12 febbraio 2014

CAMERA ETNOGRAFICA STORIE E TEORIE DI ANTROPOLOGIA VISUALE Parte Quinta (5/6)


5. Interagire e collaborare
nel capitolo precedente abbiamo contestualizzato il film Nanook e la pratica cinematografica di Flaherty all’interno del metodo dell’osservazione partecipante, in quel clima del fatidico anno 1922 che ha visto la pubblicazione del libro di Malinowski, Argonauts, e la distribuzione nelle sale del film Nanook.
L’arco temporale ricoperto dalle pratiche dell’osservazione cinefotografica a fini di studio e il cinema di contemplazione descritti ancora nel capitolo precedente corrispondono, per le prime, all’emergere della scuola di cultura e personalità i cui massimi esponenti sono stati Ruth Benedict e Margaret Mead, mentre il cinema contemplativo di David MacDougall, invece, può essere visto come un tentativo di trasferire sullo schermo il metodo e le teorie dell’antropologia sociale britannica — un tentativo critico, senza dubbio, e anche ricco di suggerimenti sulle opportunità di riflessività offerte dal film.
Jean Rouch è noto invece per essere l’ideale prosecutore di quel collaborativismo inaugurato da Flaherty. Egli non si è mai allontanato dalla sua amata Africa, dove nel 2004 è morto. I suoi “attori” parlavano francese ed egli scam biava con loro lunghe e amichevoli conversazioni, in una esplorazione dell’alterità per trovare e condividere un Sé comune. Oppure realizzare un film con gli amici africani costituiva anche un modo per capire l’Occidente attraverso la visione che di esso restituivano gli Altri. Nel film Petit à petit (1971), per esempio, noi osserviamo la vita in una metropoli come Parigi grazie al viaggio che Damouré compie nella capitale francese per capire come vivono i suoi abitanti.
1. L’Africa di Jean Rouch
È riduttivo pensare che Jean Rouch, essendosi occupato di un’area molto limitata dell’Africa, non abbia apportato rilevanti contributi teorici alla disciplina.
Il primo merito di Rouch è stato quello di aver diretto fin dall’inizio il suo sguardo verso quelle situazioni in cui le culture native africane mutavano at traverso il contatto con la cultura dei colonizzatori occidentali, “fotografando” proprio la fase del passaggio in cui le trasformazioni non avevano ancora assunto una forma definitiva. Come scrive Piault: «Nel momento in cui si presagivano le indipendenze africane e in cui l’etnologia come anche il cinema continuavano a fissare l’Africa con immagini esotiche, se non folklorizzanti o arcaizzanti, Rouch, e allo stesso tempo Georges Balandier, aprivano gli occhi sui paesaggi della contemporaneità. … Rouch metteva in evidenza l’autonomia dei comportamenti africani e accompagnava sempre più l’espressione di attitudini e di riflessioni autoctone su un cambiamento che, per essere spesso imposto, non era necessariamente vissuto passivamente» (ivi, pp. 209-2 10). Le reazioni e le trasformazioni della cultura africana sono drammaticamente evidenti in film come Les maitre fous (1956), Moi, un Noir (1959) o Cocorico, Moensieur Poulet (1974). Steve Feld, commentando Cocorico, ha osservato che Rouch mostra come gli africani reagiscono al cambiamento trasformando gli elementi provenienti dall’esterno in modi totalmente diversi dagli europei (Feld, 2003, p. 18).
L’Africa è stato un tema/luogo indagato anche da David e Judit MacDougall ed entrambi, Rouch e MacDougall, si sono impegnati, secondo Anna Grimshaw, in un progetto “ocularcentrico”, In questi due etnocineasti «la visione è elevata al più nobile dei sensi ed è privilegiata come fonte di conoscenza del mondo. Ma la concezione di Rouch del cinema antropologico è assai differente da quella sviluppata dai MacDougall. Quindi, in forte contrasto con il programma esplicito, accuratamente controllato, ben argomentato e intellettualmente rigoroso dei MacDougall, il progetto di Rouch sembra essere altamente idiosincratico e fondato sull’intuizione» (Grimshaw, 2001, p. 90) Per Grimshaw restano fondamentali le condizioni storiche del momento in cui Rouch si recò in Africa, MacDougall realizzò i suoi film “africani” dieci anni dopo Rouch per il quale il cinema «era una risposta alle possibilità creative liberate da1l’emancipazione politica» (ivi, p. 124). Invece, «le indagini etnografiche condotte dai Mac Dougall presero forma in un periodo segnato dal consolidarsi dei nazionalismi africani.


2. La Francia di Jean Rouch
Rouch, da parte sua, fa risalire la sua formazione a quel più generale periodo storico dominato dal surrealismo, nonché riconosce nella sua opera un punto di incontro fra il cinema di Flaherty e quello di Dziga Vertov, l’occhio innocente e visionario del primo con il tentativo di rivelare il mondo attraverso il film del secondo. Grimshaw sostiene che il surrealismo al quale Rouch può essere accostato è quello gioioso e libertario di Breton.
