evidentemente basato sull’assunzione che il
reale (nonsegni-eventi) è trasparente e può essere direttamente
conosciuto — esso sta anche alla base degli stili naturalisti e
realisti nella rappresentazione etnografica» (ibidem). Il modello di
Worth e Gross cerca di tenere conto di tutte quelle varianti che
vanno dall’attribuzione ingenua di significato tramite la mera
precomprensione del soggetto osservatore (il significato, in pratica,
e ciò che l’osservatore già conosce dell’evento che osserva)
alla interpretazione critica vera e propria del testo, anche
attraverso la negoziazione dei significati. In sostanza il modello di
Worth e Gross presuppone che lo spettatore possa decodificare il film
“correttamente” e che tale decodifica sia veritiera solo quando i
significati inferiti dallo spettatore corrispondono a quelli
intenzionalmente trasmessi dall’autore. Si tratta del noto modello
comunicativo semiotico-informazionale, dove un emittente codifica un
messaggio che, trasmesso attraverso un canale, giunge a un
destinatario che lo decodifica.
Nel saggio del 1992 Martinez dichiarava
la necessità di abbandonare il modello testo-centrato e
autore-centrato per porre il focus teorico sull’attività
dello spettatore, «in quanto potente risorsa di produzione del senso
nella costruzione della conoscenza antropologica». E se lo
spettatore — Martinez pervenne a questi risultati attraverso una
ricerca sulla ricezione del film da parte di studenti universitari
all’interno di un corso base di antropologia alla University of
Southern California — giunge a una “decodifica aberrante”, ciò
avviene solo quando è il film a evocare sensazioni disgustose o a
proporre un’immagine bizzarra e primitivizzante della cultura
rappresentata.
Sempre nel 1992 appare, nel volume Film
as Ethnography curato da Peter Crawford e David Turton, un saggio
di Marcus Banks che propone un modello della comunicazione filmica
molto vicino al modello informazionale
emittente-messaggio-ricevente. Il modello di Banks è organizzato nei
tre livelli “intenzione-evento-reazione” e intende spiegare come
avviene l’attribuzione di etnograficità a un film documentario.
Intenzione evento reazione
Banks suggerisce di distinguere tra il
film come oggetto (supporto di celluloide) e il film come
concetto. Considerare il film come oggetto ci conduce a vedere
il film come supporto sul quale è possibile trasferire la realtà
filmata e considerare la ripresa cinematografica come
“documentazione”: «questo approccio al film del tipo
“documentazione” riguarda soltanto il livello di rappresentazione
che in modo tra sparente rivela l’azione che ha avuto luogo di
fronte alla macchina da presa e che è stata registrata dalla
pellicola sensibile alla luce. Nel secondo approccio, quello del
“film come cinema”, un ulteriore livello, quello
dell’inquadratura cinematografica, si inserisce fra l’inquadratura
trasparente della realtà e l’osservatore. Il livello
cinematografico, che è negato o ignorato dal primo approccio, è
quello in cui i processi tecnologici del film rivelano se stessi —
il lavoro della macchina da presa, le luci, il suono, il missaggio,
il montaggio — in breve tutte le trasformazioni che attraversano il
film grezzo e la bruta “realtà” catturata da quel film prima che
siano stati visti dall’osservatore. Mentre il primo approccio, il
film come documento, è necessariamente limitato, il film come cinema
(il secondo approccio) può svilupparsi in numerose direzioni:
lungometraggi, documentari, film etnografici, documentari
sceneggiati, film di animazione e via di seguito» (Banks, 1992, p.
118). Secondo Banks, se la nostra intenzione è di veicolare un
significato etnografico, tenderemo a enfatizzare l’inquadratura
come contenitore di “realtà” per evitare che criteri diversi da
quello etnografico possano prevalere e porre in secondo piano
l’antropologia; «questa è la posizione di Karl Heider e di Peter
Fuchs e i suoi colleghi di Gottinga» (ivi, p. 119). Heider
suggerisce di porre sempre al primo posto il contenuto etnografico
rispetto alla estetica, mentre Fuchs e i colleghi di Gottinga evitano
qualsiasi manipolazione della descrizione per non sovrappone
all’inquadratura come contenitore l’inquadratura come
concettualizzazione cinematografica della realtà (sulla scuola di
Gottinga cfr. cap. 4).
Ma vi sono, nota Banks, anche
filmmakers che «ritengono possibile veicolare l’intenzione
etnografica attraverso il livello cinematografico del film»’ (ivi,
pp. 119-120) e fra essi vengono indicati Peter Biella e Don
Rundstrom, i quali descrivendo i loro film affermano di aver
utilizzato il linguaggio filmico per produrre un’analisi
antropologica del soggetto filmato.
Dal punto di vista dell’evento
ripreso, il film può essere sempre etnografico, dal momento che
quasi qualsiasi evento può essere oggetto di indagine antropologica,
oltre al fatto che vi sono soggetti che tradizionalmente sono
trattati dall’etnografia, come tutte le culture non occidentali.
Naturalmente il modo di trattare l’evento, cioè lo stile e la
metodologia con cui il film è realizzato, giocano un ruolo
importante affinché il film sia riconosciuto come etnografico (ivi,
pp 120-121).
