6 febbraio 2014

CAPITOLO SECONDO

IL TERRITORIO DI ARITZO ED I SUOI PRODOTTI


2.1 Agricoltura ed allevamento


La Barbagia centrale, oggetto della mia analisi, è caratterizzata da un territorio prevalentemente boscoso; buona produttrice di sughero e piante officinali, è alquanto carente nella coltivazione dei cereali, a causa di diversi fattori, anzitutto per la presenza di frutteti e boschi, ma anche in conseguenza delle singolari condizioni climatiche, che, particolarmente in autunno ed in inverno, sono oltremodo rigide oltre che per le asperità del suolo di tipo alpestre. I terreni utilizzabili per questo tipo di coltivazioni sono di numero ristretto e, in genere, vengono seminati ad orzo; si riscontra invece una notevole presenza di terreni riservati alla produzione di fagioli e patate, che costituiscono la base dell'alimentazione locale.
Ad ogni buon conto è da osservare che la produzione agricola non è stata usata a fini commerciali, in quanto aveva una rendita particolarmente bassa e risultava “poco praticata e pochissimo conosciuta[1]”, tanto che è rimasta finalizzata alla mera sussistenza familiare.
L'attività più florida, che caratterizza la regione, è costituita dall’allevamento degli animali tra i quali prevalgono gli ovini, il quale ben si adatta al territorio ed è favorito dall'estensione del bosco e della macchia; negli anni scorsi la presenza di  migliaia di capi di bestiame testimoniava come circa la metà della popolazione maschile fosse occupata in questo settore[2], e come i nuclei familiari si dedicavano e formavano nell’esercizio della pastorizia, essendo rilevante anche il peso del lavoro svolto dalle donne a sostegno dell’attività. All'epoca dell'Angius Aritzo si presentava in controtendenza con gli altri paesi della zona, con una delle più basse percentuali di addetti all'allevamento di tutta la Provincia di Nuoro, al 1996, secondo i dati dell'Ufficio Antiabigeato del Comune di Cagliari si contavano 3000 capi di bestiame, numero che col tempo è andato affievolendosi. 

Xilografia di Vuillier G. tratta dal Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna di Angius, Casalis. Autorizzazione di riproduzione n. 107781 concessa dalla Biblioteca Studi Sardi di Cagliari 

