11 febbraio 2014

CAMERA ETNOGRAFICA STORIE E TEORIE DI ANTROPOLOGIA VISUALE Parte Terza (3/6)


3. I soggetti del film


1. La scoperta dello spettatore

Nonostante Bettetini ed Eco abbiano affermato il carattere culturale della somiglianza iconica e l’importanza della competenza spettatoriale per interpretare un testo visivo come isomorfico al referente, l’approccio dei due studiosi sembra centrato essenzialmente sul lavoro semiotico del produttore delle immagini e quindi sul testo come produzione intenzionale di significato.
Un reale interesse per lo spettatore nasce solo quando, negli anni Settanta, il modello strutturalista — rappresentato da autori come Lévi-Strauss, Barthes, To dorov, Eco, Genette — viene incrinato da altri possibili approcci al film, in primo luogo da quello psicoanalitico.
Mentre gli strutturalisti analizzavano il testo (filmico o di altro tipo) come una forma autonoma rispondente a regole generate dal modello (culturale) da cui quel testo deriva, indipendentemente dall’autore che l’ha realizzata, con la psicoanalisi e il post-strutturalismo il testo viene osservato come il luogo in cui avvengono delle pratiche, dei processi di investimento simbolico e di costruzione processuale del significato. Con l’approccio psicoanalitico, «lo spettatore, inteso come soggetto desiderante, viene posto al centro dell’istituzione cinematografica.. In questa fase la ricerca si sposta da domande quali “Qual è la natura dei segni cinematografici e quali le leggi della loro combinazione?” e “Che cosa è un film?”, a interrogativi come “Che cosa vogliamo dal testo?” e “Qual è il nostro investimento spettatoriale in esso”. Analizzando gli effetti del cinema sullo spettatore, l’approccio psicoanalitico mette in evidenza la dimensione “metapsicologica” del cinema, ovvero le modalità di attivazione e regolamentazione del desiderio dello spettatore» (Stam, Burgoyne, Flitterman Lewis, 1999, p. 36). Il post-strutturalismo, di cui i teorici più importanti sono Jacques Derrida, definito anche decostruzionista, Louis Foucault, Jacques Lacan, Julia Kristeva, implica una critica dei concetti di segno stabile, di soggetto unitario, di identità e di verità» (ivi, p. 38).
Riconoscendo al fruitore del testo (lo spettatore, il lettore) un ruolo chiave nella produzione del senso, si pone la seguente questione: è il testo che costruisce il suo fruitore ideale, oppure è il fruitore che costruisce il testo nel corso della sua attività interpretativa?
Veijo Hietala individua due paradigmi teorici che tentano di fornire una risposta a tale questione:
il paradigma testuale, rappresentato dalle teorizzazioni di Baudry, Oudart e Metz,
e il paradigma contestuale sostenuto da studiosi di diversa formazione, quali Gadamer, Jauss, Hall.

In Francia, dove le teorie post-strutturaliste ebbero origine, la riflessione filmologica sviluppò alcune interessanti analisi che indagavano la questione del soggetto nel film.
Nei primi anni Settanta, Jean-Louis Baudry e Jean-Pierre Oudart, rispettivamente sulle pagine di Cinéthique e dei Cahiers du Cinéma, pubblicarono alcuni importanti saggi che individuavano nella camera obscura e nella prospettiva rinascimentale le invenzioni che istituivano il soggetto come focus dell’esperienza visiva.
Jean-Louis Baudry analizza il processo di produzione dell’immagine filmica e vede nell’apparecchiatura cinematografica uno strumento significante, non neutro, che possiede una sua “ideologia” direttamente discendente dalla prospettiva. Nella visione prospettica, è riconoscibile il luogo del soggetto osservatore, il punto di vista da cui la scena è osservata. Il cinema, dal momento che mette in sequenza una successione di immagini, sembrerebbe porsi fuori di una tale visione monolocale. La discontinuità delle immagini fotografiche che compongono la pellicola è poi cancellata dal meccanismo di proiezione che grazie alla persistenza retinica delle singole immagini/fotogramma produce l’illusione di continuità e movimento.
Come la fase dello specchio descritta da Lacan rappresenta per il bambino l’unificazione dei frammenti del corpo in una prima immagine dell’io cosi l’ego trascendentale riunisce i frammenti discontinui dei fenomeni, dei vissuti, in un senso organizzato. Baudry osserva infine che il cinema diventa strumento dell’ideologia dominante: esso crea «una fantasmatizzazione del soggetto» e «collabora con marcata efficacia alla conservazione dell’idealismo» e questo è possibile a condizione che «lo strumento stesso sia occultato, rimosso»: la «fantasmatizzazione del soggetto». cioè la sua cancellazione dalla scena della visione al fine di far apparire la visione come “naturale”, prodotta dallo stesso spettatore che dunque fantasmatizza il soggetto immaginando se stesso al suo posto, avviene attraverso l’occultamento dell’apparato tecnico che produce la visione.
In conclusione, per Baudry lo spettatore come soggetto della visione è costruito dal testo visivo che illusoriamente lo colloca come produttore del testo — soggetto trascendentale di un testo costruito per lui e da lui — occultando il processo di produzione e l’ideologia dell’apparato ottico di ripresa.
Jean Oudart, sulla scia di Baudry, sostiene che «nel sistema rappresentativo della pittura occidentale come in quello del cinema, sono simultaneamente ignorati 1) la figurazione (noi diremo l’effetto di realtà) in quanto prodotto di codici pittoriali specifici; 2) la rappresentazione che la costituisce come finzione includendovi lo spettatore (noi diremo l’effetto di reale). Per Oudart, che fonda la sua teoria sul concetto lacaniano di sutura (cfr. sotto) esemplificandola con Las Meninas (1656) di Velasquez, lo spettatore è inscritto nel testo visivo sotto la forma di un’assenza (manque). Come rivela Las Meninas, i testi visivi presuppongo un osservatore per il quale l’immagine è costruita.
In un saggio successivo, come il precedente pubblicato nei Cahiers du Cinéma, Oudart ribadisce la funzione del cinema come incarnazione dell’ideologia borghese intesa come «un discorso nel quale un soggetto (il soggetto del significante, in altre parole il soggetto della produzione, nella misura in cui il significante consiste in un prodotto economico, linguistico, ecc.) ha articolato la questione della sua produzione, del suo avvento simbolico, sul modo della rimozione, proprio della borghesia, come notava Marx, costituendosi come astorico» (Oudart, 1971b, p. 45).