“Tutti i surrealisti hanno avuto una grande influenza su di me, afferma Rouch in un’intervista condotta da Lucien Taylor, ho letto i loro libri nella mia ado1escenza.”


3. La camera partecipante
Il cinema di Jean Rouch è ancora oggi il massimo esempio di cinema partecipante, uno stile di ripresa in cui la presenza del filmmaker è enfatizzata e utilizzata come uno strumento di produzione della realtà.
La partecipazione e la presenza non sono stratagemmi per una migliore osservazione, ma perché «nella disgiunzione causata dalla reale presenza della macchina da presa, le persone reciteranno, mentiranno, saranno a disagio, e ciò è la manifestazione di questa parte di se stessi che va considerata come una rivelazione più profonda di quanto qualsiasi “candid camera” o “living cinema” potrebbe rivelare» (Ea ton, 1979, p. 51). La macchina da presa, sostiene Rouch, «è una specie di catalizzatore che ci permette di rivelare, senza dubbi, una parte finzionale di noi stessi, ma che per me è la parte più reale di un individuo» (Esnault, 1971).
Rouch diventa così «lo sciamano, un maestro di cerimonie in un rituale cinematografico, stimolando ed entrando in trance con la sua macchina da presa come lo strumento di un mago, così che una nuova verità può essere rivelata, una verità che non è la “verità” dell’evento profilmico, ma la “verità” del cinema stesso» (Eaton, 1979, p. 52), perché il cinema, come ha detto Rouch, «è la creazione di una nuova realtà».
In un tale contesto teorico il film etnografico non descrive o spiega la realtà, nè ci dice qualcosa o interpreta un’altra cultura, ma costruisce una situazione in cui emergono audiovisualmente significati etnografici la cui validità, veridicità e fondatezza sono garantite dalla partecipazione del filmmaker alla cultura altra e della collaborazione dei nativi alla produzione di una rappresentazione alla quale essi consapevolmente o inconsapevolmente, ma in ogni caso autenticamente, contribuiscono. Il film diventa dunque un work in progress, un’esperienza i cui esiti non sono totalmente prevedibili.
Non mette mai tra parentesi la contemporaneità perdendosi come molti antropologi alla ricerca affannosa del tempo della tradizione. Da dinamista è interessato ai giovani, all’irrequietezza che portano le crisi e le trasformazioni in atto, ai modi in cui costumi e saperi antichi passano per lasciare spazio alla modernità e/o sono rifunzionalizzati. Imprime a questa attenzione focalizzata per il presente un esplicito riconoscimento di coevità tra i soggetti della ricerca: l’essere il nativo e l’etnografo coinvolti in un processo sincronico di intima e diretta complicità e collaborazione» (Padiglione, 2005, p. 6).


4. Rouch, Flaherty, Vertov
quale ruolo hanno svolto Vertov e Flaherty nella poetica di Rouch?
Steve Feld, in questo lungo brano tratto dal suo recente libro su Jean Rouch (2003), ci spiega quali sono i punti di contatto fra il lavoro dell’etno-cineasta francese e le esperienze di Flaherty e Vertov.
Rouch vede Flaherty come colui che inconsapevolmente ha dato origine all’equivalente cinematografico dell’osservazione partecipante, il più importante e fondamentale metodo etnografico. Più specificamente, Rouch vede il film come una celebrazione di una relazione; ciò combina la familiarità che deriva dall’osservazione con il senso di contatto e spontaneità che proviene dal rapporto e dalla partecipazione. Sviluppando e stampando la pellicola sul posto e proiettandola con Nanook e altri Inuit, Flaherty ha avviato il feedback cinematografico come una forma di stimolo e di rapporto.
Il debito di Rouch con Dziga Vertov sembra meno romantico e mitologizzante, ma anche più specificamente cinematografico. Riguarda lo sviluppo di un realismo cinematografico in cui la teoria del realismo non si confonde con la “realtà”. Vertov era impegnato con le strutture del realismo filmico e con i metodi di ripresa della vita reale, in opposizione alla rappresentazione teatrale. Egli aveva articolato la sua teoria e il suo metodo in modo da mostrare che il cinema non era differente dalla realtà vissuta e che la macchina da presa non era un occhio umano, ma uno specifico strumento meccanico, Per Vertov, il realismo del film era tematico e strutturale, costruito su unità minime di osservazione di persone reali che facevano cose reali. Queste unità erano sempre organizzate dal cineasta per esprimere la sua versione o esposizione del contenuto.
Per Rouch, l’importanza di Vertov sta nella rottura con quel realismo cinematografico che si limitava all’osservazione isolata e nell’adozione di un realismo cinematografico che ha una esplicita nozione di montaggio e di organizzazione di queste “briciole”, come le chiamava Vertov, all’interno di una realtà tematica. Sebbene Vertov avesse insistito nel filmare la vita improvvisata (senza attori, sceneggiatura e costumi) per cogliere la realtà, egli allo stesso tempo accentuava e faceva ricorso al montaggio estensivo e a giustapposizioni metaforiche per “decifrare” la realtà, cioè per elaborarla a partire dalle “briciole” della ripresa.