Infine la reazione, cioè il
modo in cui lo spettatore risponde al film. Un modo per stabilire
l’etnograficità del film è osservare quali film sono recensiti,
quali vengono accettati dai festival del film etnografico, quali film
vengono inclusi nelle videoteche etnografiche. Ma, scrive Banks, ci
sono due ordini di problemi riguardanti i criteri menzionati. In
primo luogo vi possono essere altri fattori che intervengono mettendo
in secondo piano le specificità del film, come favoritismi e limiti
di budget. In secondo luogo, se un film si autodefinisce etnografico
la sua etnograficità è accettata a priori. Se poi consideriamo che,
come hanno mostrato i test di Martinez, film considerati etnografici
hanno condotto a interpretazioni diverse dalle intenzioni
dell’autore, allora l’idea che l’etnograficità del film
dipenda dalla reazione del pubblico resta rafforzata (ivi, pp.
124-126). In conclusione, nonostante come antropologi tendiamo
giustamente a collocare l’etnograficità del film allo stadio
dell’intenzione piuttosto che a quello dell’evento
o della reazione, essa si decide in tutti e tre i livelli
della comunicazione (intenzione, evento e reazione) e in relazione
allo stato dell’arte dell’etnografia i cui metodi sono cambiati e
forse ancora si svilupperanno nel futuro (ivi, pp. 127-128).
Si può dire che i film abbiano una
“storia di vita” che consiste nelle diverse interpretazioni
accumulate nel corso del tempo. Les Maitres Fous di Jean
Rouch, girato nel 1954 e proiettato per la prima volta al Musée de
l’Homme nel 1955 per un pubblico di antropologi e intellettuali
africani, fu all’inizio considerato razzista e ne fu proposta la
distruzione. Rouch, invece, lavorò per orientare l’interpretazione
su un’altra pista, innanzitutto anteponendo alle immagini un lungo
testo esplicativo. Come scrive Paul Henley, l’autore, per rendere
inoffensive le critiche «adottò la strategia di suggerire che se
c’era qual cosa di scioccante o ripugnante nel film, ciò non
doveva essere attribuito ai soggetti africani, ma piuttosto alla
società coloniale in cui essi vivevano». Comincia così a
diffondersi una interpretazione contro-egemonica” del film che in
fondo descriverebbe una sorta di “terapia di gruppo” sviluppata
come reazione al potere coloniale.
Ma dal 1977, osserva Henley, Rouch
passa dall’interpretazione del rito come adattamento psicologico a
quella del rito come “implicitamente rivoluzionario”. Tuttavia lo
studioso britannico contesta questa interpretazione di Rouch, che
sembrerebbe poco etnograficamente fondata, e mostra come i riti della
setta Hauka non siano invenzioni causate dalla violenza della società
coloniale, ma forme coerenti e in continuità con altre tradi zionali
pratiche rituali della religione Songhay-Zerma (Henley, 2006).
Martinez osserva come negli studi letterari lo spostamento dalle
teorie testo-centrate (formalismo, strutturalismo, New Criticism)
alla teoria della ricezione (Jauss, Iser) e alle teorie del testo
(Barthes, Eco) abbia prodotto una vera e propria rivoluzione che ha
affidato al lettore un ruolo fondamentale nella produzione del
significato (1992, p. 133). Martinez riprende in particolare le idee
di Iser, secondo le quali il testo è una struttura schematica che va
completata dal lettore nella contingenza di ogni lettura. Il punto
debole della teoria della ricezione di Iser è costituito, secondo
Martinez, dal fatto che il “liberalismo” di Iser vede la lettura
come un’esperienza individuale, trascurando non solo il contesto
storico e sociale in cui avviene la pratica del leggere — e dunque
la consapevolezza che il “singolare” punto di vi sta del lettore
sia, almeno in parte, culturalmente fondato — ma anche le
intenzioni dell’autore e il contesto storico nel quale l’opera è
stata prodotta. In opposizione a una tale prospettiva, Martinez pone
le teorie del film che hanno alla base gli insegnamenti di Lacan.