Hietala (1996, p. 178) nota che il modello Baudry-Oudart è un adattamento per il cinema delle teorie neo-marxiste di Louis Althusser secondo il quale l’ideologia è «un sistema (che possiede la propria logica e il proprio rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, secondo i casi) dotate di un’esistenza e di una funzione storica nell’ambito di una società» (cit. in Tullio-Altan, 1971, p. 229).
Il terzo studioso che Hietala ascrive al paradigma testualista è il semiologo del cinema Christian Metz che, utilizzando una terminologia differente, giunge alle medesime conclusioni di Baudry e Oudart. Facendo riferimento alla distinzione storia/discorso del linguista Emile Benveniste -
dove con discorso si intende un atto comunicativo fra un parlante e un ascoltatore e l’intenzione del parlante di influenzare l’ascoltatore, e con storia il contenuto impersonale, Metz sostiene che il cinema tradizionale cancella le tracce del soggetto dell’enunciazione visiva per lasciare uno spazio che lo spettatore occu pa percependosi illusoriamente come il soggetto dell’enunciazione.
In sintesi il paradigma testuale presenta due fondamentali caratteristiche:
1) attribuisce all’apparato ottico del cinema (ma la tesi può essere facilmente trasferita anche alla fotografia) un significato ideologico di base dal quale non ci si può distaccare (Baudry);
2) attraverso meccanismi narrativi, gli effetti di reale (la rappresentazione secondo il canone della prospettiva e la narrazione) e gli effetti di realtà (la verosimiglianza degli “oggetti” rappresentati e delle relazioni fra di essi), istituisce l’osservatore come soggetto per cui la visione è costruita (Oudart). Hietala fa notare che la teoria di Baudry sugli “effetti ideologici dell’apparato di base”, per la quale nessun cinema è possibile al di fuori dell’idealismo e dell’ideologia borghese, è contraddetta dagli stessi post-strutturalisti, quando acclamano Eisenstein e il cinema russo degli anni Venti e Trenta come esempi di cinema anti-ideologico. E’ stato osservato anche come «questo scetticismo nella possibilità di sovvertire l’apparato non è senza correlazione con un certo declino e disfattismo della sinistra del periodo — i primi anni Settanta — durante il quale vennero formulate queste teorie.» (Stam, Burgoyne, Flitterman-Lewis, 1999, pp. 241-242).

A cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta comincia a diffondersi un approccio diverso all’analisi della ricezione del film. Da un lato le teorie della ricezione letteraria spostano l’attenzione sull’orizzonte di attesa del lettore (Jauss, 1982) come elemento fondamentale nell’interpretazione dei testi e sulla lettura come pratica creativa capace di fornire provvisoria coerenza al testo (cfr. Iser, 1987), dall’altro i teorici dell’ermeneutica come Gadamer riconoscono che il fruitore, sia esso uno studioso o un semplice lettore, si avvicina al testo portandosi dietro la sua cultura e i suoi pregiudizi e pertanto prima della comprensione del testo c’è una pre-comprensione da cui parte quell’attività interpretativa definita come circolo ermeneutico consistente nello stratificarsi della conoscenza a ogni successiva indagine e interpretazione dei testi (o fatti).
Hietala fa delle teorie di Stuart Hall (1980) sulla ricezione della televisione il punto centrale della prospettiva contestuale. Hall, insieme con altri studiosi del Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, ha affermato che gruppi sociali diversi danno un significato differente ai programmi televisivi, sebbene il testo veicoli un significato dominante, preferenziale. Uno spettatore, a seconda della sua appartenenza sociale, può accettare il significato proposto dall’autore del testo, può rigettarlo in toto o anche aggiungervi ulteriori connotazioni determinate dalle specifiche condizioni culturali producendo un’interpretazione negoziata.
Come osserva dunque Hietala, «mentre i testualisti hanno difeso la tesi che il fruitore è fermamente inscritto e posizionato dal testo, l’approccio contestualista suggerisce che il fruitore può anche rifiutare la posizione offerta… In altre parole, ciò che il testo (il film) costruisce è soltanto la posizione dello spettatore, che lo spettatore reale non è, ad ogni modo, obbligato a occupare» (1996, p. 182). Hietala evidenzia anche che nella teoria di Hall la questione del significato del testo non è posta in termini di comprensione, ma di approvazione o disapprovazione dei contenuti ideologici proposti. L’intelligibilità, la comprensione del testo, dei significati proposti dall’autore, è un’altra questione che innanzitutto non dipende dalla posizione del fruitore: un testo può essere compreso da molte posizioni di lettura.
L’antropologia visuale ha cominciato a interrogarsi sulla ricezione del film etnografico solo verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso con il convegno della Nordic Anthropological Film Association dal titolo The Construction of the Viewer (Crawford, Haistensson, 1996). Vanno rilevati però i precedenti contributi di Worth e Gross (1981) e di Wilton Martinez in Film as Ethnography, volume collettaneo curato da Peter Ian Crawford e David Turton (1992).
Worth e Gross proposero un modello basato su una serie di opposizioni: a) nonsegni-eventi/segni-eventi (il primo termine indica «quelle attività della vita quotidiana che non evocano l’uso di una strategia per determinare il loro significato» (Worth, Gross, cit, in Martinez, 1996, p. 72); b) la suddivisione dei segni-eventi in naturali e simbolici; e) l’opposizione fra “attribuzione” (di precomprensioni dell’osservatore) e “inferenza comunicativa” (del significato testuale) intesa come due tipi di interpretazione. Questo modello, osserva Martinez, «è evidentemente basato sull’assunzione che il reale (nonsegni-eventi) è trasparente e può essere direttamente conosciuto — esso sta anche alla base degli stili naturalisti e realisti nella rappresentazione etnografica» (ibidem). Il modello di Worth e Gross cerca di tenere conto di tutte quelle varianti che vanno dall’attribuzione ingenua di significato tramite la mera precomprensione del soggetto osservatore (il significato, in pratica, e ciò che l’osservatore già conosce dell’evento che osserva) alla interpretazione critica vera e propria del testo, anche attraverso la negoziazione dei significati. In sostanza il modello di Worth e Gross presuppone che lo spettatore possa decodificare il film “correttamente” e che tale decodifica sia veritiera solo quando i significati inferiti dallo spettatore corrispondono a quelli intenzionalmente trasmessi dall’autore. Si tratta del noto modello comunicativo semiotico-informazionale, dove un emittente codifica un messaggio che, trasmesso attraverso un canale, giunge a un destinatario che lo decodifica.
