4. Osservare e documentare
1. Prima di Nanook
La data di nascita del film etnografico può essere fissata al 1898, anno in cui ebbe luogo la spedizione allo Stretto di Torres coordinata da William C. Haddon, il quale ritenne indispensabi1e imbarcare insieme ai vari strumenti del laboratorio antropologico anche una macchina da presa. Successivamente Haddon non esitò a suggerire a Baldwin Spencer in partenza per l’Australia di portare con sé tutto l’occorrente per effettuare riprese cinematografiche.
I
film di Haddon, quelli di Spencer, di Pöch e, prima ancora, le
cronofotografie etniche di Régnault, sono produzioni tutte
collocabili nel paradigma positivista, un atteggiamento visivo che
qualcuno, con scarso rispetto per la seria opera scientifica di
quegli studiosi, ha qualificato come “voyeuristico” e addirittura
“pornografico”. Ma, l’importanza dei film realizzati allo
Stretto di Torres sta, forse, nel loro valore attestativo: per la
prima volta l’antropologo poteva tornare in patria con documenti
inequivocabili sulla sua permanenza fra le popolazioni studiate. I
film, più delle fotografie, testimoniavano che l’antropologo era
stato “là” e incrementavano la sua autorità etnografica.
Si
trattava di riprese di breve durata, di impianto “teatrale” - le
macchine da presa erano molto pesanti e venivano collocate su un
cavalletto durante la ripresa -; dal punto di vista dello spettatore
di quel tempo, l’esperienza visiva da esse offerta non era troppo
differente da quella dei life groups.
Il
termine life group fu utilizzato per la prima volta da Franz
Boas a indicare le ricostruzioni in vetrina di indigeni al lavoro,
realizzati da abili artigiani che riproducevano le figure umane con
manichini realistici.
Ripensando
alle esperienze a cavallo fra la fine del secolo XIX e il primo
ventennio dei secolo XX, si potrebbe dire che il passaggio da uno
stile osservativo a uno stile partecipativo si era consumato nel
corso dei primi venticinque anni di storia del film etnografico,
passando dalle riprese etnocinematografiche di Haddon al celebre
Nanook of the North di Robert Fiaherty.
Il
film di Flaherty ha mostrato che lo stile e il metodo non sono
dipendenti dalla tecnologia disponibile. Prima di Flaherty, le
macchine da presa non erano dotate di una testata in grado di fare
agilmente panoramiche: la cinepresa era una sorta di macchina
fotografica che scattava fotografie in rapidissima sequenza tutte
nella stessa direzione. La testata giroscopica delle due macchine da
presa inventate da Carl Akeley nel 1916 e utilizzate da Flaherty
permetteva di panoramicare a destra o a sinistra e dal basso verso
l’alto o viceversa (Christopher, 2005 p, 424, nota 91).
Non sempre,
però, lo stile è indipendente dalla tecnologia. La forza di
quest’ultima può insinuarsi fino a condizionare inconsciamente il
filmmaker. E per esempio il caso di Jean Rouch che, pur passando da
una cinepresa 16 mm a molla, da ricaricare ogni 20 secondi, a una
cinepresa capace di girare per 3 minuti, ha conservato nel piano
sequenza la scansione per inquadrature cui era costretto con la
precedente macchina da presa, muovendo la macchina da un oggetto
d’attenzione all’altro ogni venti secondi circa (Paganini, 2006).In ogni caso, collaborativismo e camera partecipante, un binomio che contrassegna lo stile di Jean Rouch, non sono indissociabili. Si può, come fece Flaherty, collaborare con i nativi e allo stesso tempo descriverli come se fossero osservati a distanza.
Nanook introduce così alcune questioni sulle quali non si smette mai di discutere, quella del collaborativismo, quella della ricostruzione (staged authenticity) e quella della ri-presentazione (re-enactment).
Film, memoria, ricostruzione e autorappresentazione trovano un punto di convergenza e un campo di espressione negli indigenous videos e nei video locali, forme di autorappresentazione etnocinematografica che si sono sviluppate e diffuse negli ultimi due decenni – vd prox capitolo.