Il fattore chiave qui è che Vertov aveva descritto il cine-occhio non come un modello per vedere la verità ma come un nuovo tipo di visione che creava la sua particolare verità. Rouch scrive che Vertov “definiva nel complesso la sua disciplina kino-pravda (cinéma verite’ un ambiguo o autocontraddittoria espressione, dal momento che il film spezza, accelera e rallenta le azioni, distorcendole quindi.
E’ questa autoconsapevolezza del processo, l’idea che la verità o la realtà di un film è sempre socialmente costruita, che Rouch mutua da Vertov.
Di questi concetti che hanno avuto origine con Flaherty e Vertov — osservazione partecipante, feedback, realtà rappresentata, cogliere la realtà improvvisata, montaggio per una verità soggettiva tematica, cine-verità, fare della macchina da presa l’attore principale, rivelare il processo di realizzazione e l’autorità del regista — Rouch è l’erede. La sua dichiarazione, tutta raccontata, è che il film e l’antropologia condividono gli stessi essenziali principi con la natura dell’intersoggettività.
Come Vertov, Rouch si è concentrato su un cinema che si focalizza sul processo stesso di inquadramento della vita vissuta, commentandone allo stesso tempo il modo di vedere, di ascoltare e organizzare. Così, «mentre Flaherty costituisce il modello per il cinema partecipativo di Rouch, Vertov conduce Rouch alla realizzazione di film di cinéma-vérité, la tecnica che Rouch ha utilizzato ampia mente Vertov fornisce a Rouch un modello teorico che rafforza politicamente e epistemologicamente le sue pratiche cinematografiche» (ivi, p. 103).
5. Ciné-transe
Io ora credo che per le persone che sono filmate, il “sé” del filmmaker cambia dinnanzi ai loro occhi durante le riprese. Non parla più, tranne che per dare ordini in- comprensibili (“gira!”, “taglia!”). Ora egli li guarda solo attraverso una strana appendice e li ascolta attraverso l’intermediazione di un microfono.
Tuttavia paradossalmente è grazie a questo equipaggiamento e a questo nuovo comportamento (che non ha niente a che fare con il comportamento osservabile nella stessa persona quando non sta filmando) che il filmmaker può lanciarsi in un rituale, integrarsi in esso e seguirlo passo dopo passo. E uno strano tipo di coreografia che, ispirata, rende l’operatore e il tecnico del suono non più invisibili, ma partecipanti nell’evento che sta accadendo.
Questo appena riportato è un passo fondamentale per capire la poetica etnocinematografica di Rouch. Qui possiamo ritrovare la eco delle teorie che Breton ha esposto nel suo primo Manifesto del Surrealismo (1924), di cui Rouch riprende il metodo e le aspirazioni in particolare l’idea di un superamento dei limiti imposti dalla logica e dalla ragione. Per raggiungere questo stato di libertà, Rouch non usa la fantasia né esprime i propri fantasmi personali; riprende la realtà, ma si tratta di una realtà estranea, altra, e la fa propria, assumendola come alter ego dell’Occidente e del proprio Sé. La ciné-transe è un modo per partecipare a questa realtà dell’Altro come se fosse il proprio inconscio da reintegrare. L’Africa come inconscio dell’Occidente. Di chi e cosa parlano allora i film di Rouch?
Rouch affermò:“Tutti i film che ho fatto hanno sempre lo stesso soggetto: una scoperta dell’Altro, una esplorazione della differenza, ispirata dalla vecchia idea di Saint-Exupery che la differenza non è una restrizione ma un’aggiunta.
Rouch esprime chiaramente la necessità di integra re la differenza in una unità che comprenda il Sé e l’Altro, anche se qualche rigo dopo riduce il problema dell’antropologia
6. Antropologia condivisa
Antropologia condivisa: questo termine, osserva Feld (2003, pp. 18-19), ricopre diverse connotazioni. La più importante e basilare è legata al controdono audiovisivo, come lo chiama Rouch richiamandosi al termine che Mauss utilizza per indicare il dono di restituzione ad un dono ricevuto: una volta realizzato, il film viene mostrato ai soggetti filmati, e così le immagini vengono “restituite” a coloro senza i quali non sarebbe stato possibile realizzarle.
Questa è una possibilità che offre solo l’antropologia visuale, perché l’antropologia “scrittuale” non può essere restituita ai nativi quando la ricerca si è svolta in una società a cultura prevalentemente orale. In questo caso i nativi non possono avere nessun controllo sul testo redatto dall’antropologo — ma è una situazione che sta diventando sempre più rara mano a mano che le culture orali si appropriano della scrittura.
A beneficiare di questa pratica non sono soltanto i nativi, che possono controllare la rappresentazione che si è fatta della loro cultura e società, ma anche l’antropologo, che può da parte mettere in circolo le sue interpretazioni e assumere nuovi suggerimenti sul modo in cui la cultura studiata legge o dialoga con il testo audiovisivo prodotto.
Il primo e più noto esempio di antropologia condivisa è stato quello relativo alla proieizione del film Bataille sur le Grand Fleuve (1952), dove una scena di caccia all’ippopotamo era stata commentata in fase di sonorizzazione da un canto tradizionale; le immagini fecero sorridere gli spettatori che ritennero assurda l’idea di cantare mentre si caccia, allorché bisogna fare il massimo silenzio per non spaventare le prede.