Nel saggio del 1992 Martinez dichiarava la necessità di abbandonare il modello testo-centrato e autore-centrato per porre il focus teorico sull’attività dello spettatore, «in quanto potente risorsa di produzione del senso nella costruzione della conoscenza antropologica». E se lo spettatore — Martinez pervenne a questi risultati attraverso una ricerca sulla ricezione del film da parte di studenti universitari all’interno di un corso base di antropologia alla University of Southern California — giunge a una “decodifica aberrante”, ciò avviene solo quando è il film a evocare sensazioni disgustose o a proporre un’immagine bizzarra e primitivizzante della cultura rappresentata.
Sempre nel 1992 appare, nel volume Film as Ethnography curato da Peter Crawford e David Turton, un saggio di Marcus Banks che propone un modello della comunicazione filmica molto vicino al modello informazionale emittente-messaggio-ricevente. Il modello di Banks è organizzato nei tre livelli “intenzione-evento-reazione” e intende spiegare come avviene l’attribuzione di etnograficità a un film documentario.
Intenzione evento reazione
Banks suggerisce di distinguere tra il film come oggetto (supporto di celluloide) e il film come concetto. Considerare il film come oggetto ci conduce a vedere il film come supporto sul quale è possibile trasferire la realtà filmata e considerare la ripresa cinematografica come “documentazione”: «questo approccio al film del tipo “documentazione” riguarda soltanto il livello di rappresentazione che in modo tra sparente rivela l’azione che ha avuto luogo di fronte alla macchina da presa e che è stata registrata dalla pellicola sensibile alla luce. Nel secondo approccio, quello del “film come cinema”, un ulteriore livello, quello dell’inquadratura cinematografica, si inserisce fra l’inquadratura trasparente della realtà e l’osservatore. Il livello cinematografico, che è negato o ignorato dal primo approccio, è quello in cui i processi tecnologici del film rivelano se stessi — il lavoro della macchina da presa, le luci, il suono, il missaggio, il montaggio — in breve tutte le trasformazioni che attraversano il film grezzo e la bruta “realtà” catturata da quel film prima che siano stati visti dall’osservatore. Mentre il primo approccio, il film come documento, è necessariamente limitato, il film come cinema (il secondo approccio) può svilupparsi in numerose direzioni: lungometraggi, documentari, film etnografici, documentari sceneggiati, film di animazione e via di seguito» (Banks, 1992, p. 118). Secondo Banks, se la nostra intenzione è di veicolare un significato etnografico, tenderemo a enfatizzare l’inquadratura come contenitore di “realtà” per evitare che criteri diversi da quello etnografico possano prevalere e porre in secondo piano l’antropologia; «questa è la posizione di Karl Heider e di Peter Fuchs e i suoi colleghi di Gottinga» (ivi, p. 119). Heider suggerisce di porre sempre al primo posto il contenuto etnografico rispetto alla estetica, mentre Fuchs e i colleghi di Gottinga evitano qualsiasi manipolazione della descrizione per non sovrappone all’inquadratura come contenitore l’inquadratura come concettualizzazione cinematografica della realtà (sulla scuola di Gottinga cfr. cap. 4).
Ma vi sono, nota Banks, anche filmmakers che «ritengono possibile veicolare l’intenzione etnografica attraverso il livello cinematografico del film»’ (ivi, pp. 119-120) e fra essi vengono indicati Peter Biella e Don Rundstrom, i quali descrivendo i loro film affermano di aver utilizzato il linguaggio filmico per produrre un’analisi antropologica del soggetto filmato.
Dal punto di vista dell’evento ripreso, il film può essere sempre etnografico, dal momento che quasi qualsiasi evento può essere oggetto di indagine antropologica, oltre al fatto che vi sono soggetti che tradizionalmente sono trattati dall’etnografia, come tutte le culture non occidentali. Naturalmente il modo di trattare l’evento, cioè lo stile e la metodologia con cui il film è realizzato, giocano un ruolo importante affinché il film sia riconosciuto come etnografico (ivi, pp 120-121).
Infine la reazione, cioè il modo in cui lo spettatore risponde al film. Un modo per stabilire l’etnograficità del film è osservare quali film sono recensiti, quali vengono accettati dai festival del film etnografico, quali film vengono inclusi nelle videoteche etnografiche. Ma, scrive Banks, ci sono due ordini di problemi riguardanti i criteri menzionati. In primo luogo vi possono essere altri fattori che intervengono mettendo in secondo piano le specificità del film, come favoritismi e limiti di budget. In secondo luogo, se un film si autodefinisce etnografico la sua etnograficità è accettata a priori. Se poi consideriamo che, come hanno mostrato i test di Martinez, film considerati etnografici hanno condotto a interpretazioni diverse dalle intenzioni dell’autore, allora l’idea che l’etnograficità del film dipenda dalla reazione del pubblico resta rafforzata (ivi, pp. 124-126). In conclusione, nonostante come antropologi tendiamo giustamente a collocare l’etnograficità del film allo stadio dell’intenzione piuttosto che a quello dell’evento o della reazione, essa si decide in tutti e tre i livelli della comunicazione (intenzione, evento e reazione) e in relazione allo stato dell’arte dell’etnografia i cui metodi sono cambiati e forse ancora si svilupperanno nel futuro (ivi, pp. 127-128).
Si può dire che i film abbiano una “storia di vita” che consiste nelle diverse interpretazioni accumulate nel corso del tempo. Les Maitres Fous di Jean Rouch, girato nel 1954 e proiettato per la prima volta al Musée de l’Homme nel 1955 per un pubblico di antropologi e intellettuali africani, fu all’inizio considerato razzista e ne fu proposta la distruzione. Rouch, invece, lavorò per orientare l’interpretazione su un’altra pista, innanzitutto anteponendo alle immagini un lungo testo esplicativo. Come scrive Paul Henley, l’autore, per rendere inoffensive le critiche «adottò la strategia di suggerire che se c’era qual cosa di scioccante o ripugnante nel film, ciò non doveva essere attribuito ai soggetti africani, ma piuttosto alla società coloniale in cui essi vivevano». Comincia così a diffondersi una interpretazione contro-egemonica” del film che in fondo descriverebbe una sorta di “terapia di gruppo” sviluppata come reazione al potere coloniale.
Ma dal 1977, osserva Henley, Rouch passa dall’interpretazione del rito come adattamento psicologico a quella del rito come “implicitamente rivoluzionario”. Tuttavia lo studioso britannico contesta questa interpretazione di Rouch, che sembrerebbe poco etnograficamente fondata, e mostra come i riti della setta Hauka non siano invenzioni causate dalla violenza della società coloniale, ma forme coerenti e in continuità con altre tradi zionali pratiche rituali della religione Songhay-Zerma (Henley, 2006).