Eric
Barnouw ha scritto che «l’urgenza di fissare sul film la natura di
culture che stanno rapidamente scomparendo è stata perseguita anche
da antropologi, i quali hanno dato a quest’opera il nome di
etnografia di salvataggio (salvage ethonografy). Flaherty
stava svolgendo quest’opera per ragioni strettamente personali
piuttosto che per ragioni di studio, ma il risultato fu identico:
un’operazione romantica”, dal momento che non stava registrando
un modo di vivere attuale,
ma
uno filtrato attraverso le memorie di Nanook e della sua gente.
Inevitabilmente il film riflette la loro immagine della vita
tradizionale. Tuttavia una immagine di sé della gente può essere un
elemento cruciale nella loro cultura, e degno di essere registrato.
Gli antropologi, sebbene consapevoli della prospettiva distorta, la
studiano con cura. In effetti, è quello che ha fatto Flaherty»
(Barnouw, 1974, cit, in Ruby, 2000, p. 89). Ruby ricorda che questo
modo di rappresentare l’Altro prima dell’incontro con
l’Occidente, fissandolo in un tempo astorico, definito presente
etnografico.
(Ruby, 2000, p.
90). Ruby conclude la sua riflessione su Nanook osservando che
Flaherty ha avviato una tradizione di filmmaking partecipativo che è
poi continuata con il The Netsilik Eskimo Film Project di Asen
Balikci e con i film di Jean Rouch Petit à Petit, Jaguar,
Cocorico, Monsieur Poulet. E anche quell’atteggiamento di
«romantico attaccamento a un mondo primitivo immaginato» lo
ritroviamo oggi nei film di Robert Gardner e John Marshall. La
peculiarità di Flaherty è stata quella di combinare insieme le «due
tendenze dominanti nel cinema del suo tempo — gli episodici
“spaccati di vita” ripresi dai viaggiatori, che soddisfacevano il
desiderio di guardare un mondo esotico, e i racconti drammatici di
finzione».Anna Grimshaw coglie in un’affermazione di Flaherty una importante concettualizzazione della sua esperienza filmica con Nanook. Riferendosi alle riprese del 1926 andate perdute in un incendio, Flaherty scrive: «era un brutto film, era noioso era poco più che un film di viaggio. Avevo imparato a esplorare, ma non avevo imparato a rivelare». La distinzione fra esplorazione e rivelazione è fondamentale, afferma Grimshaw, nel cinema di Flaherty e altrettanto nell’antropologia di Malinowski. Tutti i film di Flaherty sono fondamentalmente statici e si distinguono per «la trama, la profondità o la struttura, piuttosto che per il movimento» (Grimshaw, 2001, p. 49), L’autore di Nanook costruisce, scrive Grimshaw, «una serie di fotografie in cui le persone e gli oggetti sono collocati all’interno di un paesaggio e le relazioni all’interno dell’inquadratura sono poste in primo piano su quelle che si estendono oltre.. Rifiutando la tecnica del montaggio, Flaherty mette in pratica ciò che Bazin chiama “l’unità spaziale di un evento”, e mostra “tutte le cose da dire senza spezzettare il mondo in piccoli frammenti”» (ivi, p. 50).
Un altro concetto chiave che Anna Grimshaw fa emergere dalle memor della moglie di Flaherty (Hubbard Flaherty, 1960), è quello di a-preconcettualità (non-preconception), con il quale si esprime un atteggiamento non prevaricatore e lo sforzo di non pre-interpretare ciò che si osserva, lasciando che l’evento appaia nella sua forma senza forzature. «La parole che ho scelto è “non-preconcezione”, un termine da esploratore. La non-preconcezione è la pre-condizione per la scoperta, perché è uno stato della mente. Quando non hai preconcetti, allora cominci a ricercare. Non c’è altro che bisogna fare. Cominci a esplorare. “Tutta l’arte” ha detto Robert Faherty, “è un modo di esplorare”» (Hubbard Flaherty, 1960)
Anna Grimshaw individua un’analoga retorica romantica anche nel lavoro di Malinowski, il cui progetto consisteva in «un ritorno all’esperienza piuttosto che in uno sviluppo di sempre più sofisticati saperi o tecnologie scientifici per la raccolta dei dati durante la ricerca sul campo… La visione era centrale per la nozione malinowskiana di indagine scientifica; ma, nell’innalzarla a nuova importanza come fonte di conoscenza sul mondo, egli cercò, come Flaherty, di recuperare la vista e di riportare l’occhio al suo originario stato d’innocenza» (Grimshaw, 2001, p. 52).