Un altro aspetto dell’antropologia condivisa di Rouch consisteva nell’avvalersi di nativi come collaboratori tecnici, oppure di farli partecipare alla stesura del racconto del film.


7. Realtà, finzione, etnofinzione
Il cinema antropologico di Rouch si pone al di là del rapporto con una realtà già data. La realtà è prodotta dal filmmaker, la macchina da presa non è uno «strumento per la comprensione etnografica» (Heider), non rivela significati che la realtà detiene in sé, ma è uno strumento che crea la realtà, che la mostra allo spettatore come una visione, come qualcosa che si manifesta per la prima volta. La distinzione fra descrizione e immaginazione si rompe (Grimshaw, p. 118), l’etnografia filmica diventa etno-finzione (termine usato dallo stesso Rouch). In alcuni film di Rouch — Moi un noir (1959) e Jaguar (1967), per esempio — i protagonisti recitano se stessi.
La finzione, intesa come progettazione del racconto e recitazione dei personaggi, non è in contrasto con la realtà: essa riesce a far emergere aspetti della realtà che altrimenti resterebbero omessi, inconsapevoli o rimossi.
Si pone ora una questione, che lasciamo aperta: è possibile una autentica collaborazione fra soggetti fra i quali intercorre una relazione asimmetrica? Non possiamo cioè dimenticare che Rouch era un bianco proveniente da una nazione colonialista e dotato di macchina da presa, mentre i vari Damouré, Ilo e Lam erano i colonizzati: fino a che punto erano compiacenti con il gioco del film proposto da Rouch? Per gli “attori” di Rouch, essere in relazione amichevole con un bianco doveva certamente costituire una importante risorsa simbolica che poteva essere in qualche modo spesa nella propria rete di relazioni, e la conservazione di questa relazione poteva indurre a una compiacenza che non possiamo facilmente misurare.

8. Jean Rouch e David MacDougall
Anna Grimshaw (2001) ha, come abbiamo visto, contrapposto l’opera di Rouch a quella di MacDougall. Entrambi hanno lavorato in Africa, ma mentre Rouch è stato attivo negli anni Cinquanta quando la situazione coloniale era ancora in ebollizione e senza esiti prevedibili, David MacDougall (con la moglie Judith) ha realizzato i suoi film negli anni Settanta quando le gerarchie tribali che avrebbero condotto agli stati indipendenti africani si erano già formate.
Il romanticismo di Rouch si oppone al razionalismo di MacDougall.
Lo stile di quest’ultimo è infatti attraversato da una ricerca di chiarezza, di illuminazione della vita sociale dei soggetti filmati, procedendo da un film all’altro nel tentativo di superare i limiti imposti dal precedente.
Mentre Rouch conduce lo spettatore in uno spazio in cui alla comprensione dell’altro si giunge attraverso il coinvolgimento emotivo (ecco il suo umanesimo), la rottura della divisione fra mente e corpo (come nella ciné-trance) MacDougall costruisce per lo spettatore uno spazio nel quale esercitare il pensiero piuttosto che l’emozione, la ragione critica piuttosto che l’empatia.


9. Collaborazione
Il concetto di collaborazione è nato con Flaherty e con il suo film Nanook, ma le modalità e il senso della collaborazione sono nel corso del tempo cambiati e per quanto possiamo usare lo stesso concetto per Nanook e Jaguar, la pratica e il significato della collaborazione si configurano in modo assai diverso.
Se nel caso di Flaherty il concetto di collaborazione dialoga con quelli di ricostruzione e memoria (cfr. paragrafo successivo) nel caso di Rouch esso tende ad associarsi con quelli di riflessività e dialogo.
Il concetto di collaborazione, in Flaherty, assume il significato precipuo di osservazione partecipante.
Attraverso il racconto delle difficoltà che l’etnocineasta ha dovuto affrontare per realizzare il suo film, comprendiamo l’intensità della partecipazione alla vita degli Inuit, ma, rammentiamolo, il concetto di collaborazione non era maturo a quel tempo. I vantaggi furono tutti per l’antropologo-filmmaker, come intuiamo dalle parole di Flaherty sopra riportate.
Il concetto di collaborazione ha acquisito, oggi, una connotazione diversa, e in ogni caso possiamo distinguere diversi gradi di collaborazione, da quello in cui il cineasta chiede al soggetto filmato di ripetere un’azione — si immagini il caso in cui si stia realizzando un film su una tecnica di lavoro (sarebbe impossibile nel caso di un rituale) per poterla riprendere da un’altra angolazione o per correggere un errore di ripresa, a quello in cui il film deve essere utilizzato dagli stessi soggetti filmati per raggiungere obiettivi autodeterminati. In quest’ultimo caso la collaborazione può essere tale che il filmmaker antropologo si limita a insegnare ai nativi l’uso della videocamera (cfr. paragrafo sui video indigeni).
Una certa collaborazione è sempre implicata nell’osservazione partecipante e la scelta degli informatori è cruciale per la coerenza della rappresentazione.