Martinez osserva come negli studi letterari lo spostamento dalle teorie testo-centrate (formalismo, strutturalismo, New Criticism) alla teoria della ricezione (Jauss, Iser) e alle teorie del testo (Barthes, Eco) abbia prodotto una vera e propria rivoluzione che ha affidato al lettore un ruolo fondamentale nella produzione del significato (1992, p. 133). Martinez riprende in particolare le idee di Iser, secondo le quali il testo è una struttura schematica che va completata dal lettore nella contingenza di ogni lettura. Il punto debole della teoria della ricezione di Iser è costituito, secondo Martinez, dal fatto che il “liberalismo” di Iser vede la lettura come un’esperienza individuale, trascurando non solo il contesto storico e sociale in cui avviene la pratica del leggere — e dunque la consapevolezza che il “singolare” punto di vi sta del lettore sia, almeno in parte, culturalmente fondato — ma anche le intenzioni dell’autore e il contesto storico nel quale l’opera è stata prodotta. In opposizione a una tale prospettiva, Martinez pone le teorie del film che hanno alla base gli insegnamenti di Lacan. Come ricorda Martinez, secondo Lacan il soggetto umano è costituito dall’intersecazione di due ordini complementari: l’immaginario (identificazione, fantasia, dualismo) e il simbolico (la forza dell’ordine culturale, della legge e del discorso). Centrale nella teoria lacaniana della costituzione del soggetto è la fase dello specchio, vale a dire quando, all’età di sette-otto mesi il bambino che fino a quel momento si identificava con la madre immaginandosi in un corpo non distinto da essa, scopre di essere un soggetto separato, scopre l’esistenza dell’Altro, e da qui, attraverso la percezione di una mancanza si apre lo spazio dell’inconscio e del desiderio. «Questa prospettiva — scrive Martinez — offre una chiave per analizzare l’inconscio desiderio del “primitivo” e le rappresentazioni che ne facciamo come significante interculturale [ Lungo la storia del colonialismo occidentale, queste rappresentazioni dell’alterità erano cariche di immagini feticizzate e dualistiche del “primitivo” in quanto “presenza originaria” e “mancanza” di “civilizzazione”» (1992, p. 140). La teoria lacaniana della mancanza, porta con sé anche il concetto di sutura, operazione che il fruitore compie sullo spazio lasciato aperto dal testo, affinché tale “vuoto” sia colmato come se fosse la soddisfazione di un desiderio dello stesso fruitore. In realtà è il testo stesso che sutura le aperture offerte — mostrando per esempio nella prima inquadratura un oggetto e nella successiva la persona che lo guarda, oppure mostrandoci nella prima inquadratura qualcuno che parla rivolgendosi fuori campo e nella seguente, in controcampo, l’interlocutore. In questo gioco di aperture e suture, il testo è tanto più ideologico quanto più fa apparire come “naturali” e ovvie le suture di risposta alle aperture offerte; le suture infatti possono essere definite, come scrive Jacques Lacan (1964), “pseudo-identificazioni” o “congiunzioni dell’immaginario con il simbolico”. Ma, nel caso del testo, il simbolico proposto dall’autore (le modalità enunciative, culturali, etiche, narrative ecc.) è fatto coincidere con l’immaginario (i desideri) dello spettatore.
Dunque, tanto nella teoria della ricezione di Iser quanto nelle teorie di ispirazione lacaniana si può osservare l’attività di produzione di senso da parte del lo spettatore come riempimento o sutura di spazi lasciati vuoti dal testo: sul piano dell’inconscio in Lacan, narrativamente e ideologicamente in Iser, sul piano della rappresentazione/enunciazione in Oudart. Attraverso questo gioco di aperture e suture lo spettatore è continuamente interpellato dal film con la richiesta di partecipare alla sua ideologia, è lo spettatore a chiudere il discorso che il film ha lasciato aperto. E sta all’abilita dell’autore riuscire ad ampliare l’orizzonte d’attesa dello spettatore del film etnografico in modo che suturi in modo non stereotipato — per esempio in modo etnocentrico — le aperture che il film offre. Potremmo dire che ilfilmmaker etnografico, come qualsiasi altro antropologo “scrittuale”, dovrebbe far suo l’atteggiamento del traduttore benjami niano il quale deve piegare la propria lingua per riuscire a far comprendere il linguaggio (la cultura, i concetti) dell’Altro. Infatti lo spettatore dovrebbe comprendere la cultura filmata dal punto di vista dei nativi o, meglio ancora, dalla molteplicità dei punti di vista circolanti nella società descritta dal film.
Alla teoria della lettura individualizzante di Iser, Martinez oppone, oltre all’approccio psicoanalitico di Lacan, anche il concetto di comunità interpretativa proposto da Stanley Fish (1980). Al centro ditale interpretazione delle pratiche di lettura c’è l’idea che il lettore abbia tutto il potere sul testo. Appartenendo in genere a una comunità (per es. studenti, filmmakers, antropologi) caratterizzata da specifiche esigenze, scopi e strategie di lettura, il lettore eseguirebbe una vera e propria scrittura del testo. Martinez corregge il tiro e afferma, seguendo Jameson (1981), che sarebbe più preciso parlare di riscrittura e di revisione secondaria del testo da parte del lettore in conformità con il codice dominante di quest’ultimo. Detto nei termini dell’estetica della ricezione di Jauss (1988), la comunità interpretativa legge il testo secondo il proprio orizzonte d’attesa, un concetto questo che implica strutture storico- estetiche e convenzioni di genere, in gran parte inconsce, attraverso le quali i testi sono letti. L’orizzonte d’attesa è una struttura dinamica, capace di essere modificata dall’incontro con nuovi testi che ampliano la nostra competenza. Non dobbiamo però dimenticare che ciascun film va osservato e compreso in relazione allo stato dell’arte e dell’orizzonte d’attesa del suo pubblico nel momento in cui è stato prodotto e fruito. Studiare i film (e le etnografie) in correlazione al contesto storico in cui sono stati realizzati permette di evitare di continuare a concepire le culture e i popoli come società senza storia (Martinez, 1992, p. 144). Secondo Martinez, Jauss spesso le risposte del lettore al testo sono guidate da ragioni extra (i propri valori, sentimenti e attitudini) sovente connesse alla sua biografia e alla sua rete di relazioni. Si presenta allora più flessibile il concetto di struttura di sentimenti (structure of feeling) con il quale Raymond Williams (1977) intreccia principi storico-estetici e le attese spettatoriali con la pratica sociale all’interno di un contesto di relazioni di potere. La nozione di struttura di sentimenti descrive il modo di sentire, l’ethos, di un determinato gruppo sociale.