Vittorio Angius, analizzando gli elementi che hanno determinato la vocazione alla pastorizia, attribuisce le sue origini a particolari fattori, non ultimo quello cagionato dall’invasione dei Saraceni, i quali si stabilirono nelle zone più fertili costringendo coloro che non volevano essere ridotti in servitù a lasciare le loro terre e recarsi sui monti dove si procurarono la sussistenza allevando bestiame di varia specie. L'aumento del numero dei pastori determinò l'invasione delle terre coltivate senza che fosse fatta attenzione al danno che vi recavano, costringendo gli agricoltori a restringere il proprio campo coltivato al suolo più vicino alle abitazioni.
Lo stesso Angius attribuisce la crescita del numero di pastori ad un’altra componente: l’”ozio” a causa della circostanza che considera, la pastorizia, attività meno laboriosa, quantomeno in confronto all’agricoltura, e con il “non indifferente profitto” che se ne poteva trarre. In tutte le terre centrali e montanare, il pastore, era un uomo stimato poiché libero a differenza dell'agricoltore, sottomesso ad un signore.
Nel tempo, allo scopo di tutelarne lo sviluppo, sono stati emanati provvedimenti per la protezione delle attività di produzione agro-pastorale; già nella Carta de Logu (punti CXCV e CXLVIII).
L'allevamento si esercitava dapprima in su padende, ovvero su territori fruibili dalla comunità in cui veniva esercitato il diritto d'ademprivio[3], che si differenziavano dai cugnados, termine adottato per definire i terreni cintati da siepi o muretti a secco, per impedire il pascolo vagante, che, per primi sono stati oggetto di accaparramento allorché si esercitò la proprietà individuale derivante dall’applicazione della Legge delle Chiudende del 1820.
La pastorizia era regolata dall'Istituto della Comunella, che applicava un sistema ispirato da principi di gestione comunitaria dei pascoli nella Barbagia di Belvì. Questo veniva certificato con l'antica cerimonia de su juramentu, che obbligava il rispetto di alcune regole come l'impossibilità di invadere con le greggi i territori di raccolta finché essa non fosse terminata, di sfrondare gli alberi, di farne legna da ardere in caso di nevicate copiose e di appiccare incendi. 
I forestieri non potevano far parte della Comunella se non erano membri della comunità di Aritzo, a cui potevano accedere sposando una donna aritzese e vivendo nel paese.
Enorme disagio a coloro che esercitavano la pastorizia derivava dalla necessità di effettuare, in autunno, la transumanza delle greggi, con il conseguente spostamento della popolazione maschile per lunghi periodi dell'anno lasciando alle donne il ruolo fondamentale per la creazione di scorte alimentari, la gestione familiare e delle attività produttive in loco.
La pratica della transumanza ha determinato nel tempo nell'uomo aritzese la crisi di un legame solido e sicuro, tipico di un popolo sedentario, provocando un senso di nostalgia, che diviene più che altro bisogno di comunicazione. Questo sentimento innesta nell'individuo una ricerca di elementi identificativi del luogo d'origine nel nuovo spazio, che verrà sottoposto a trasformazione.
Come sostiene l'antropologa G. Murru Corriga, le comunità pastorali instaurano una territorialità e geografia con altipiani, colline e pianure, delle diverse regioni dell'Isola, stabilendo con esse una relazione di tipo simbiotico. Ciò avviene attraverso la nominazione[4] o con la riproduzione di segni specifici di uno spazio umanizzato. Tale approccio con i territori della transumanza determina in Sardegna l'inesistenza di un vero e proprio spazio selvatico, il quanto da lungo tempo sottoposto ad un'antropizzazione che ne ha mutato in parte l'aspetto[5].
La scelta di spostarsi del “Popolo della montagna” ha fatto sì che esso affinasse nel tempo la capacità di adattamento ad un luogo non semplice da abitare e contemporaneamente a piegarlo, per quanto possibile, alle proprie necessità.
La pastorizia ha aperto nuove vie commerciali ad Aritzo, spingendo la popolazione alla conoscenza di luoghi esterni con cui mettersi in rapporto, rafforzando così la propria identità ed il senso di appartenenza. Avviene, quindi, una presa di coscienza dell'esistenza di uno spazio interno, costituito dai vari elementi identitari, ed uno esterno che abbraccia tutto ciò che è fuori dalla propria cerchia intima.
 Sembra, che il popolo aritzese abbia fondato la propria economia intorno al concetto di identità territoriale e, dunque, basata sulla produzione locale.