Anche l’approccio di Malinowski fu costruito sulla «distinzione fra esplorazione e rivelazione», scrive Grimshaw. Come Flaherty, il metodo di Malinowski prescrive una rimozione — impossibile, come rivelerà il diario pubblicato nel 1967 — della propria cultura e dei propri pregiudizi per percepire il punto di vista dell’altro da uno stato di innocenza (l’occhio innocente).
I testi di Malinowski, come i film di Flaherty, sono illusori, aperti solo apparentemente, ma, di fatto sono chiusi. I loro segreti sono accessibili solo agli inziati, a coloro che desiderano incontrare empaticamente il mondo descritto nel testo. Inoltre i mondi evocati dal cinema di Flaherty e dalle monografie di Malinowski sembrano essere stati “trovati” piuttosto che costruiti. Pertanto entrambe le forme di rappresentazione celebrano la totalità o integrità della vita nativa esistente all’interno di uno spazio artificialmente demarcato. La visione di Malinowski e di Flaherty comporta un rifiuto del montaggio, espressione formale di movimento, complessità e contraddizione del mondo del XX secolo. Lo sviluppo di Flaherty di una particolare estetica filmica costruita attorno alla trama piuttosto che al movimento, all’esperienza piuttosto che all’analisi, può essere visto come un tentativo di fissare l’idea di aura che circonda l’opera d’arte originale» (Grimshaw, 2001, p. 56).
2. Franz Boas e il film etnografico
Boas fu il primo ad usare la macchina da presa per raccogliere dati sul comportamento in modo da analizzarli alla moviola. La novità consisteva nel fatto che i comportamenti documentati con la macchina da presa erano ripresi nel loro ambiente naturale, non in laboratorio, sebbene al di fuori del loro tradizionale contesto comunicativo Questa sperimentazione fu effettuata da Boas verso la fine della sua carriera per studiare il movimento e il ritmo nelle danze Kwakiutl.
3. Margaret Mead e Gregory Bateson
Margaret Mead ha avuto un ruolo di primo piano per lo sviluppo e il riconoscimento dell’antropologia visuale come sottodisciplina di dignità pari ad altre nel più ampio campo di studi dell’antropologia culturale. Jay Ruby la de finisce la “madre” dell’antropologia visuale negli Stati Uniti (Ruby, 2001) Una data fatidica, che può segnare la nascita dell’antropologia visuale come subdisciplina, è il 1973, quando a Chicago ebbe luogo la International Conference of Visual Anthropology, sezione dedicata all’antropologia visuale all’interno del Congress on Ethnological and Anthropological Sciences, i cui atti furono pubblicati nel 1975 a cura di Paul Hockings nel noto volume Principles of VisualAnthropology (Hockings, 1995).
Nel corso della ricerca condotta a Bali tra il 1936 e il 1939 Margaret Mead e Gregory Bateson realizzarono decine di migliaia di fotografie e utilizzarono alcune migliaia di metri di pellicola cinematografica. Margaret Mead è considerata la massima esponente della scuola di cultura e personalità. L’antropologa, come il suo maestro Franz Boas i riteneva che fosse la cultura a determinare il comportamento sociale, non la natura biologica degli esseri umani. Secondo Marvin Harris (L ‘evoluzione del pensiero antropologico) la fotografia e il film furono utilizzati dalla Mead con l’intenzione (fallita) di provare la realtà del carattere configurazionale della cultura e non come prodotti autonomi della ricerca. Il libro Balinese Character. A Photographic Analysis fu per molti anni un tentativo ineguagliato di integrazione fra testo e fotografia, dove però l’immagine svolgeva un ruolo meramente illustrativo; era cioè diretta a confermare le tesi espresse attraverso la scrittura.
Il lavoro di Bateson e Mead sembra rientrare nel modello positivista della fotografia come dato oggettivo capace in sé di mostrare in modo trasparente la realtà. Le immagini tornano a essere utilizzate come documentò da studiare a tavolino in quanto parte integrante della ricerca antropologica: esse possono fissare e rivelare aspetti che l’occhio umano da solo non riesce a cogliere; inoltre permettono la comparazione. La fiducia di Margaret Mead nell’etnografia visuale, è fondata su due principali tesi: a) il realismo degli strumenti di registrazione cinefotografica può catturare l’ethos di una cultura, quegli “aspetti intangibili” che la caratterizzano e che difficilmente si possono tradurre nel linguaggio scritto; b) la capacità del film e della fotografia di fissare le forme culturali per renderle disponibili a successive analisi (cfr. Russell, 1999, p. 201).