Negli anni Novanta del Novecento risorge il tema del la ricezione del film etnografico, e ciò a causa di una serie di motivi ben precisi che Martinez elenca così:
Primo, la critica dell’autorità etnografica e della rappresentazione lanciata dall’antropologia critica, postmodema e femminista insieme con i concetti di riflessività, dia logo e multivocalità.
Il secondo elemento è lo sfumare dei confini nella conoscenza istituzionalizzata e l’incremento dei contestati studi multidisciplinari della cultura.
In terzo luogo dobbiamo considerare l’impatto dei media “indigeni” e della diaspora e il numero sempre più vasto di pubblico e produttori subalterni e post coloniali.
Gli effetti incrociati di questi fattori apportano complesse implicazioni ed ha un grande significato storico e politico per la teoria e le pratiche in genere del mondo occidentale; in particolare esse sono ancora più rilevanti per il campo dell’antropologia visuale (Martinez, 1996, p. 69).
La ragione per cui l’antropologia visuale ha per tanto tempo trascurato la questione dello spettatore è stata, secondo Martinez, il dominio esercitato da quelle teorie che hanno posto nel testo il luogo del significato — una eredità del positivismo e dello strutturalismo — e da «un’eccessiva fiducia nella “veridicità” e “oggettività” del documentario etnografico» (ibidem). Una ulteriore ragione di tale ritardo sta nel fatto che i film etnografici non venivano proiettati ai soggetti filmati, sottraendo a questi ultimi la possibilità di valutare la correttezza delle rappresentazioni.

2. I tre soggetti della rappresentazione visuale

È evidente allora come nella costruzione del significato del film etnografico, o anche della fotografia, intervengano tre soggetti di cui bisogna tener conto per comprendere il senso di un film: l’autore, i soggetti ripresi e lo spettatore.
Si tratta di una consapevolezza che si è sviluppata nel corso della storia dell’antropologia quando ciascuno dei soggetti è stato di volta in volta la figura principale della rappresentazione. Se nel periodo dell’oggettivismo positivista l’autorità della rappresentazione era affidata al documento come riproduzione veritiera della realtà mostrata, e dunque ai soggetti ripresi che il documento riteneva poter trasferire fedelmente sul suo supporto, successivamente l’autorità della rappresentazione è passata nelle mani dell’etnografo che adottava il metodo dell’osservazione partecipante e comunicava al lettore dell’etnografia, tramite la sua esperienza diretta dell’alterità, la realtà della cultura osservata. Infine, una volta riconosciuto il potere manipolatorio e interpretativo del fruitore, sia esso spettatore o lettore, l’autorità sui significati del testo si è spostata sul destinatario della comunicazione, riconoscendone anche la pluralità. Nel passaggio dal documentalismo positivista all’osservazione partecipante e poi alla collaborazione abbiamo assistito alla sostituzione della misurazione e della classificazione con l’esperienza e la narrazione, per passare infine all’interpretazione. Questi spostamenti metodologici segnalano anche focalizzazioni diverse sui soggetti della comunicazione: la misurazione e la classificazione sono centrate sui soggetti documentati come se fossero oggetti; l’esperienza e la narrazione definiscono l’autore e il suo punto di vista, ma anche i soggetti filmati quando il film diventa spazio per una autorappresentazione o comunque per la conoscenza del punto di vista nativo; l’interpretazione è una attività del fruitore, il quale elabora, sulla base della propria competenza e dei propri desideri, un testo costruito da un autore in forma “aperta” proprio per prestarsi a letture diverse. Ovviamente, nella concreta pratica etnocinematografica o etnofotografica queste posture teorico-metodologiche si intersecano, rispondono a esigenze contemporanee di ricerca o possono essere ritestualizzate in forma critica e ironica. Per fare un esempio etnofotografico, il lavoro di Jorma Puranen (1999) è una ritestualizzazione di fotografie d’archivio conservate al Musée de l’Homme e prodotte da G. Roche nel corso della spedizione del principe Rolando Bonaparte (figlio di Napoleone) a Lapland. «Imaginary Homecoming — ha scritto Jorma Puranen — ha a che fare con la distanza temporale e spaziale. Per un verso, un museo collocato alla Piace du Tracadéro; per un altro, le terre sconfinate di Finnmarken in Norvegia. Il presente è sovrapposto all’anno 1884. Imaginary Homecoming tenta un dialogo tra il passato e il presente; tra due paesaggi e momenti storici, ma anche fra due culture. Per colmare questa distanza, ho provato a riportare quelle fotografie alla loro origine, ricollegando le rappresentazioni ai posti in cui ebbero origine e dai quali furono separate. Per completare questo metaforico ritorno, cominciai a rifotografare le immagini dei Sami» (dal sito web http:// www,finlit 99/puranen.htm). Le fotografie, poi furono stampate e incorniciate in modo da costruire un gioco di richiami fra le immagini di Roche e quelle di Puranen, fra il passato e il presente, fra lo sguardo colonialista antropometrico e quello “vicino” ai soggetti della fotografa finlandese. Elizabeth Edwards, che ha scritto a proposito del lavoro di Puranen, sostiene che le immagini «assumono un carattere metaforico dal momento che esse si spostano dallo spazio simbolico dell’appropriazione, l’archivio, incluse nella scrittura della storia di un altro popolo [ l’Occidente colonialista], allo spazio simbolico dell’appartenenza, essendo del e nel territorio [ terra dei Sami]. Imaginary Homecoming gioca con la citazione e la metafora, A un livello, crea una dichiarazione riparatoria in relazione alla marginalizzazione e alla diseguaglianza. A un altro livello, un racconto mitopoietico emerge dall’impegno spirituale con la terra e la gente dell’estremo nord, dal momento che la teatralità della performance di queste fotografie storiche le sposta dallo stadio dell’informazione, attraverso quello della rappresentazione, verso la contemplazione» (Edwards, 2001, p. 220).
Nulla che appartenga al testo in sé ci assicura che il film che stiamo vedendo riguardi fatti e persone reali; è il patto implicito tra l’autore e lo spettatore che determina l’appartenenza del film al genere documentario. Presentare una serie di film all’interno di una rassegna di film etnografico significa in qualche modo promettere allo spettatore che i film rispetteranno, almeno in parte, certe consolidate regole di genere: riguarderanno culture delle società etnologiche oppure culture tradizionali, i soggetti ripresi avranno voce nel film e sicuramente non ci saranno effetti speciali a proiettare il racconto in una dimensione onirica.
Ogni rappresentazione etnografica comporta l’inscrizione nel testo di tre tipi di relazioni: tra chi filma e chi è filmato, tra chi filma e lo spettatore, fra chi è filmato e lo spettatore (Crawford, Simonsen, 1992).