Come ricorda Martinez, secondo Lacan il soggetto umano è costituito
dall’intersecazione di due ordini complementari: l’immaginario
(identificazione, fantasia, dualismo) e il simbolico (la forza
dell’ordine culturale, della legge e del discorso). Centrale nella
teoria lacaniana della costituzione del soggetto è la fase dello
specchio, vale a dire quando, all’età di sette-otto mesi il
bambino che fino a quel momento si identificava con la madre
immaginandosi in un corpo non distinto da essa, scopre di essere un
soggetto separato, scopre l’esistenza dell’Altro, e da qui,
attraverso la percezione di una mancanza si apre lo spazio
dell’inconscio e del desiderio. «Questa prospettiva — scrive
Martinez — offre una chiave per analizzare l’inconscio desiderio
del “primitivo” e le rappresentazioni che ne facciamo come
significante interculturale [ Lungo la storia del colonialismo
occidentale, queste rappresentazioni dell’alterità erano cariche
di immagini feticizzate e dualistiche del “primitivo” in quanto
“presenza originaria” e “mancanza” di “civilizzazione”»
(1992, p. 140). La teoria lacaniana della mancanza, porta con sé
anche il concetto di sutura, operazione che il fruitore compie
sullo spazio lasciato aperto dal testo, affinché tale “vuoto”
sia colmato come se fosse la soddisfazione di un desiderio dello
stesso fruitore. In realtà è il testo stesso che sutura le aperture
offerte — mostrando per esempio nella prima inquadratura un oggetto
e nella successiva la persona che lo guarda, oppure mostrandoci nella
prima inquadratura qualcuno che parla rivolgendosi fuori campo e
nella seguente, in controcampo, l’interlocutore. In questo gioco di
aperture e suture, il testo è tanto più ideologico quanto più fa
apparire come “naturali” e ovvie le suture di risposta alle
aperture offerte; le suture infatti possono essere definite, come
scrive Jacques Lacan (1964), “pseudo-identificazioni” o
“congiunzioni dell’immaginario con il simbolico”. Ma, nel caso
del testo, il simbolico proposto dall’autore (le modalità
enunciative, culturali, etiche, narrative ecc.) è fatto coincidere
con l’immaginario (i desideri) dello spettatore.Dunque, tanto nella teoria della ricezione di Iser quanto nelle teorie di ispirazione lacaniana si può osservare l’attività di produzione di senso da parte del lo spettatore come riempimento o sutura di spazi lasciati vuoti dal testo: sul piano dell’inconscio in Lacan, narrativamente e ideologicamente in Iser, sul piano della rappresentazione/enunciazione in Oudart. Attraverso questo gioco di aperture e suture lo spettatore è continuamente interpellato dal film con la richiesta di partecipare alla sua ideologia, è lo spettatore a chiudere il discorso che il film ha lasciato aperto. E sta all’abilita dell’autore riuscire ad ampliare l’orizzonte d’attesa dello spettatore del film etnografico in modo che suturi in modo non stereotipato — per esempio in modo etnocentrico — le aperture che il film offre. Potremmo dire che ilfilmmaker etnografico, come qualsiasi altro antropologo “scrittuale”, dovrebbe far suo l’atteggiamento del traduttore benjami niano il quale deve piegare la propria lingua per riuscire a far comprendere il linguaggio (la cultura, i concetti) dell’Altro. Infatti lo spettatore dovrebbe comprendere la cultura filmata dal punto di vista dei nativi o, meglio ancora, dalla molteplicità dei punti di vista circolanti nella società descritta dal film.
Alla teoria della lettura
individualizzante di Iser, Martinez oppone, oltre all’approccio
psicoanalitico di Lacan, anche il concetto di comunità
interpretativa proposto da Stanley Fish (1980). Al centro ditale
interpretazione delle pratiche di lettura c’è l’idea che il
lettore abbia tutto il potere sul testo. Appartenendo in genere a una
comunità (per es. studenti, filmmakers, antropologi) caratterizzata
da specifiche esigenze, scopi e strategie di lettura, il lettore
eseguirebbe una vera e propria scrittura del testo. Martinez corregge
il tiro e afferma, seguendo Jameson (1981), che sarebbe più preciso
parlare di riscrittura e di revisione secondaria del
testo da parte del lettore in conformità con il codice
dominante di quest’ultimo. Detto nei termini dell’estetica
della ricezione di Jauss (1988), la comunità interpretativa legge il
testo secondo il proprio orizzonte d’attesa, un concetto
questo che implica strutture storico- estetiche e convenzioni di
genere, in gran parte inconsce, attraverso le quali i testi sono
letti. L’orizzonte d’attesa è una struttura dinamica, capace di
essere modificata dall’incontro con nuovi testi che ampliano la
nostra competenza. Non dobbiamo però dimenticare che ciascun film va
osservato e compreso in relazione allo stato dell’arte e
dell’orizzonte d’attesa del suo pubblico nel momento in cui è
stato prodotto e fruito. Studiare i film (e le etnografie) in
correlazione al contesto storico in cui sono stati realizzati
permette di evitare di continuare a concepire le culture e i popoli
come società senza storia (Martinez, 1992, p. 144). Secondo
Martinez, Jauss spesso le risposte del lettore al testo sono guidate
da ragioni extra (i propri valori, sentimenti e attitudini) sovente
connesse alla sua biografia e alla sua rete di relazioni. Si presenta
allora più flessibile il concetto di struttura di sentimenti
(structure of feeling) con il quale Raymond Williams (1977)
intreccia principi storico-estetici e le attese spettatoriali con la
pratica sociale all’interno di un contesto di relazioni di potere.
La nozione di struttura di sentimenti descrive il modo di sentire,
l’ethos, di un determinato gruppo sociale.
Negli anni Novanta del Novecento
risorge il tema del la ricezione del film etnografico, e ciò a causa
di una serie di motivi ben precisi che Martinez elenca così:
Primo, la critica dell’autorità
etnografica e della rappresentazione lanciata dall’antropologia
critica, postmodema e femminista insieme con i concetti di
riflessività, dia logo e multivocalità.
Il secondo elemento è lo sfumare dei
confini nella conoscenza istituzionalizzata e l’incremento dei
contestati studi multidisciplinari della cultura.
In terzo luogo dobbiamo considerare
l’impatto dei media “indigeni” e della diaspora e il numero
sempre più vasto di pubblico e produttori subalterni e post
coloniali.
Gli effetti incrociati di questi
fattori apportano complesse implicazioni ed ha un grande significato
storico e politico per la teoria e le pratiche in genere del mondo
occidentale; in particolare esse sono ancora più rilevanti per il
campo dell’antropologia visuale (Martinez, 1996, p. 69).