Il saggio di MacDougall Al di là del cinema di osservazione (1975, 1990) può essere considerato come il primo importante intervento a favore della collaborazione ma, come abbiamo già osservato, essendo ridotta a una strategica interazione fra nativi e antropologo-filmmaker, affinché quest’ultimo acquisisca dati più “forti” per la sua tesi, si tratta più di un cinema di interazione che di partecipazione (cfr. cap. 4).
«Vedere la ricerca come un processo collaborativo va di pari passo con una critica all’approccio puramente osservativi, perché quest’ultimo implica fare ricerca riguardo o sulle persone, trattandole come oggetti, mentre il primo [ colla borativo] implica lavorare con gli informatori e tentare di capire e rappresentare il loro punto di vista e le loro esperienze. In secondo luogo, laddove un approccio osservativo dipende dall’accessibilità a informazioni riguardanti la“realtà” attraverso ciò che è visibile, un approccio collaborativo dimostra come molti aspetti dell’esperienza e della conoscenza non sono visibili; e anche quelli che sono visibili avranno significati diversi per persone diverse» (Pink, 2003, p. 190; cfr, anche Pink, 2001, pp. 23
Jay Ruby è estremamente attento alla questione della collaborazione ed elenca una serie di domande alle quali il ricercatore che voglia seriamente adottare un metodo collaborativo deve dare una risposta: «Affinché una produzione sia veramente collaborativa — scrive Ruby — le parti in causa devono essere paritarie nelle loro competenze o aver compiuto una equa divisione dei compiti. Coinvolgimento nel processo decisionale deve avvenire in tutti i momenti determinanti. »
Riassumendo, il concetto di collaborazione, alla cui base stanno reciprocità e dialogo, è il risultato di alcune considerazioni critiche che comportano:
a) una critica all’epistemologia della distanza teorizzata e praticata dal positivismo;
b) una critica, derivante dalla prima, al cinema di osservazione “modello Gottinga” o fly on the wall che tratta le persone come alieni incapaci di dialogare, di produrre interpretazioni consapevoli sulla propria vita e dunque da studiare e filmare come se fossero degli insetti o delle piante;
c) una riflessione sul concetto di interazione come espresso dal MacDougall di “Al di là del cinema di osservazione”, dove collaborare rischia di ridursi a interagire per raggiungere strategicamente una più approfondita conoscenza dei temi trattati dal film visti dalla prospettiva esclusiva dell’antropologo;
d) oltrepassare la suddivisione tra chi filma e chi è filmato. Se poi il film descrive le dinamiche della relazione fra i soggetti coinvolti nella realizzazione del film, esso non può non essere anche riflessivo — critica avanzata da Jay Ruby.
La collaborazione, laddove se ne presenti la necessità e le ragioni, può diventare una metodologia tesa a soddisfare le strategie politiche dei soggetti che filmiamo. Quando il contesto che studiamo/filmiamo è dominato da rapporti di subordinazione fra strati sociali, violenza, assenza di diritti umani, allora il ruolo dell’antropologo può cambiare e dalla collaborazione si può passare ad una vera e propria antropologia militante, come l’ha chiamata Nancy Scheper (1992; 1995), l’antropologa che ha condotto ricerche sul campo in Brasile e Sud Africa, in contesti in cui il potere è esercitato con li violenza e le condizioni di vita dei dominati sono ai limiti dell’umanità.
Una ulteriore declinazione del concetto di collaborazione è quello dell’antropologia visuale applicata, un approccio emerso recentemente, Pink osserva che l’antropologia visuale applicata non è semplicemente l’aggiunta del video o della fotografa all’antropologia applicata, ma lo sviluppo di una specifica metodologia visuale che per sua natura è collaborativa: «la ricerca applicata comporta collaborazione, non solo con gli informatori, ma anche con i clienti, i ricercatori provenienti da altre discipline e altre parti interessate. Questo richiede flessibilità e apprezzamento dei progetti e dei bisogni di altre persone. Le nostre interpretazioni dell’etnografia devono essere flessibili e adeguate per adattarsi ai contesti di ricerca. I metodi usati nell’antropologia visuale applicata sono adatti a includere osservazione partecipante, interviste e altre interazioni con gli informatori, ma fino a che punto siano usate e per -quanto tempo sarà da verificare. E l’approccio del ricercatore, non l’applicazione del metodo, che fa la ricerca etnografica. Io sento che lo scopo della ricerca deve essere la produzione di una descrizione leale e riflessiva dell’esperienza di altre persone, una descrizione basata sulla collaborazione e il riconoscimento dell’intersoggettività dell’incontro etnografco. Infine, l’antropologia visuale applicata ci fornisce la possibilità di sviluppare nuovi modi per rappresentare il lavoro a differenti tipi di pubblico» (i p. 10).


10. La ricostruzione fra oggettivismo e collaborazione
La pratica della ricostruzione finalizzata alla documentazione cinefotografica è nata con il film etnografico. Le danze rituali riprese da Spencer e Gillen, alcune delle quali già a quel tempo scomparse a causa della catechizzazione forzata, furono rimesse in scena affinché l’antropologo potesse documentarle. Lo scopo di Spencer e Gillen era quello di documentare le culture che stavano scomparendo per lasciarne traccia visiva.