La relazione fra chi è filmato e lo spettatore è già implicita in fase di ripresa ed è incorporata nella relazione fra chi è filmato e la macchina da presa. Se quindi il documento etnografico raccolto sul campo è sempre un “documento contrattato”, esso si costituisce come tale in una relazione triadica, in cui all’etnografo e all’informatore si aggiunge l’ideale fruitore, spettatore o lettore che sia.
L’attuale stato dell’arte del film etnografico riconosce a questi tre soggetti - chi è ripreso, chi riprende e chi guarda il film - una loro parte nella determinazione dei significati della rappresentazione.
Claudine de France ha introdotto l’utile distinzione fra messa in scena e auto-messa in scena (cfr. cap. 2, § 11), due momenti sempre complementari e presenti nella fotografia e nel film di tipo documentario. La messa in scena si riferisce a tutte le operazioni attivate dal realizzatore della fotografia o del film per ottenere una rappresentazione del soggetto o dei soggetti filmati. La scelta dell’inquadratura, dello sfondo (nel caso della fotografia), della focale del1’obiettivo, della pellicola ecc. costituiscono elementi che determinano la messa in scena.
L’auto-messa in scena, viceversa, indica le operazioni che i soggetti filmati compiono per rappresentarsi “adeguatamente” davanti all’obiettivo.
Messa in scena e auto-messa in scena, per continuare a usare la terminologia della de France, non sono concetti separati che si riferiscono a operazioni autonome di soggetti ego-centrati. Esiste una dialettica tra gli obiettivi del l’autore dell’immagine e i soggetti da visualizzare; entrambi hanno desideri e la situazione etnografica costituisce l’occasione per realizzarli. Così come gli antropologi (o i fotografi e i filmmakers) perseguono i propri scopi durante la ricerca sul campo, anche gli informatori cercano di intervenire sugli antropologi per dirigerli sul “set” del fieldwork. Recentemente l’antropologia ha scoperto come gli informatori manipolino la ricerca sul campo, utilizzando gli antropologi all’interno di strategie tese a ottenere benefici dall’incontro etnografico. Gli scopi degli informatori possono variare dall’intento di far predominare nella comunità la propria versione della memoria “collettiva” e dell’identità culturale locale al desiderio di indurre modifiche dei regolamenti delle amministrazioni locali a proprio vantaggio, al tentativo di ottenere finanziamenti per lo sviluppo dell’economia locale oggi basata in gran parte sulla valorizzazione e l’uso del patrimonio etnologico.
Ecco allora che il rapporto fra messa in scena e auto-messa in scena si manifesta come una contrattazione che ha come risultato la produzione di un documento negoziato.
E’ fondamentale, per il filmmaker etnografico, assumere come principio guida questa consapevolezza della natura negoziata di ogni documento prodotto nel corso delle interazioni sul campo di ricerca per evitare di cadere nelle trappole del positivismo -- trappole innescate ancora oggi. In un manuale sul film etnografico (Barbash, Taylor, 1997) gli autori pongono una distinzione fra le research footage, vale a dire le registrazioni cinematografiche o video che gli antropologi spesso realizzano come “documentazione” durante la ricerca sul campo, e le riprese progettate e prodotte per realizzare un film etnografico. Le prime, secondo Barbash e Taylor, sarebbero non strutturate, scientificamente orientate, destinate a essere tradotte in parole scritte; le seconde, invece, sarebbero il risultato di una selezione, strutturate e artisticamente organizzate. Tale distinzione, a dire il vero, rianima il fantasma positivista della capacità dell’immagine di riprodurre la realtà “quale essa è” (il suo realismo), riproponendo la contrapposizione fra scienza e arte, fra descrizione ed espressione, nonché fra etnografia scritta (scientifica) e film etnografico (artistico), distinzioni che l’antropologia contemporanea ha superato riconoscendo la finzione presente in qualsiasi testo etnografico. 

3. Il realismo etnografico come contratto fra i soggetti della comunicazione

Bettetini ha osservato che nel discorso realistico (qual è quello etnografico) il referente «non sarebbe affatto quello rappresentato iconicamente ne1l’immagine, ma quello costruito dalla pratica discorsiva della società». In altre parole il realismo del discorso etnografico si costruisce sulla base di una tradizione di scrittura (il genere “etnografia” — scritta, visiva) e della relazione con la realtà sociale che lo stesso discorso costruisce autonomamente nel suo farsi. Da un lato, quindi, abbiamo le regole di genere cui l’autore più o meno si adegua, dall’altro la libertà di esprimere creativamente un rapporto fra la realtà etnografica e il modo in cui è filmata. Il criterio di verità è dettato quindi dalla coerenza della rappresentazione con le regole che essa stessa si dà, sia pure dialogando — adeguandosi o trasgredendo — con il genere cui vuole appartenere. Un antropologo che produce un film etnografico vuole essere riconosciuto come antropologo e non come autore di film di fantascienza, specialmente se presenta il suo film in una rassegna di film etnografici il cui pubblico è costituito da antropologi e non, per esempio, dal fan club di Star Trek.
Quali sono le regole del genere etnografico così come è praticato oggi? Ne citerò tre che mi sembrano essenziali. 1) L’antropologo deve essere stato sul terreno di ricerca, fra i protagonisti, e lì ha realizzato il suo film; 2) i soggetti ripresi non sono attori di una fiction, ma soggetti che, anche quando ricostruiscono un evento, hanno esperienza diretta, biografica, dei fatti rappresentati; 3) i fatti rappresentati nel film sono interpretati anche attraverso la voce dei nativi,i quali contribuiscono attivamente alla rappresentazione audiovisiva; 4) queste non sono regole “naturali” dell’antropologia, ma convenzioni storiche che si sono affermate da Malinowski in poi e che sono state trasferite al film etnografico. Si tratta, come abbiamo visto, di regole che provengono dalla comunità scientifica degli antropologi. Ma quali sono le attese dello spettatore?