La ragione per cui l’antropologia visuale ha per tanto tempo
trascurato la questione dello spettatore è stata, secondo Martinez,
il dominio esercitato da quelle teorie che hanno posto nel testo il
luogo del significato — una eredità del positivismo e dello
strutturalismo — e da «un’eccessiva fiducia nella “veridicità”
e “oggettività” del documentario etnografico» (ibidem). Una
ulteriore ragione di tale ritardo sta nel fatto che i film
etnografici non venivano proiettati ai soggetti filmati, sottraendo a
questi ultimi la possibilità di valutare la correttezza delle
rappresentazioni.2. I tre soggetti della rappresentazione visuale
È evidente allora come nella
costruzione del significato del film etnografico, o anche della
fotografia, intervengano tre soggetti di cui bisogna tener conto per
comprendere il senso di un film: l’autore, i soggetti ripresi e lo
spettatore.
Si tratta di una consapevolezza che si è sviluppata nel corso
della storia dell’antropologia quando ciascuno dei soggetti è
stato di volta in volta la figura principale della rappresentazione.
Se nel periodo dell’oggettivismo positivista l’autorità della
rappresentazione era affidata al documento come riproduzione
veritiera della realtà mostrata, e dunque ai soggetti ripresi che il
documento riteneva poter trasferire fedelmente sul suo supporto,
successivamente l’autorità della rappresentazione è passata nelle
mani dell’etnografo che adottava il metodo dell’osservazione
partecipante e comunicava al lettore dell’etnografia, tramite la
sua esperienza diretta dell’alterità, la realtà della cultura
osservata. Infine, una volta riconosciuto il potere manipolatorio e
interpretativo del fruitore, sia esso spettatore o lettore,
l’autorità sui significati del testo si è spostata sul
destinatario della comunicazione, riconoscendone anche la pluralità.
Nel passaggio dal documentalismo positivista all’osservazione
partecipante e poi alla collaborazione abbiamo assistito alla
sostituzione della misurazione e della classificazione
con l’esperienza e la narrazione, per passare infine
all’interpretazione. Questi spostamenti metodologici
segnalano anche focalizzazioni diverse sui soggetti della
comunicazione: la misurazione e la classificazione sono
centrate sui soggetti documentati come se fossero oggetti;
l’esperienza e la narrazione definiscono l’autore e
il suo punto di vista, ma anche i soggetti filmati quando il film
diventa spazio per una autorappresentazione o comunque per la
conoscenza del punto di vista nativo; l’interpretazione è
una attività del fruitore, il quale elabora, sulla base della
propria competenza e dei propri desideri, un testo costruito da un
autore in forma “aperta” proprio per prestarsi a letture diverse.
Ovviamente, nella concreta pratica etnocinematografica o
etnofotografica queste posture teorico-metodologiche si intersecano,
rispondono a esigenze contemporanee di ricerca o possono essere
ritestualizzate in forma critica e ironica. Per fare un esempio
etnofotografico, il lavoro di Jorma Puranen (1999) è una
ritestualizzazione di fotografie d’archivio conservate al Musée de
l’Homme e prodotte da G. Roche nel corso della spedizione del
principe Rolando Bonaparte (figlio di Napoleone) a Lapland.
«Imaginary Homecoming — ha scritto Jorma Puranen — ha a
che fare con la distanza temporale e spaziale. Per un verso, un museo
collocato alla Piace du Tracadéro; per un altro, le terre sconfinate
di Finnmarken in Norvegia. Il presente è sovrapposto all’anno
1884. Imaginary Homecoming tenta un dialogo tra il passato e
il presente; tra due paesaggi e momenti storici, ma anche fra due
culture. Per colmare questa distanza, ho provato a riportare quelle
fotografie alla loro origine, ricollegando le rappresentazioni ai
posti in cui ebbero origine e dai quali furono separate. Per
completare questo metaforico ritorno, cominciai a rifotografare le
immagini dei Sami» (dal sito web http:// www,finlit 99/puranen.htm).
Le fotografie, poi furono stampate e incorniciate in modo da
costruire un gioco di richiami fra le immagini di Roche e quelle di
Puranen, fra il passato e il presente, fra lo sguardo colonialista
antropometrico e quello “vicino” ai soggetti della fotografa
finlandese. Elizabeth Edwards, che ha scritto a proposito del lavoro
di Puranen, sostiene che le immagini «assumono un carattere
metaforico dal momento che esse si spostano dallo spazio simbolico
dell’appropriazione, l’archivio, incluse nella scrittura della
storia di un altro popolo [ l’Occidente colonialista], allo spazio
simbolico dell’appartenenza, essendo del e nel territorio [ terra
dei Sami]. Imaginary Homecoming gioca con la citazione
e la metafora, A un livello, crea una dichiarazione riparatoria in
relazione alla marginalizzazione e alla diseguaglianza. A un altro
livello, un racconto mitopoietico emerge dall’impegno spirituale
con la terra e la gente dell’estremo nord, dal momento che la
teatralità della performance di queste fotografie storiche le sposta
dallo stadio dell’informazione, attraverso quello della
rappresentazione, verso la contemplazione» (Edwards, 2001, p. 220).Nulla che appartenga al testo in sé ci assicura che il film che stiamo vedendo riguardi fatti e persone reali; è il patto implicito tra l’autore e lo spettatore che determina l’appartenenza del film al genere documentario. Presentare una serie di film all’interno di una rassegna di film etnografico significa in qualche modo promettere allo spettatore che i film rispetteranno, almeno in parte, certe consolidate regole di genere: riguarderanno culture delle società etnologiche oppure culture tradizionali, i soggetti ripresi avranno voce nel film e sicuramente non ci saranno effetti speciali a proiettare il racconto in una dimensione onirica.