Diverso è il caso di Flaherty, di cui conosciamo le modalità della collaborazione. Ricordiamo soltanto che egli concordava sempre con Nanook gli eventi da riprendere, e memorabile è stata la ricostruzione dell’igloo in dimensioni maggiori e aperto per consentire alla luce di illuminare adeguatamente il set.
Fra le tante ricostruzioni funzionali alla realizzazione delle riprese, vanno ricordati i casi di Trance and Dance in Bali di Mead e Bateson, dove gran parte del cerimoniale fu spostato fuori del tempio per ragioni di illuminazione, e Desert People (1966) di Jan Dunlop, film prodotto con la collaborazione di una famiglia di aborigeni che, dopo due anni di vita urbana, tornò nel deserto per permettere la realizzazione del film.
Se l’invito, sul piano della pratica cinematografica, sembra essere quello di non preoccuparsi troppo dell’autenticità della ricostruzione, allora è opportuno piuttosto capire, caso per caso, e contestualmente allo stato della ricerca antropologica del periodo in cui il film è stato realizzato, quali siano le motivazioni e le implicazioni scientifiche che stanno alla base della ricostruzione.
Nel caso di Ernesto de Martino, la ricostruzione era dall’etnologo ammessa e considerata scientificamente corretta. Essendo i fatti folklorici ripetitivi nel loro manifestarsi, essendo inoltre la cultura contadina fortemente cerimonializzata, l’analisi poteva essere effettuata anche sulla base di una ricostruzione (re-enactment) che ri-presentava la struttura modulare e formulaica dei riti e del simbolismo mitico-rituale di riferimento consentendo di rintracciare le forme storiche che lo avevano prodotto. Anche Carpitella, come scrive Ferrer Papa, «riconosce che la formalizzazione del pianto e del compianto è una formalizzazione modulare, è un modello, una stereotipia e che quindi, nel momento in cui viene provocata, dopo un primo momento di spaesamento, dovuto per l’appunto al l’assenza di sincronia con l’evento, si ha immediatamente da parte dell’informatore un assestamento del modulo: cioè dopo che il modulo viene iterato, anche il modulo in vitro diventa un modulo attendibile (Carpitella, 1968, pp. 130- 131).
Si potrebbe rischiare di considerare le ricostruzioni come copie fedeli della realtà e finiremmo per cadere nel tranello del positivismo e dell’oggettivismo. Ancora una volta, però, il pericolo può essere evitato dichiarando le modalità di ripresa, il metodo etnografico, le intenzioni implicite nella rappresentazione e il grado di collaborazione e di consapevolezza che hanno avuto i nativi durante la produzione del film.
E’ evidente che ciò che riescono a rappresentare i nativi nelle ricostruzioni non può che essere la struttura degli eventi e delle tecniche legate alla cultura materiale e all’economia di quel modo di vita abbandonato o di quel rituale dismesso. E solo in parte potranno invece riprodurre e rappresentare per lo spettatore estraneo a quel modo di vita le condizioni esistenziali, emotive e sensoriali da cui quei fenomeni prendevano vita; le esperienze negative vengono omesse dal re-enactment e la rappresentazione si concentra sulla memoria sociale e sensoriale positiva finendo per rappresentare una comunità estetica. Ci chiediamo allora se, oggi, non sia più interessante conoscere (e eventualmente filmare) i significati attuali che i nativi danno a queste azioni mentre le ricostruiscono e le rappresentano per altri (cfr. ibidem). Emerge, come suggerisce Elizabeth Edwards, la natura ambigua — ma creativa del re-enactment: da un lato soddisfa le esigenze di razionalità utilizzando le tecniche del laboratorio scientifico, e dall’altro riesce a accogliere desideri soggettivi e a diventare «il luogo in cui si intersecano storie» (Edwards, 2001, p. 178). La ricostruzione può diventare, allora, occasione per rappresentare filmicamente la struttura di un evento passato, ma anche per incorporare nella performance i significati che a essa danno tutti coloro che ri-vivono l’evento in quella che sostanzialmente è una «auto-messa in scena» progettata.
11. Media indigeni
Quelli che per circa un secolo sono stati soltanto soggetti fumati, con la disponibilità di tecnologie audiovisive si sono trasferiti dall’altro lato della macchina da presa, dalla parte del mirino.
In una prima fase i “soggetti ripresi” non potevano nemmeno prendere visione dei film nei quali gli occidentali li avevano rappresentati. Successivamente, in una fase segnata dall’antropologia condivisa e dalla poetica dell’etnofinzione di Jean Rouch, essi hanno conquistato ruoli importanti nella produzione del film, fino a diventare a partire dagli anni Settanta veri e propri autori di film etnografci impegnati a rappresentare la propria cultura.
L’avvio di questo campo di studi dedicato alla produzione video etuografica nativa e, più in generale, all’ uso del video nelle più diverse pratiche sociali — indicato dai termini anglofoni indigenous video o indigenous media in un senso più ampio che comprende anche le produzioni televisive — è di solito fatto risalire alle sperimentazioni che nel 1966 Sol Worth e John Adair condussero presso gli indiani Navajo (Worth, Adair, 1972).