Nella recensione a Tempus de Baristas (1992), Philip Carl Salzman osserva che il film di MacDougall non è una «etnografia piena e bilanciata», quale invece è il film The Basques of Santazi (Granada Television, Disappearing World Series), perché molti aspetti della vita dei pastori sardi in quella zona dell’isola stati omessi. Salzman conclude chiedendosi: «cosa si attende lo spettatore? Coloro che vorrebbero una “piena ed equilibrata etnografia” stanno chiedendo un diverso tipo di film, gestito e organizzato più consapevolmente, più ricco di informazioni e dettagli sul contesto, ….Quegli altri spettatori, affezionati alla svolta epistemologica, che antepongono impatto e impressione rispetto a informazione e conoscenza, guardano al film» aspettandosi un linguaggio più cinematografico che linguisticamente orientato e più significati impliciti che dichiarazioni dirette e evidenti alla John Marshall. .. «Un terzo tipo di posizione dello spettatore, che è anche la mia, è che il film etnografico non può fare il lavoro dell’etnografia scritta, né sostituirla con uno spostamento di paradigma cinematografico, ma serve di più a dare un volto umano all’etnografia. Tempus de Baristas mostra l’umanità dei sardi dell’altopiano introducendoci a particolari individui con le loro specifiche vite. Pertanto per lo scopo più importante del film etnografico, Tempus de Baristas è un successo». (Salzman, 1999, pp. 633-634).
Quella di Salzman è una lettura del film tutta centrata sulle attese dello spettatore, attenta al senso così come costruito nella fase di ricezione del testo.
Il riferimento che dobbiamo accogliere è relativo alla difficoltà del film etnografico di soddisfare tutti i tipi di spettatore che esso incontrerà nel corso delle sue proiezioni. Inoltre, analizzando la recensione possiamo scorgere, dietro paradigma spettatoriale, tre tipi di realismo.
Il primo tipo di spettatore, desideroso di veder trasferita sul film la realtà sociale in tutta la sua ricchezza e complessità, è un tipo di spettatore che potremo definire “contenuto-centrato”. Per soddisfarne acriticamente le esigenze, il rischio è di realizzare un film totalmente oggettivista e privo di riferimenti al metodo e al punto di vista dal quale la realtà è “illuminata”.
Il secondo modello di spettatore, che Salzman qualifica come un «appassionato della svolta epistemologica», è invece uno spettatore particolarmente attento agli aspetti formali del testo, disponibile alla seduzione poetica e a quel tipo di allusività che molto spesso riesce a rispettare la “poli-identità” dei soggetti filmati presentandoli come individui capaci di passare situazionalmente da una scelta all’altra, da un’interpretazione all’altra, come giocatori che giocano su diversi tavoli con strategie diverse, rendendo difficile in tal modo la vita a chi voglia collocarli in qualche categoria ben definita una volta per tutte.
Il terzo tipo di spettatore, così come descritto da Salzman, sembra meno interessato al contenuto etnografico, e dunque alle ragioni della differenza, al modo specifico con cui le società si organizzano e le persone utilizzano la cultura, che alla messa in rilievo di quegli aspetti umani che rendono gli uomini simili fra loro: la fatica per il lavoro, l’ansia per il futuro, il conflitto fra i desideri e le opportunità offerte dal contesto famigliare e sociale, i rapporti fra le generazioni - tutti temi trattati da Tempus de Baristas.
Il criterio di analisi adottato da Salzman è di tipo pragmatico, focalizzato sulla dimensione sociale del film che, secondo Casetti, insieme alla dimensione testuale e alla dimensione mentale, costituisce uno dei tre fondamentali livelli in cui il senso del film può essere analizzato. « In una parola, il testo (filmico) è messo in relazione con il suo contesto. c cioè con l”intorno” in cui si trova, o perlomeno intende, operare» (Casetti, 2002, p. 278). A questo punto, avverte Casetti, si presentano due «indirizzi di studio: quello che muove dal testo al contesto, convinto che il discorso ha un grosso peso nel delineare l’intorno in cui arriva a essere situato; e quello che muove dal contesto al testo, convinto che le circostanze nelle quali appare un discorso ne influenzino direttamente la forma e lo statuto.
Roger 0dm, negli anni Ottanta, ha visto la costruzione del senso come un processo di negoziazione determinato dal contesto in cui il film viene fruito. L’assunto di partenza è che un film non possiede di per sé un senso: sono piuttosto l’emittente e il recettore a dargli senso attraverso una serie di procedure a loro disposizione nello spazio sociale in cui si trovano a operare.
In conclusione, nella recensione di Salzman possiamo riconoscere proprio questo secondo indirizzo contesto-centrato della pragmatica. Un criterio per il quale abbiamo visto propendere anche Sarah Pink nella sua discussione sull’etnograficità del film; secondo la sua prospettiva, è il contesto d’uso del film che ne stabilisce il livello di interesse etnografico. Pertanto qualsiasi film può essere considerato etnografico se fornisce informazioni per la ricerca etnografica.
Ity Ruby ricorda che la differenza più generale tra finzione e non-finzione è una questione che riguarda il «contesto o la metacomunicazione — cioè elementi che informano l’osservatore sulla natura di ciò che stanno vedendo. Nella sua nuova forma, il realismo della finzione è ancora dipendente dall’illusione del verosimile, ma ora questa “impressione di realtà” si riferisce non a una realtà oggettiva ma a una realtà socialmente costruita. Di conseguenza, il film realista deve conformarsi allo spettatore, a ciò che secondo lui costituisce la realtà. In tal modo siamo finiti in una situazione apparentemente contraddittoria. Da un lato, il supporto intellettuale per il concetto che lo scopo del film è “riprodurre la realtà” — la mimesi — non è più difendibile. E allo stesso tempo, il pubblico è “catturato” dalla verosimiglianza delle immagini» (Ruby, 2000, pp. 276-277). «La soluzione scrive Ruby — è creare un trompe l’oeil etnografico per il film. La struttura del film The Ax Fight di Timothy Asch è forse il miglior esempio di questa idea» (ivi, p. 277) Il trompe l’oeil viene apprezzato come abilità dell’artista a creare un’illusione così intensa da procurare le stesse sensazioni che si proverebbero dinanzi alla scena reale; il trompe l’oeil è apprezzato proprio in quanto finzione, costruzione, abilità tecnica dell’autore. «Il parallelo con il filmmaking etnografico — scrive Ruby — è forte. .. Il filmmaker etnografico deve contestualizzare l’effetto realistico del film come una mera illusione, rendendo palesi le basi teoriche della costruzione dell’immagine» (ivi, p. 278). Lo spettatore deve diventare consapevole che sta guardando un film anche se si tratta di fatti realmente accaduti, e allo stesso tempo non deve rinunciare al piacere dell’illusione e della verosimiglianza. D’altra parte il fascino del film consiste nella verosimiglianza, nel fatto che ci mostra cose come se fossero reali e realmente presenti.


4. La complicità di stile e il cinema intertestuale

Il concetto di complicità di stile (complicity of style) è proposto da David MacDougall in un saggio pubblicato nel 1990 in Film as Ethnography, volume curato da Peter Crawford e David Turton, e ripubblicato in Transcultural Cinema, una raccolta di saggi dello studioso ed etnocineasta australiano.