Ogni rappresentazione etnografica comporta l’inscrizione nel testo di tre tipi di relazioni: tra chi filma e chi è filmato, tra chi filma e lo spettatore, fra chi è filmato e lo spettatore (Crawford, Simonsen, 1992).
La relazione fra chi è filmato e lo spettatore è già implicita in fase di ripresa ed è incorporata nella relazione fra chi è filmato e la macchina da presa. Se quindi il documento etnografico raccolto sul campo è sempre un “documento contrattato”, esso si costituisce come tale in una relazione triadica, in cui all’etnografo e all’informatore si aggiunge l’ideale fruitore, spettatore o lettore che sia.
L’attuale stato dell’arte del film etnografico riconosce a questi tre soggetti - chi è ripreso, chi riprende e chi guarda il film - una loro parte nella determinazione dei significati della rappresentazione.
Claudine de France ha introdotto
l’utile distinzione fra messa in scena e auto-messa in
scena (cfr. cap. 2, § 11), due momenti sempre complementari e
presenti nella fotografia e nel film di tipo documentario. La messa
in scena si riferisce a tutte le operazioni attivate dal realizzatore
della fotografia o del film per ottenere una rappresentazione del
soggetto o dei soggetti filmati. La scelta dell’inquadratura, dello
sfondo (nel caso della fotografia), della focale del1’obiettivo,
della pellicola ecc. costituiscono elementi che determinano la messa
in scena.
L’auto-messa in scena, viceversa,
indica le operazioni che i soggetti filmati compiono per
rappresentarsi “adeguatamente” davanti all’obiettivo.
Messa in scena e auto-messa in scena,
per continuare a usare la terminologia della de France, non sono
concetti separati che si riferiscono a operazioni autonome di
soggetti ego-centrati. Esiste una dialettica tra gli obiettivi del
l’autore dell’immagine e i soggetti da visualizzare; entrambi
hanno desideri e la situazione etnografica costituisce l’occasione
per realizzarli. Così come gli antropologi (o i fotografi e i
filmmakers) perseguono i propri scopi durante la ricerca sul campo,
anche gli informatori cercano di intervenire sugli antropologi per
dirigerli sul “set” del fieldwork. Recentemente
l’antropologia ha scoperto come gli informatori manipolino la
ricerca sul campo, utilizzando gli antropologi all’interno di
strategie tese a ottenere benefici dall’incontro etnografico. Gli
scopi degli informatori possono variare dall’intento di far
predominare nella comunità la propria versione della memoria
“collettiva” e dell’identità culturale locale al desiderio di
indurre modifiche dei regolamenti delle amministrazioni locali a
proprio vantaggio, al tentativo di ottenere finanziamenti per lo
sviluppo dell’economia locale oggi basata in gran parte sulla
valorizzazione e l’uso del patrimonio etnologico.
Ecco allora che il rapporto fra messa
in scena e auto-messa in scena si manifesta come una contrattazione
che ha come risultato la produzione di un documento negoziato.
E’ fondamentale, per il filmmaker etnografico, assumere come
principio guida questa consapevolezza della natura negoziata di ogni
documento prodotto nel corso delle interazioni sul campo di ricerca
per evitare di cadere nelle trappole del positivismo -- trappole
innescate ancora oggi. In un manuale sul film etnografico (Barbash,
Taylor, 1997) gli autori pongono una distinzione fra le research
footage, vale a dire le registrazioni cinematografiche o video
che gli antropologi spesso realizzano come “documentazione”
durante la ricerca sul campo, e le riprese progettate e prodotte per
realizzare un film etnografico. Le prime, secondo Barbash e Taylor,
sarebbero non strutturate, scientificamente orientate, destinate a
essere tradotte in parole scritte; le seconde, invece, sarebbero il
risultato di una selezione, strutturate e artisticamente organizzate.
Tale distinzione, a dire il vero, rianima il fantasma positivista
della capacità dell’immagine di riprodurre la realtà “quale
essa è” (il suo realismo), riproponendo la contrapposizione fra
scienza e arte, fra descrizione ed espressione, nonché fra
etnografia scritta (scientifica) e film etnografico (artistico),
distinzioni che l’antropologia contemporanea ha superato
riconoscendo la finzione presente in qualsiasi testo etnografico. 3. Il realismo etnografico come contratto fra i soggetti della comunicazione
Bettetini ha osservato che nel discorso
realistico (qual è quello etnografico) il referente «non sarebbe
affatto quello rappresentato iconicamente ne1l’immagine, ma quello
costruito dalla pratica discorsiva della società». In altre parole
il realismo del discorso etnografico si costruisce sulla base di una
tradizione di scrittura (il genere “etnografia” — scritta,
visiva) e della relazione con la realtà sociale che lo stesso
discorso costruisce autonomamente nel suo farsi. Da un lato, quindi,
abbiamo le regole di genere cui l’autore più o meno si adegua,
dall’altro la libertà di esprimere creativamente un rapporto fra
la realtà etnografica e il modo in cui è filmata. Il criterio di
verità è dettato quindi dalla coerenza della rappresentazione con
le regole che essa stessa si dà, sia pure dialogando — adeguandosi
o trasgredendo — con il genere cui vuole appartenere. Un
antropologo che produce un film etnografico vuole essere riconosciuto
come antropologo e non come autore di film di fantascienza,
specialmente se presenta il suo film in una rassegna di film
etnografici il cui pubblico è costituito da antropologi e non, per
esempio, dal fan club di Star Trek.