2.2 L'acqua e la neve


L'acqua costituisce senza dubbio la risorsa prima del territorio. Essa scende dai monti in ricche sorgenti alle quali gli abitanti del centro e i turisti possono attingere durante tutto l'anno.
Poiché nei mesi invernali le basse temperature determinavano forti nevicate che producevano grandi quantità di ghiaccio, le popolazioni locali intuirono le potenzialità di tale prodotto trasformandolo in risorsa, sviluppando un vero e proprio commercio che le portava ad attraversare l'intera Isola durante i mesi più caldi. La pratica di tale attività ha determinato un'antropizzazione del territorio e contribuito a qualificare l'identità dei suoi abitanti come montalgios, montanari e biaxiantes, cavallanti o viandanti. 
E' una peculiarità del territorio aritzese la presenza, nella montagna di Funtana cugnada[6], (1459 m s.l.m.), di profonde buche rivestite da muretti a secco e ricoperte da uno strato di felci per assicurarne l'isolamento termico, dette domos de su nie, meglio conosciute come neviere. Dopo le abbondanti nevicate invernali, al principio della primavera, quando la neve si era indurita, degli operai specializzati chiamati niargios la raccoglievano, assodavano e gettavano nelle neviere dove veniva stoccata in strati separati da intercapedini di felci e da paglia e, come copertura ultima, da terra e tronchi d'albero per preservarla dai raggi diretti del sole e dal vento.
Nei mesi d'uso, ovvero quelli estivi, gli stessi niargios la sezionavano in blocchi e la infilavano in sacche di tela riempite di felci e paglia che venivano date ai cavallanti, i quali si preoccupavano del trasporto in tutta la Sardegna, fornendola alle famiglie più abbienti ed ai commercianti per conservare cibi e bevande. Nel '600 si contano 70 cavallanti che viaggiavano giornalmente verso Cagliari, Oristano, Nuoro e Sassari[7]. Nei centri di Codrongianus e Ploaghe sono ancora esistenti dei vecchi depositi in cui venivano conservate le riserve di ghiaccio che spesso hanno dato il nome a una via o zona, del paese, come, per esempio, a Codrongianus, dove persiste una località denominata Vico sa niera.  A testimoniare questa pratica vi è copiosa documentazione che, oltre a scritti e immagini, è costituita dalle tracce numerose e visibili della cultura materiale, che imprimono al territorio tratti identitari distintivi. Oggi, in ossequio al sacrificio ed all’iniziativa di quanti hanno esercitato tale pratica si è provveduto a realizzare un itinerario turistico lungo il vecchio sentiero intrapreso dai cavallanti, chiamato Su Caminu 'e Il Niargios[8]
Il commercio del ghiaccio, praticato fino all'ultimo giorno di Ottobre, rappresentò una fiorente risorsa per queste genti che lo praticano in modo esclusivo, seppure il regime di monopolio cominciò a vacillare alla fine dell’Ottocento a causa della concorrenza subita dall’importazione del ghiaccio dalla Norvegia e successivamente in seguito alla costruzione di una fabbrica a Cagliari. 
Quest'attività, particolarmente vantaggiosa nel periodo di massima floridità, influenzò la vita socio-economica dell'intera comunità, tanto che fino al 1657 erano i privati, chiamati “Signori della neve”, ad avere l'esclusiva dell'incetta della neve; da tale data, in considerazione dei vantaggi economici prodotti, fu il fisco spagnolo ad assumere la gestione monopolistica di questa attività affidandola in appalto a privati previo pagamento di un canone annuo. La concessione veniva data per determinati periodi, dapprima tre anni, e, successivamente, fu estesa ad un periodo di sei anni. Fino al 1750 si documentano ricchi proventi i quali da questa data in poi iniziano ad essere via via più scarni, fino al 1850, data cui risalgono le ultime informazioni sui libri contabili, in cui avviene la rinuncia della privativa. Così gli aritzesi poterono proseguire il commercio liberamente ed in privato, mantenendolo attivo fino ai primi anni del Novecento. 
La dimestichezza con questo tipo di commercio qualifica l'identità montanara locale affermandosi come specializzazione produttiva. 
Precedentemente ho accennato a due dimensioni, una interna ed una esterna, per quanto concerneva la pastorizia, in cui l'esterno viene sottoposto ad un'antropizzazione che risente dei luoghi d'origine; invece, per quanto riguarda i mercanti, questo commercio è il luogo dell'uscita dal nos alla ricerca dello straniero a cui interessano le sue risorse ed i suoi beni.
Legata alla conservazione e al commercio della neve nei secoli scorsi si è sviluppata un'attività, consistente nella produzione di sa carapigna, un sorbetto al limone ottenuto manualmente con una tecnica antica abbastanza complessa. All'interno di un recipiente in zinco, sa carapignera, veniva versato un composto di acqua, zucchero e succo di limone; il contenitore veniva poi chiuso ermeticamente con un coperchio dal manico ad U e collocato all'interno di un mastello di legno, su barrile, pieno di ghiaccio e sale. Successivamente s'imprimeva al recipiente di zinco un movimento rotatorio, ora a destra ora a sinistra, aumentando progressivamente la velocità e determinando il congelamento della sostanza al suo interno, la quale veniva lavorata fino ad ottenere una consistenza cremosa che veniva venduta dentro piccoli bicchieri. 

Museo Etnografico di Aritzo – Mastello di legno per Sa Carapigna. R. Paba

Fino al XX secolo l'areale dei carapigneris si estendeva nella parte occidentale dell'Isola fino al Logudoro e nella parte orientale dall'Ogliastra alla Baronia. Dunque oltre alla produzione nel centro di Artizo, gli abitanti viaggiavano portando questo fresco sorbetto per tutta l'Isola in occasione di feste e sagre dove veniva acquistato per contrastare la calura estiva; la produzione e la vendita si è protratta fino agli inizi del Novecento, dagli artizesos appunto, i merciai girovaghi.
I proventi consentivano lunghi periodi di riposo, motivo per cui la vendita veniva organizzata nel rispetto dei calendari lavorativi che si articolavano su un lasso di tempo che andava dai primi di maggio all'ultima settimana di settembre con i diversi gruppi di sorbettieri che cercavano di ricoprire zone geografiche diverse per evitare una concorrenza dannosa.
In onore di questo tradizionale sorbetto è stata indetta la festa per Sa carapigna che si svolge annualmente nel mese di Agosto, nella piazza centrale di Aritzo. Le diverse famiglie di carapigneris preparano manualmente la miscela davanti al pubblico di turisti che accorrono da tutta la Regione per gustare il prodotto.