L’intervento aveva lo scopo di individuare l’eventuale esistenza di specifiche modalità narrative differenti dalle convenzioni cinematografiche e narratologiche occidentali, ma anche di rilevare l’esistenza di un codice cinematografico comune. Lo strumento di partenza del la ricerca fu il bio (bio-documentary): «un film realizzato da una persona per rappresentare cosa essa sente di se e del suo mondo. Un modo soggettivo di rappresentare che cosa sembra realmente essere il mondo oggettivo ad un individuo. In un certo senso questo tipo di film ha con il documentario la stessa relazione che l’autoritratto ha con il ritratto o l’autobiografia con la biografia. Inoltre, a causa del particolare modo in cui è realizzato, spesso esprime sentimenti e rivela valori, atteggiamenti e interessi che si collocano al di là del consapevole controllo dell’autore» (ivi, p. 25).
Lo studio di Worth e Adair va contestualizzato in un periodo, gli anni Sessanta-Settanta, in cui la filmologia era interessata alla ricerca sullo specifico cinematografico, cioè a quegli aspetti del cinema che da un lato elevassero l’espressione filmica a un vero e proprio linguaggio, e dall’altro ne individuassero anche un’autonomia e una specificità differenziante rispetto ad altri linguaggi, visivi e non.
Anche Worth e Adair furono interessati a cercare relazioni fra la cultura verbale e quella visiva dei Navajo. Nel secondo capitolo del loro libro Through Navajo Eyes, il cui titolo la dice lunga sul rapporto tra film e linguaggio — A Look at Film As If it Were a Language (uno sguardo al film come se fosse un linguaggio) — i due antropologi scrivono: «I processi coinvolti nella cognizione potevano essere meglio compresi se il modo in cui le persone producevano una struttura di sequenze visive fosse stato comparato al modo con cui quelle stesse persone strutturavano il loro linguaggio verbale; in altre parole, noi speravamo di riuscire a confrontare due strutture comunicative, una verbale e una visuale.
Va osservato che non furono i Navajo a richiedere l’apprendimento della macchina da presa per realizzare autorappresentazioni della propria cultura. Worth e Adair introdussero questo nuovo mezzo di comunicazione senza farsi troppe domande sulle conseguenze sociali che avrebbe potuto provocare il loro intervento e senza dare risposte a quei Navajo che, come Sam Yazzie, si chiedevano se il cinema fosse di qualche utilità per migliorare l’allevamento delle pecore.
Negli anni Ottanta, con la diffusione delle tecnologie leggere per la video registrazione si sono verificati i primi importanti casi di indigenous video.
Tuttavia è solo negli anni Novanta che si avvia una riflessione sulle sperimentazioni di indigenous media prodotte dieci anni prima, un ritardo che Faye Ginsburg attribuisce in parte all’incapacità della disciplina di comprendere i cambiamenti e in parte al perdurare di un atteggiamento positivista che, fermo sull’idea della macchina da presa come “finestra” sulla realtà e come strumento che incrementa il nostro potere di osservazione, non riesce a vedere negli indigenous media una nuova e creativa pratica significante che innesca processi sociali e culturali (Ginsburg, 1991, p. 91). Ginsburg osserva che gli indigenous media sono in qualche modo anche una ovvia conseguenza di quel cinema di partecipazione proposto da MacDougall nel suo noto articolo pubblicato per la prima volta in Principles of Visual Anthropology (Hockings, 1975).
Nel 1994 Faye Ginsburg, riprendendo alcune osservazioni proposte nel saggio del 1991, ha sottolineato come la diffusione dei media presso quei popoli che erano stati oggetto del filmmaking etnografico modifichi necessariamente l’idea che abbiamo del film etnografico.
Se, aveva scritto nel 1991, il film etnografico non può più permettersi di lasciare gli altri esclusivamente davanti all’obiettivo della macchina da presa, ora esso finisce per essere, insieme ad altri media, uno dei tanti strumenti di rappresentazione culturale utilizzati da tutti i i popoli come produttori e fruitori. Si tratta di un cambiamento, sostiene Ginsburg, che avvicina il film etnografico all’idea di cinema intertestuale di MacDougall Il film etnografico, quindi, deve riuscire a raccogliere le diverse posizioni che emergono quando la cultura è rappresentata sullo schermo; questi diversi punti di visti creano, afferma Ginsburg, un “effetto di parallasse”: «la mia opinione è che se guardiamo ai media in quanto prodotti da persone che occupano uno spettro di differenti posizioni culturali, dall’interno e dall’esterno, possono fornire una sorta di effetto di parallasse che ci offre un più completo senso della complessità di prospettive per le quali abbiamo parlato di cultura, ma solo se abbiamo gli strumenti analitici per poter mettere insieme queste prospettive in un più ampio contesto di significati» (Ginsburg, 1994a, p. 6).