Tanto Ruth Benedict che Margaret Mead usarono comparare le culture i dimostrare come la diversità del comportamento umano dipendesse dal contesto culturale in cui l’individuo era cresciuto e si era formato.
Piault (2000, pp. 119420) pone l’accento sulla ricerca di oggettività implicita nelle immagini di Margaret Mead, una oggettività necessaria affinché le immagini potessero essere utilizzate come testimonianze inoppugnabili, e cita un brano dove Bateson e Mead precisano le loro intenzioni e rifiutano l’idea di un uso della fotografia e del film a fini “documentari” «Ci siamo sforzati di afferrare ciò che accadeva normalmente spontaneamente, invece di decidere seguendo delle regole prestabilite e di ottenere successivamente che i Balinesi corrispondessero a questi comportimenti nel contesto appropriato» (Bateson, Mead, 1942, p. 49). Piault osserva che il commento parlato nel film di Bateson — pensiamo per esempio a Trance and Dancce in Bali — non aggiunge nulla a ciò che le immagini già mostrano, come se volesse ridurne la polisemia (la possibilità di interpretazioni diverse) e guidare lo spettatore verso un significato essenziale e unico. «Questo processo di enfatizzazione invade letteralmente l’immagine: non lascia tregua all’attenzione (la mantiene sempre impegnata su un’unica direzione interpretativa). L’oggetto, illusoriamente sottomesso all’indagine attraverso l’immagine è in effetti già doppiamente interpretato, dall’inquadratura stessa e da un commento che orienta sistematicamente lo sguardo con il rischio di accecarlo.
L’intenzione enunciativa è talmente forte,la densità della parola talmente alta che, paradossalmente l’attenzione è saturata e improvvisamente l’immagine quasi riprende la sua autonomia. Allora, al di là dell’osservazione di laboratorio, appare una sensibilità che percepisce e vede, si lascia condurre da movimenti e gesti, perde la sequenza delle azioni messe in prospettiva analitica e ritrova a un tratto il suo intento. Bisogna fare l’esperienza di guardare le immagini di Bateson eliminando il commento della Mead. Tale discorso attraverso le immagini va collocato, dice Piault, in un momento in cui l’antropologia tentava di guadagnarsi un posto fra le scienze “rispettabili” attraverso la produzione di ingenti quantità di materiali di ricerca. Una direzione che la stessa Margaret Mead correggerà riconoscendo l’importanza di osservare il comportamento non verbale prima ancora di codificarlo e concettualizzarlo con la parola.
Con Mead e Bateson, secondo Marc Piault, ritorna nell’antropologia visuale la tendenza alla descrizione, che insieme alla narrazione costituisce uno dei due principali atteggiamenti nei confronti dell’immagine (ivi, p. 119)
4. Il cinema diretto
Quasi
contemporaneamente, negli anni Sessanta, in Francia e negli Stati
Uniti emersero due scuole documentaristiche sensibili ai cambiamenti
permessi dalle nuove tecnologie. I principi ispiratori della prima
possono essere sintetizzati con le parole di Roberto Nepoti: «è
cinema diretto quello che pretende di cogliere una realtà autonoma
(non ancora presa in un immaginario sociale) e autosignificante, che
il cinema sarebbe in grado di riprodurre e restituire senza
mediazioni di senso» (Nepoti, 1988, p. 91). Si tratta, in questo
caso, di un perfezionamento in senso oggettivista e positivista
dell’approccio documentalista, volto a catturare la realtà e a
fissarne l’essenza nel documento cinematografico, aggiungendo un
senso di presenza nei fatti che il cinema precedente non riusciva a
produrre, simulando l’assenza del filmmaker e omettendo le
relazioni che necessariamente questi intrattiene sul campo/set.
Questo
approccio è stato chiamato cinema diretto, con termine
proposto d Mario Ruspoli da 1963, oppure cinéma verité,
secondo Jean Mitry.