Quali sono le regole del genere
etnografico così come è praticato oggi? Ne citerò tre che mi
sembrano essenziali. 1) L’antropologo deve essere stato sul terreno
di ricerca, fra i protagonisti, e lì ha realizzato il suo film; 2) i
soggetti ripresi non sono attori di una fiction, ma soggetti
che, anche quando ricostruiscono un evento, hanno esperienza diretta,
biografica, dei fatti rappresentati; 3) i fatti rappresentati nel
film sono interpretati anche attraverso la voce dei nativi,i quali
contribuiscono attivamente alla rappresentazione audiovisiva; 4)
queste non sono regole “naturali” dell’antropologia, ma
convenzioni storiche che si sono affermate da Malinowski in poi e che
sono state trasferite al film etnografico. Si tratta, come abbiamo
visto, di regole che provengono dalla comunità scientifica degli
antropologi. Ma quali sono le attese dello spettatore?
Nella recensione a Tempus de
Baristas (1992), Philip Carl Salzman osserva che il film di
MacDougall non è una «etnografia piena e bilanciata», quale invece
è il film The Basques of Santazi (Granada Television,
Disappearing World Series), perché molti aspetti della vita dei
pastori sardi in quella zona dell’isola stati omessi. Salzman
conclude chiedendosi: «cosa si attende lo spettatore? Coloro che
vorrebbero una “piena ed equilibrata etnografia” stanno chiedendo
un diverso tipo di film, gestito e organizzato più consapevolmente,
più ricco di informazioni e dettagli sul contesto, ….Quegli altri
spettatori, affezionati alla svolta epistemologica, che antepongono
impatto e impressione rispetto a informazione e conoscenza, guardano
al film» aspettandosi un linguaggio più cinematografico che
linguisticamente orientato e più significati impliciti che
dichiarazioni dirette e evidenti alla John Marshall. .. «Un terzo
tipo di posizione dello spettatore, che è anche la mia, è che il
film etnografico non può fare il lavoro dell’etnografia scritta,
né sostituirla con uno spostamento di paradigma cinematografico, ma
serve di più a dare un volto umano all’etnografia. Tempus de
Baristas mostra l’umanità dei sardi dell’altopiano
introducendoci a particolari individui con le loro specifiche vite.
Pertanto per lo scopo più importante del film etnografico, Tempus de
Baristas è un successo». (Salzman, 1999, pp. 633-634).
Quella di Salzman è una lettura del film tutta centrata sulle
attese dello spettatore, attenta al senso così come costruito nella
fase di ricezione del testo.
Il riferimento che dobbiamo accogliere
è relativo alla difficoltà del film etnografico di soddisfare tutti
i tipi di spettatore che esso incontrerà nel corso delle sue
proiezioni. Inoltre, analizzando la recensione possiamo scorgere,
dietro paradigma spettatoriale, tre tipi di realismo.
Il primo tipo di spettatore, desideroso
di veder trasferita sul film la realtà sociale in tutta la sua
ricchezza e complessità, è un tipo di spettatore che potremo
definire “contenuto-centrato”. Per soddisfarne acriticamente le
esigenze, il rischio è di realizzare un film totalmente oggettivista
e privo di riferimenti al metodo e al punto di vista dal quale la
realtà è “illuminata”.
Il secondo modello di spettatore, che
Salzman qualifica come un «appassionato della svolta
epistemologica», è invece uno spettatore particolarmente attento
agli aspetti formali del testo, disponibile alla seduzione poetica e
a quel tipo di allusività che molto spesso riesce a rispettare la
“poli-identità” dei soggetti filmati presentandoli come
individui capaci di passare situazionalmente da una scelta all’altra,
da un’interpretazione all’altra, come giocatori che giocano su
diversi tavoli con strategie diverse, rendendo difficile in tal modo
la vita a chi voglia collocarli in qualche categoria ben definita una
volta per tutte.
Il terzo tipo di spettatore, così come
descritto da Salzman, sembra meno interessato al contenuto
etnografico, e dunque alle ragioni della differenza, al modo
specifico con cui le società si organizzano e le persone utilizzano
la cultura, che alla messa in rilievo di quegli aspetti umani che
rendono gli uomini simili fra loro: la fatica per il lavoro, l’ansia
per il futuro, il conflitto fra i desideri e le opportunità offerte
dal contesto famigliare e sociale, i rapporti fra le generazioni -
tutti temi trattati da Tempus de Baristas.