Faye Ginsburg ritiene che gli indigenous media debbano far parte a pieno titolo del campo di studi dell’antropologia visuale, anche se alcuni studiosi tendono ad escluderli perché prodotti a uso interno delle stesse comunità indigene o perché la loro presenza oscura il film etnografico rendendolo obsoleto (Ginsburg, 1994a, p. 12; Ginsburg, 1994b, passim). Il contesto nel quale dobbiamo quindi analizzare e comprendere le pratiche audiovisive è quello che Arjun Appadurai ha chiamato mediascape1 , dove le immagini (e i suoni) prodotte dai media attraversano le culture locali e interagiscono con esse.


12. Video locali
In Italia negli ultimi venti anni, con la più ampia disponibilità delle tecnologie leggere di videoregistrazione in tutti gli strati della società, abbiamo assistito al crescente fenomeno dell’autorappresentazione culturale attraverso il video. Una pratica che si è diffusa fra le minoranze linguistiche e nei piccoli centri un tempo strettamente dipendenti dalle risorse rurali per la propria economia: con la globalizzazione le identità locali si sono trovate di fronte a una proliferazione di offerta culturale legata al territorio e al video come mezzo di rappresentazione, trasmissione e diffusione della cultura locale.
Abbiamo visto come il concetto di enactment, declinato nelle forme di re-enactment, enaction e enactive, ritorni ogni volta che il film si pone l’obiettivo di rappresentare e ripresentare l’esperienza di eventi del passato; e ancora lo ritroveremo più avanti, quando rifletteremo su quei modelli di rappresentazione che definiamo poetiche enattive. Il concetto di enazione è collegato ai lavori del neurofisiologo e filosofo cileno Francisco Varela. Il suo approccio alla cognizione si oppone alla prospettiva che concepisce la percezione come una ricostruzione, attraverso gli stimoli che essa offre, della realtà esterna. «Il riferimento per comprendere la percezione è… la struttura sensomotoria dell’agente cognitivo. … La realtà non viene dedotta come un dato: dipende dal percettore, non perché il percettore la “costruisce” secondo la propria fantasia, ma perché ciò che viene considerato come mondo pertinente è inseparabile dalla struttura del percettore.» (Varela, 1994),
E’ facile immaginare come questi film che pongono al centro la memoria non possano prescindere dalle persone che quella memoria incorpano e dalle loro storie di vita — i «documentari autobiografici», fa notare MacDougall, sono «un sotto-genere di filmmaking in rapida crescita» (MacDougall, 1998, p. 240). Le ragioni di questa proliferazione sono da collocarsi nel più ampio contesto metodologico che l’antropologia ha elaborato in questi ultimi decenni. Le coordinate di riferimento relative all’interesse per le persone sono molteplici e vanno indicate 1) nella crisi dello struttural-funzionalismo come prospettiva di studio che pone al centro la societa e vede l’individuo come un suo prodotto; 2) nella rivalutazione degli individui come creatori di cultura, non essendone soltanto dei “portatori”, capaci quindi anche di contestarla e modificarla; 3) nella consapevolezza della natura dialogica ed ermeneutica dell’etnografia, della fusione di orizzonti come atto fondante la comprensione, del fatto che le nostre interpretazioni sono, come dice Geertz, interpretazioni di interpretazioni, nella consapevolezza, ancora, che gli informatori sono quasi dei co-autori; 4) nell’interesse per le storie di vita e le narrazioni autobiografiche come fonti per la ricerca etnografica in grado di fornire interpretazioni sulla vita sociale delle persone, incrociando il concetto di esperienza con quello di cultura.
Filmare etnograficamente le persone significa allora descrivere, parafrasando in parte una descrizione del concetto di cultura di Anthony Paul Cohen come esse danno significato al mondo per se stesse e come danno significato a se stesse nel mondo attraverso pratiche e simboli che il repertorio culturale, locale e globale, rende loro disponibili.
1 «Mediorama (mediascape) si riferisce allo stesso tempo alla distribuzione delle capacità elettroniche di produrre e diffondere informazione (quotidiani, riviste, stazioni televisive e studi di produzione cinematografica) che sono attualmente disponibili in tutto il mondo per un numero crescente di interessi pubblici e privati, e alle immagini create da tali media. Queste immagi ni implicano molte complicate sfaccettature che dipendono dalla loro tipo (documentario o intrattenimento), dalla loro tecnologia (elettronica o pre-elettronica), dal loro pubblico (locale, nazionale o transnazionale) e dagli interessi di coloro che ne sono proprietari e le controllano. Il fatto più importante è che questi mediorami forniscono ai loro spettatori in tutto il mondo (specialmente in forma di televisione, film e videocassetta) estesi e complessi repertori di immagini, narrazioni ed etnorami, nei quali il mondo di beni di consumo, notizie e politica sono profondamente mescolati. I medioraim, anche se prodotti da interessi privati o pubblici, tendono ad essere centrati sulle immagini, descrizioni in forma narrativa di strisce di realtà, e ciò che offrono a coloro che li vivono e trasformano è una serie di elementi (personaggi, intrecci e forme testuali) con i quali si possono comporre sceneggiature di vite immaginate, le proprie o quelle di altri che vivono in altri luoghi» (Appadurai, 1996, p. 35).


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