5. Il film uniconcettuale
In Germania, nel 1956, viene fondato l’Institut für den Wissenschaftljchen Film (Istituto per il Film Scientifico, Iwf ). Obiettivo dell’Iwf era la creazione di un grande catalogo di film realizzati con ben precise regole affinché fossero sufficientemente simili nella forma per poter essere comparati. Pertanto il film doveva essere uniconcettuale (single-concept film), cioè focalizzato su una sola unità tematica nella quale l’azione fosse predominante; «potevano essere usate solo le riprese che mostravano persone agire come se la macchina da presa non fosse stata lì. Se l’uomo che stava tessendo un tappeto avesse alzato la testa e guardato in macchina, quella ripresa sarebbe stata buttata!
6. Il documentarismo informato
Nel suo libro Anthropologie et Cinéma, Piault (2000) distingue tra documentarismo e documentarismo informato: «Il documentarismo sarebbe un tentativo per trasmettere dati appoggiandosi a una concezione del reale come di rettamente catturabile dall’immagine, semplice operazione di trasferimento. in qualche modo un compattamento di tre dimensioni in due dimensioni facilmente trasferibili e riducibili. Il documentarismo si fonda su due a priori: c’è un oggetto e c’è un buon modo di guardare e dunque di comprendere quest’oggetto. Il documentarismo informato, invece, colloca i dati riguardanti i modi che gli uomini hanno di costruire e vivere le loro società nella prospettiva di uno sguardo particolare e in quella di relazioni suggerite dagli stessi dati.» (ivi, pp. 94-95), Il criterio proposto da Piault suggerisce, per quanto riguarda il documentarismo, non solo un riferimento diretto all’oggettivismo positivista e all’idea di poter duplicare la realtà nel documento, esponendola “così com’è” senza intervento del produttore, ma anche a uno stile estetizzante privo di problematizzazione della realtà.
Il documentarismo informato suggerisce l’idea di un fim che presenti allo spettatore tanto diversi punti di vista sulla realtà filmata, quinto un punto di vista autoriale preciso e capace di leggere la realtà al di sotto delle apparenze o, ancora, di presentare il punto di vista di un “gruppo”, come quello dei minatori di Borinage. Si tratta evidentemente, di scelte stilistiche e metodologiche non commensurabili fra loro e allora, con “documentarismo informato” Piault sembra essenzialmente intendere un metodo etnocinematografico che eviti l’ingenuo oggettivismo positivista secondo cui la macchina da presa è capace di riprodurre la realtà “quale essa è”.
7. MacDougall e il cinema d’osservazione
Nel 1975 David MacDougall pubblicò un importante saggio dal titolo Beyond the Observational Cinema dove metteva a fuoco lo statuto “osservativo” del documentario etnografico criticando la tendenza a evitare il contatto fra soggetti filmati e filmmaker.
Quando si tratta di scene corali, in cui sono coinvolti molti partecipanti, risulta facile per il filmmaker restare inosservato, ma quando i protagonisti del film sono in numero ridotto il filmmaker non può evitare il contatto, e allora diventa importante far diventare familiare la presenza del cineasta e della macchina da presa, risultato facilmente conseguibile grazie alle dimensioni ridotte delle cinepres
Il fine del cinema di osservazione è chiaramente quello di riprendere quegli avvenimenti che sarebbero accaduti anche se il regista non fosse stato presente» (ivi, p. 90).
Questa ultima osservazione, se vogliamo ingenua — riprendere gli eventi come se il regista non ci fosse (lo stile fly on the wall) —, è corretta dalla consapevolezza che «questo sforzo che il regista fa per estraniarsi dalla scena, lo porta ad assumere un atteggiamento passivo mentre la partecipazione attiva con i suoi soggetti presuppone uno stato psichico totalmente diverso» (ivi, p. 91).
Questo tipo di approccio alla realtà etnografica, in cui il filmmaker osserva a distanza, costruisce un tipo di spettatore che osserva la realtà con gli occhi del filmmaker: «osserviamo i soggetti del film senza essere visti, nella certezza che non possono interagire con noi. Ne consegue la nostra impossibilità ad attraversare lo schermo e incidere sulla loro esistenza, sicché coesistono in noi l’illusione del contatto diretto e la coscienza di un limite invalicabile .Se l’obiettivo di un film etno grafico si riduce alla raccolta di una serie di dati, allora non è necessario fare dei veri e propri film. Ma ci si può limitare a delle riprese su cui basare poi gli studi futuri» (ivi, p. 92).