Il criterio di analisi adottato da
Salzman è di tipo pragmatico, focalizzato sulla dimensione sociale
del film che, secondo Casetti, insieme alla dimensione testuale e
alla dimensione mentale, costituisce uno dei tre fondamentali livelli
in cui il senso del film può essere analizzato. « In una parola, il
testo (filmico) è messo in relazione con il suo contesto.
c cioè con l”intorno” in cui si trova, o perlomeno intende,
operare» (Casetti, 2002, p. 278). A questo punto, avverte Casetti,
si presentano due «indirizzi di studio: quello che muove dal testo
al contesto, convinto che il discorso ha un grosso peso nel delineare
l’intorno in cui arriva a essere situato; e quello che muove dal
contesto al testo, convinto che le circostanze nelle quali appare un
discorso ne influenzino direttamente la forma e lo statuto.
Roger 0dm, negli anni Ottanta, ha visto
la costruzione del senso come un processo di negoziazione determinato
dal contesto in cui il film viene fruito. L’assunto di partenza è
che un film non possiede di per sé un senso: sono piuttosto
l’emittente e il recettore a dargli senso attraverso una serie di
procedure a loro disposizione nello spazio sociale in cui si trovano
a operare.
In conclusione, nella recensione di
Salzman possiamo riconoscere proprio questo secondo indirizzo
contesto-centrato della pragmatica. Un criterio per il quale abbiamo
visto propendere anche Sarah Pink nella sua discussione
sull’etnograficità del film; secondo la sua prospettiva, è il
contesto d’uso del film che ne stabilisce il livello di interesse
etnografico. Pertanto qualsiasi film può essere considerato
etnografico se fornisce informazioni per la ricerca etnografica.
Ity Ruby ricorda che la differenza più generale tra finzione e
non-finzione è una questione che riguarda il «contesto o la
metacomunicazione — cioè elementi che informano l’osservatore
sulla natura di ciò che stanno vedendo. Nella sua nuova forma, il
realismo della finzione è ancora dipendente dall’illusione del
verosimile, ma ora questa “impressione di realtà” si riferisce
non a una realtà oggettiva ma a una realtà socialmente costruita.
Di conseguenza, il film realista deve conformarsi allo spettatore, a
ciò che secondo lui costituisce la realtà. In tal modo siamo finiti
in una situazione apparentemente contraddittoria. Da un lato, il
supporto intellettuale per il concetto che lo scopo del film è
“riprodurre la realtà” — la mimesi — non è più
difendibile. E allo stesso tempo, il pubblico è “catturato”
dalla verosimiglianza delle immagini» (Ruby, 2000, pp. 276-277). «La
soluzione scrive Ruby — è creare un trompe l’oeil
etnografico per il film. La struttura del film The Ax Fight di
Timothy Asch è forse il miglior esempio di questa idea» (ivi, p.
277) Il trompe l’oeil viene apprezzato come abilità
dell’artista a creare un’illusione così intensa da procurare le
stesse sensazioni che si proverebbero dinanzi alla scena reale; il
trompe l’oeil è apprezzato proprio in quanto finzione,
costruzione, abilità tecnica dell’autore. «Il parallelo con il
filmmaking etnografico — scrive Ruby — è forte. .. Il filmmaker
etnografico deve contestualizzare l’effetto realistico del film
come una mera illusione, rendendo palesi le basi teoriche della
costruzione dell’immagine» (ivi, p. 278). Lo spettatore deve
diventare consapevole che sta guardando un film anche se si tratta di
fatti realmente accaduti, e allo stesso tempo non deve rinunciare al
piacere dell’illusione e della verosimiglianza. D’altra parte il
fascino del film consiste nella verosimiglianza, nel fatto che ci
mostra cose come se fossero reali e realmente presenti.
4. La complicità di stile e il cinema intertestuale
Il concetto di complicità di stile
(complicity of style) è proposto da David MacDougall in un
saggio pubblicato nel 1990 in Film as Ethnography, volume
curato da Peter Crawford e David Turton, e ripubblicato in
Transcultural Cinema, una raccolta di saggi dello studioso ed
etnocineasta australiano.
MacDougall comincia con il criticare
l’universalità del significato del film e della sua comprensione
totale, osservando che le convenzioni dominanti del film etnografico
possono rendere alcune società «accessibili, razionali e attrattive
per l’osservatore ma, applicate a una società con uno stile
culturale molto diverso possono rivelarsi abbastanza inadeguate e
disarticolate» e poco possono fare quelle contestualizzazioni e
spiegazioni che accompagnano il film prima o dopo la proiezione.
«L’incompatibilità culturale è più profondamente incorporata
nello stesso sistema di rappresentazione, che include la sua
tecnologia, e senza radicali modifiche, il risultato sarà sempre lo
stesso, che esso sia usato da un filmmaker del Primo o del Terzo o
Quarto Mondo, la maggior parte dei quali condividono una cultura
filmica globale» (MacDougall, 1998, p. 142). Peter Loizos individua
nelle interviste del film di Melissa Lewelin-Davies The Women ‘s
Olamal la struttura della tragedia greca con le tre unità di
tempo, spazio e persona.
MacDougall afferma che anche quando i
film etnografici non seguono le regole della drammaturgia classica
aristoteliana usano certe convenzioni che da essa derivano. E anche
se un film è impostato scientificamente con un commento
antropologico su temi economici o politici, finirà per dispiegare
una retorica visiva che rispecchia le attese dello spettatore
occidentale euro-americano relative alla causalità, alla cronologia
e al comportamento interpersonale. Utilizzerà il primo piano come
rivelatore del carattere e del mondo interiore di un personaggio, o
il montaggio parallelo come analogon visivo del conflitto (topos
narrativo occidentale), e come modalità di rappresentazione di
situazioni problematiche con due elementi narrativi (personaggi,
azioni, o situazioni) che finiranno per incontrarsi e collidere (ivi,
p. 144 ss.).