MacDougall comincia con il criticare l’universalità del significato del film e della sua comprensione totale, osservando che le convenzioni dominanti del film etnografico possono rendere alcune società «accessibili, razionali e attrattive per l’osservatore ma, applicate a una società con uno stile culturale molto diverso possono rivelarsi abbastanza inadeguate e disarticolate» e poco possono fare quelle contestualizzazioni e spiegazioni che accompagnano il film prima o dopo la proiezione. «L’incompatibilità culturale è più profondamente incorporata nello stesso sistema di rappresentazione, che include la sua tecnologia, e senza radicali modifiche, il risultato sarà sempre lo stesso, che esso sia usato da un filmmaker del Primo o del Terzo o Quarto Mondo, la maggior parte dei quali condividono una cultura filmica globale» (MacDougall, 1998, p. 142). Peter Loizos individua nelle interviste del film di Melissa Lewelin-Davies The Women ‘s Olamal la struttura della tragedia greca con le tre unità di tempo, spazio e persona.
MacDougall afferma che anche quando i film etnografici non seguono le regole della drammaturgia classica aristoteliana usano certe convenzioni che da essa derivano. E anche se un film è impostato scientificamente con un commento antropologico su temi economici o politici, finirà per dispiegare una retorica visiva che rispecchia le attese dello spettatore occidentale euro-americano relative alla causalità, alla cronologia e al comportamento interpersonale. Utilizzerà il primo piano come rivelatore del carattere e del mondo interiore di un personaggio, o il montaggio parallelo come analogon visivo del conflitto (topos narrativo occidentale), e come modalità di rappresentazione di situazioni problematiche con due elementi narrativi (personaggi, azioni, o situazioni) che finiranno per incontrarsi e collidere (ivi, p. 144 ss.).
E tuttavia il modello del conflitto non trova posto così facilmente nella cultura di altre società. «La mia esperienza della società aborigena - scrive M Dougall — mi fa pensare che essa resiste sistematicamente agli approcci basati sulla struttura del conflitto e sulla maggior parte delle convenzioni cinematografiche. .. Il conflitto è accuratamente lasciato dietro le scene e portarlo fuori è considerato altamente pericoloso e lontano dall’essere terapeutico. Le polemiche vengono sistematicamente evitate e trattate attraverso parabole. Questo non significa che gli Aborigeni non siano personalmente ambiziosi o litigiosi, ma il bene pubblico sta nel costante rinforzo e conciliazione delle relazioni personali. Si potrebbe anche dire che la forma più tipica dell’auto aborigena è l’inscrizione piuttosto che la spiegazione. Un film coerente con la cultura degli Aborigeni tenderebbe a essere più elencativo che comparativo e può tipicamente consistere in dimostrazioni di diritti sulla terra, conoscenza o altre proprietà culturali. Per gli Aborigeni, mostrare è un atto sufficiente in se stesso e può costituire una trasmissione di diritti. Quindi, in questi termini, un film non ha bisogno di spiegare nulla né di sviluppare una argomentazione o una analisi; la sua semplice esistenza [ quanto film, n.d.a.] può, invece, potenzialmente essere un’affermazione politica o culturale» (ivi, pp. 147-148).
In conclusione, secondo MacDougall il film deve tener conto di queste interazioni fra culture diverse, in primo luogo fra quella dei nativi e quella dei filmmaker, ma anche fra quella dei nativi e il pubblico al quale il film sarà proiettato.
Come aveva già sostenuto in Al di là del cinema di osservazione, per MacDougall il punto di partenza del film etnografico è l’incontro fra due culture e il risultato è un ulteriore e «piuttosto speciale documento culturale»; e poiché il film circolerà anche nella società dei soggetti ripresi, esso deve diventare «più preciso, e forse anche più modesto nei confronti di ciò che afferma» e deve, infine, cominciare a guardare in due direzioni invece che una», affinché produca un cinema intertestuale (intertextual cinema).
Le due poetiche del film etnografico proposte da Ruby e MacDougall, quella del trompe l’oeil e del cinema intertestuale, sembrano essere parzialmente in conflitto. La prima ritiene che il film debba adeguarsi alle aspettative del1o spettatore per coinvolgerlo sul piano del piacere della visione, adottando uno stile — narrativamente e iconicamente — realistico, per poi proporre contenuti interessanti dal punto di vista antropologico. La seconda vede il film da un lato come un’interfaccia verso la quale convergono molteplici punti di vista sui fatti narrati, dall’altro prescrive la “complicità di stile” con i punti di vista descritti, in modo che il film non risulti un oggetto estraneo a coloro che hanno contribuito in massima parte a realizzarlo. Opposta a Ruby, in questo senso, la visione di MacDougall: mentre per il primo il film deve diventare complice dello spettatore occidentale per comunicargli informazioni che altrimenti non comprenderebbe tanto facilmente, per MacDougall esso deve rispettare lo stile culturale di chi sta di fronte all’obiettivo. Ma se poi il film deve essere intertestuale, cioè raccogliere punti di vista differenti, sembra venire
a cadere l’idea della complicità di stile: con lo stile di quale punto di vista dovrebbe infatti il film essere complice? Possiamo intravedere nelle parole di MacDougall il prefigurarsi di quella che sarà un’etnografia ipermediale; poiché i media più adatti a contenere punti di vista diversi e materiali documentari audiovisivi eterogenei e provenienti dalle fonti più disparate sono, allo stato attuale, il cd-rom, il dvd, i linguaggi di Internet, i cosiddetti new media.
Le due poetiche proposte pongono qualche problema . La prima, quella di Jay Ruby, sembra spostare il significato del film sul piano della organizzazione del contenuto. La complicity of style, invece, rinvia al concetto di “stile culturale” e ai tentativi della scuola di cultura e personalità, in particolare della Benedict, di assegnare una specifica configurazione culturale, un modello di cultura alle società. Si ripropongono qui, allora, le critiche al relativismo culturale e alla “scuola di cultura e personalità” rivolte alla stereotipizzazione della cultura in modelli fissati dall’esterno, alla riduzione della complessità sociale a un unico modello culturale con la conseguenza di trascurare o desautorare l’individuo del potere di agire creativamente e anche trasgressivamente all’interno della propria società.
Ciò che va sottolineato è, in ogni caso, la difficoltà di conciliare la ricerca di modalità visive vicine a soggetti ripresi con la necessità di rendere visibile il lavoro semiotico dell’autore, le sue scelte stilistiche e enunciative, rendendo infine il testo godibile per gli spettatori occidentali.

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