La prospettiva del cinema d’osservazione non è sbagliata, «ma è meno interessante dell’analisi delle situazioni di fronte a cui ci si trova. La presenza di una macchina da presa, usata dal portatore di una cultura in un mondo completamente diverso dal suo, è un evento così straordinario che la ricerca dell’isolamento e dell’invisibilità sono prive di significato. Nessun film etnografico può essere in fatti solo una registrazione dei modi di vita di una popolazione, ma è invece sempre la registrazione di un incontro tra due culture. Se si vogliono superare i limiti imposti dalla visione idealistica che ha dominato l’antropologia tradizionale bisogna allora decidersi a entrare in contatto con le realtà che si incontrano» (ivi, p. 94). Bisogna andare dunque, sostiene MacDougall in questo saggio del 1975, oltre il cinema d’osservazione e praticare un cinema di partecipazione, il cui precursore è stato Robert Flaherty con i suoi film Nanook e Moana, e che trova in Jean Rouch il cineasta che fm dagli anni Cinquanta applica questo me todo consapevolmente. Nel cinema di partecipazione i soggetti filmati diventano entità consapevoli della natura rappresentativa del film; essi possono addirittura recitare una parte come nel film Jaguar di Jean Rouch, e così il filmmaker, conservando comunque il suo progetto iniziale, «accresce il valore degli eventi ripresi, come prova di ciò che si era prefisso di dimostrare. Dando accesso nel film ai suoi soggetti, egli riesce a raccogliere un numero di informazioni e di chiarimenti maggiori sulla loro vita ed è grazie a un simile scambio che il film può divenire un riflesso del modo in cui le popolazioni riprese percepiscono la realtà che li circonda».
Questo brano mostra chiaramente come la partecipazione sia, per Mac Dougall, subordinata al metodo e alle tesi che il filmmaker intende dimostrare — siamo in questo caso nel campo delle poetiche soggettivate (cfr. cap. 6) e in ogni caso strumentale al cinema d’osservazione.
E’ rilevabile inoltre una contraddizione: come si possono infatti conciliare una visualizzazione della realtà diretta a descrivere «ciò che il filmmaker si era prefisso di dimostrare» e il fatto che il film debba essere «un riflesso del modo in cui le popolazioni riprese percepiscono la realtà»? Se intendiamo questa “bifocalità”, questo sovrapporsi di due sguardi, quello del filmmaker e quello dei nativi, come un processo capace anche di contraddire le tesi che il filmaker vuole dimostrare, allora la pratica del filmare diventa un processo di conoscenza in fieri e si configura come un’esperienza — ecco che ci approssimiamo alla partecipazione come intesa da Jean Rouch.
Eppure, nella corrente pratica etnocinematografica MacDougall sembra poco coinvolto nella relazione con i soggetti che filma e spesso si fa accompagnare da un interprete per dialogare con loro. Da questo approccio deriva l’uso di riprese lunghe: una necessità, più che una scelta, dal momento che il filmmaker non può preventivare la sua azione basandosi su ciò che i soggetti filmati stanno dicendo. Allo stesso tempo la ripresa lunga offre ai soggetti uno spazio per l’autorappresentazione. Per distingue re questo atteggiamento da quello più direttamente aperto all’esperienza di autori come Rouch e Minh-Ha, si potrebbe definire, questo di MacDougall, cinema di interazione per differenziano dal vero e proprio cinema di partecipa zione quale è stato praticato da Jean Rouch.
Non c’è dubbio che MacDougall interagisca con i soggetti, ma non sembra esserci partecipazione né collaborazione, e così l’interazione più che altro resta un espediente attraverso il quale ottimizzare l’osservazione.
il racconto del soggetto è spesso più importante di quello del filmmaker» (Mac Dougall, 1998, p. 156).
8. La poetica della contemplazione nel cinema di David MacDougall
Il cinema d’osservazione sembra, così, ben radicato nel paradigma positivista. La macchina da presa, in molti film di MacDougall punta il suo obiettivo verso la situazione e attende che qualcosa accada. L’autore finge di non esserci, sta a guardare.
In questo film, i soggetti filmati parlano rivolgendosi all’interprete, e questo sottolinea il desiderio del filmmaker di collocarsi in una zona d’ombra: egli se ne sta in disparte, non fa esperienza dell’Altro come farebbe Jean Rouch.