E tuttavia il modello del conflitto non
trova posto così facilmente nella cultura di altre società. «La
mia esperienza della società aborigena - scrive M Dougall — mi fa
pensare che essa resiste sistematicamente agli approcci basati sulla
struttura del conflitto e sulla maggior parte delle convenzioni
cinematografiche. .. Il conflitto è accuratamente lasciato dietro le
scene e portarlo fuori è considerato altamente pericoloso e lontano
dall’essere terapeutico. Le polemiche vengono sistematicamente
evitate e trattate attraverso parabole. Questo non significa che gli
Aborigeni non siano personalmente ambiziosi o litigiosi, ma il bene
pubblico sta nel costante rinforzo e conciliazione delle relazioni
personali. Si potrebbe anche dire che la forma più tipica dell’auto
aborigena è l’inscrizione piuttosto che la spiegazione. Un film
coerente con la cultura degli Aborigeni tenderebbe a essere più
elencativo che comparativo e può tipicamente consistere in
dimostrazioni di diritti sulla terra, conoscenza o altre proprietà
culturali. Per gli Aborigeni, mostrare è un atto sufficiente in se
stesso e può costituire una trasmissione di diritti. Quindi, in
questi termini, un film non ha bisogno di spiegare nulla né di
sviluppare una argomentazione o una analisi; la sua semplice
esistenza [ quanto film, n.d.a.] può, invece, potenzialmente essere
un’affermazione politica o culturale» (ivi, pp. 147-148).
In conclusione, secondo MacDougall il
film deve tener conto di queste interazioni fra culture diverse, in
primo luogo fra quella dei nativi e quella dei filmmaker, ma anche
fra quella dei nativi e il pubblico al quale il film sarà
proiettato.
Come aveva già sostenuto in Al di
là del cinema di osservazione, per MacDougall il punto di
partenza del film etnografico è l’incontro fra due culture e il
risultato è un ulteriore e «piuttosto speciale documento
culturale»; e poiché il film circolerà anche nella società dei
soggetti ripresi, esso deve diventare «più preciso, e forse anche
più modesto nei confronti di ciò che afferma» e deve, infine,
cominciare a guardare in due direzioni invece che una», affinché
produca un cinema intertestuale (intertextual cinema).
Le due poetiche del film etnografico
proposte da Ruby e MacDougall, quella del trompe l’oeil e
del cinema intertestuale, sembrano essere parzialmente in
conflitto. La prima ritiene che il film debba adeguarsi alle
aspettative del1o spettatore per coinvolgerlo sul piano del piacere
della visione, adottando uno stile — narrativamente e iconicamente
— realistico, per poi proporre contenuti interessanti dal punto di
vista antropologico. La seconda vede il film da un lato come
un’interfaccia verso la quale convergono molteplici punti di vista
sui fatti narrati, dall’altro prescrive la “complicità di stile”
con i punti di vista descritti, in modo che il film non risulti un
oggetto estraneo a coloro che hanno contribuito in massima parte a
realizzarlo. Opposta a Ruby, in questo senso, la visione di
MacDougall: mentre per il primo il film deve diventare complice dello
spettatore occidentale per comunicargli informazioni che altrimenti
non comprenderebbe tanto facilmente, per MacDougall esso deve
rispettare lo stile culturale di chi sta di fronte all’obiettivo.
Ma se poi il film deve essere intertestuale, cioè raccogliere punti
di vista differenti, sembra venire
a cadere l’idea della complicità di stile: con lo stile di
quale punto di vista dovrebbe infatti il film essere complice?
Possiamo intravedere nelle parole di MacDougall il prefigurarsi di
quella che sarà un’etnografia ipermediale; poiché i media più
adatti a contenere punti di vista diversi e materiali documentari
audiovisivi eterogenei e provenienti dalle fonti più disparate sono,
allo stato attuale, il cd-rom, il dvd, i linguaggi di Internet, i
cosiddetti new media.
Le due poetiche proposte pongono
qualche problema . La prima, quella di Jay Ruby, sembra spostare il
significato del film sul piano della organizzazione del contenuto. La
complicity of style, invece, rinvia al concetto di “stile
culturale” e ai tentativi della scuola di cultura e personalità,
in particolare della Benedict, di assegnare una specifica
configurazione culturale, un modello di cultura alle società. Si
ripropongono qui, allora, le critiche al relativismo culturale e alla
“scuola di cultura e personalità” rivolte alla
stereotipizzazione della cultura in modelli fissati dall’esterno,
alla riduzione della complessità sociale a un unico modello
culturale con la conseguenza di trascurare o desautorare l’individuo
del potere di agire creativamente e anche trasgressivamente
all’interno della propria società.
Ciò che va sottolineato è, in ogni caso, la difficoltà di
conciliare la ricerca di modalità visive vicine a soggetti ripresi
con la necessità di rendere visibile il lavoro semiotico
dell’autore, le sue scelte stilistiche e enunciative, rendendo
infine il testo godibile per gli spettatori occidentali.
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