Non potendo comprendere, perché non conosce la lingua, può invece contemplare, termine che ci rinvia a quell’atteggiamento romantico di osservazione, della natura per esempio, alla ricerca di invisibili legami fra le cose terrene e soprannaturali (in senso lato), fra il particolare e l’universale. Contemplare e contemplazione provengono dai termini latini contemplari e contemplatio, entrambi derivati di templum (= spazio circoscritto per l’osservazione del volo degli uccelli [a fini augurali, aruspicini]) Templum è, insomma, il “perimetro ritagliato” di terra (o di cielo) dal quale (o entro il quale) si osserva il volo degli uccelli, per predire su questa base il futuro secondo una pratica di origine etrusca. Il circoscrivere la propria attenzione, vale a dire l’inquadrare, nel rettangolo in cui i soggetti filmati alla fine restano chiusi è un modo per aspettare — da qui la sensazione di immobilità — che il senso emerga “naturalmente”. Questo atteggiamento osservativo tipico di MacDougall è stato interpretato come una sua «sensibilità particolare all’ascolto» e il «distacco osservativo [ diventa discrezione e si fonde con un senso di empatia che si comunica allo spettatore» (Marazzi, 2002, p. 118). Anche se MacDougall ha scritto che una delle strutture dominanti del cinema d’osservazione è la «logica della conversazione» (MacDougall, 1998, p. 157), occupare una posizione defilata, come starsene in disparte mentre le cose “accadono”, talvolta è più una necessità che una libera scelta, poiché senza la conoscenza del la lingua è impossibile interagire consapevolmente con le persone che vogliamo descrivere.
Un tale approccio lascia la gestione dell’inquadratura (apparente mente) nelle mani dei soggetti filmati e apre il film all’autorappresentazione e a una interpretazione da parte dello spettatore libera da rigide indicazioni del filmmaker. MacDougail osserva che «il filmmaker non può essere la persona migliore per decidere per lo spettatore i termini in cui il film deve essere letto, Essi devono essere trovati nei film stesso».
Sebbene, una volta finito il film, noi possiamo osservare e ascoltare ciò che in A Wife among Wives i nativi dicono quando dialogano fra loro e con l’interprete, grazie anche ai sottotitoli, dell’atteggiamento contemplativo di MacDougall il film conserva ovviamente la traccia, tanto che potremmo parlare, in questo caso, non di cinema d’osservazione ma di cinema di contemplazione, concetto nel quale mi sembra di poter condensare la poetica etnocinematografica di MacDougall.
Ciò non ha impedito a MacDougall di restituirci delle etnografie complesse e sensorialmente dense, come i tre film della Turkana Conversations Trilogy, un’antropologia sociale in cui si intrecciano i temi della poliginia, della tradizione, della parentela, del pastoralismo.
MacDougall è stato fra i primi a difendere il film etnografico per le sue potenzialità di rappresentare, meglio della scrittura, l’esperienza sensoriale. «La rappresentazione visiva esprime facilmente il comportamento emotivo esteriorizzato e gli indizi visivi legati all’identità che la descrizione scritta esprime solo con qualche difficoltà» (MacDougall, 1998, p. 257).
Lo studioso e filmmaker australiano giunge a proporre uno specifico campo di studi antropologico, gli experiential studies, che potrebbe essere più ampiamente definito come antropologia della coscienza — che studierebbe «il flusso di coscienza nella vita quotidiana, quella mistura di esperienza sensoriale e cognitiva che la coscienza percepisce come un campo integrato» (ivi, p. 272)
Ma, il punto fondamentale resta la centralità del dialogo e della conversazione come luoghi in cui si costruisce la relazione intersoggettiva, pur riconoscendo alla condivisione sensoriale — per esempio nelle situazioni di commensalità dove l’antropologo condivide sapori, odori, sensazioni tattili — un ruolo chiave nel creare un ponte di comunicazione verso l’altro.
La capacità del film di rappresentare l’esperienza sensoriale e il mondo interiore delle persone, come qualsiasi altra cosa, non è una caratteristica dello strumento in sé ma una conseguenza della qualità della relazione umana esistente fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del film. Se così non fosse, se la relazione umana fosse irrilevante, si potrebbe tornare a riprendere gli altri nella loro diversità osservandoli da lontano e zoomando sui loro volti, come se fossero animali in un documentario naturalistico. Dunque, affermare la priorità del dialogo esprime la centralità dell’etnografia la cui identità scientifica è fondata sul metodo dialogico, oltre che sull’osservazione partecipante. AI film non resta che visualizzare i significati emersi nel corso della vita sociale filmata, della relazione con l’etnocineasta e il ruolo che i sensi hanno nella loro costruzione.
9. Il cinema d’osservazione come etnografia pratica
Paul Henley ha esplicitamente affermato che: «il termine “cinema d’osservazione” è stato applicato a una varietà di diverse pratiche di filmmaking documentaristico, alcune di esse basate su principi e strategie reciprocamente contraddittori. A un estremo il termine è stato usato per indicare il filmare senza nessun coinvolgimento con i soggetti, i quali sono ripresi a distanza, come se si fosse su una torre di controllo, allo scopo di conservare una supposta oggettività “scientifica”. All’estremo opposto, può essere usato da documentari televisivi con un po’ più di riprese lunghe, un po’ meno commento e un pò meno interviste di quanto normalmente si veda in tali produzioni» (Henley, 2004, p. 109).
Così come si insegnava alla fine degli anni Sessanta all’Ethnographic Film Training Program della University of California di Los Angeles (Ucla) il cinema d’osservazione si basa sull’idea che con «la rigorosa osservazione dei dettagli delle interazioni e degli eventi sociali, è possibile giungere a signifi cative intuizioni, non solo per quanto riguarda le peculiari e personali motivazioni dei soggetti, ma anche per le più ampie realtà sociali e culturali del loro mondo sociale. Il filmmaking fondato su tale processo di osservazione dà particolare rilievo al seguire le azioni dei soggetti e a registrarle nella loro interezza, piuttosto che a dirigerle secondo un progetto culturale o estetico preconcepito. Tuttavia, molto importante, rispetto all’enfasi sull’osservazione, è anche l’intenzione di essere partecipativi, nel senso che l’osservazione deve idealmente avere luogo all’interno di una relazione di comprensione e rispetto del tipo che può sorgere solo quando il filmmaker ha attivamente partecipato al mondo dei soggetti per un lungo periodo di tempo» (ibidem).
Un tale tipo di metodo etnocinematografico, nonostante tutte le sue varianti, presenta fortissime analogie con l’osservazione partecipante, il metodo antropologico per eccellenza: l’assenza di giudizi morali sulle persone “osservate”, l’interesse per le vite quotidiane di persone ordinarie, l’indifferenza per il “bello” stile della descrizione etnografica, sono elementi comuni fra coloro che fanno “cinema d’osservazione”.
il film è uno strumento di ricerca fondamentale: «il potenziale del film d’osservazione [ è quello di] rendere gli aspetti soggettivi e incorpati dell’esperienza umana così frequentemente omessi dai resoconti scritti» (ivi, p. 112). Ecco allora che il film etnografico è una vera e propria «etnografia pratica», come scrive Henley; e allora, innanzitutto, bisogna «distinguere il potenziale del cinema d’osservazione come uno strumento per produrre conoscenza antropologica dal suo potenziale di strumento per rappresentare tale conoscenza» (ivi, p. 116).
In effetti, il cinema d’osservazione comporta due processi temporalmente distinti di scoperta e partecipazione: prima quello del filmmaker che segue le azioni dei suoi soggetti invece di lavorare a una sceneggiatura predeterminata; e poi quello dello spettatore «dal momento che è invitato a dare un significato al materiale che il film gli presenta» (ibidem). In questo contesto produttivo, il commento della voce off o l’enfasi sugli aspetti estetico-formali del film diventano inopportuni, poiché «diminuiscono quella congruenza fra il soggetto [ film] come esperito dal filmmaker e il film come esperito dallo spettatore».
Inoltre bisogna ricordare che non è soltanto il filmmaker a partecipare alla vita dei soggetti che filma, ma sono anche questi ultimi che possono partecipare alla realizzazione del film, discutendo e collaborando con l’etnocineasta sui modi di realizzazione del film.
La
Labanotation è un sistema per rappresentare e analizzare il
movimento umano, in particolare la danza, elaborato dallo studioso
Rudolf von Laban vissuto fra il 1879 e il 1958. Lab pubblicò i
primi risultati della sua ricerca nel 1928 con il titolo
Kinetographze.
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