2.3 Prodotti del bosco


Dopo aver affrontato il discorso sul pascolo e sul commercio della neve, vorrei soffermarmi su un altro importante patrimonio qualificato dal prelievo dei prodotti del bosco, del loro utilizzo e trasformazione. 
Una considerevole risorsa è rappresentata dallo sviluppo dell’artigianato del legno e della commercializzazione dei prodotti ottenuti verso gli altri centri della Regione. Tale attività, al pari del commercio della carapigna, ha fortemente contribuito nella produzione di benessere rappresentando un'importante fonte di guadagno per il territorio; allo smercio hanno provveduto in larga parte i precedentemente citati cavallanti i quali vendevano i prodotti o li barattavano in cambio di altri beni utili alle necessità della comunità.
Particolare riferimento merita la raccolta delle nocciole e delle castagne, frutti che il bosco del luogo produce in gran quantità. Originariamente poteva essere esercitato il diritto di raccolta, su oddignu, di nocciole e castagne solo dopo “Ogni Santi”; veniva utilizzato allo scopo su mosignu, con cui si designa un particolare strumento costituito da una forcellina di legno che fungeva da prolungamento della mano con cui si procedeva nella raccolta rovistando palmo a palmo il terreno.
Era altresì previsto un termine entro il quale si doveva chiudere la raccolta, s'iscabidu; detto termine obbligava i proprietari a liberare i terreni e a lasciare spazio ai più poveri, affinchè anch’essi potessero provvedere a crearsi delle riserve, ed infine, alle greggi che dilagano nei boschi alla ricerca di pascolo. Qualcuno tende a rappresentare la popolazione in veste di fruitore delle risorse della terra secondo una pratica in cui è determinante l’apporto e la maestria dell'uomo che con il suo intervento, qualificato ed affinato nel tempo, ha indotto l'ambiente a sviluppare il proprio potenziale.
Per questa ragione tutto l’operato risulta diretto dalla consuetudine la quale interviene sulle norme naturali, per controllare le dimensioni di spazio e tempo affinché si possa garantire la produzione.
Il processo evolutivo nell'uso delle risorse appena descritto culmina con la scomparsa negli anni Sessanta aprendo la strada ad un nuovo approccio, già vivo nei primi decenni dell'Ottocento, basato su un controllo continuo e regolare per mantenere un regime di riproduzione che garantisse i frutti anche fuori dalla propria stagione.

Antonio Mura - Raccoglitrici di nocciole (1966). Pittura ad olio, cm 80x103

Una conduzione del bosco attraverso il controllo del tempo riproduttivo, di amministrazione delle fasi di piantagione e crescita delle fustaie, della ceduazione, di apertura e chiusura stagionale al pascolo ovino, ha garantito la vitalità sino ad oggi, unitamente a quella delle attività produttive ad esso legate. 
Si è, infatti sviluppata nel tempo un'ulteriore attività che si esplicita nell'utilizzo dei frutti di bosco per la produzione di dolciumi a base di miele, nocciole, noci e mandorle e marmellate. 
Terminata la raccolta si assisteva ad una vendita diretta dei prodotti da parte dei raccoglitori, ai quali veniva concesso uno speciale permesso dal competente ufficio comunale. La vendita poteva effettuarsi anche fuori dal centro, tramite i nominati biaxiantes a cui veniva rilasciata una licenza di commercio ambulante.
Gli spostamenti dei biaxiantes cominciavano ai primi di Novembre, appena terminata la raccolta, e si concludevano ai primi di Dicembre; in caso di annata abbondante si svolgevano nel periodo che va da metà gennaio fino ad aprile, mese d'inizio delle feste patronali, ad alta partecipazione di folla, pertanto occasioni fruttuose per la promozione e la vendita dei prodotti locali.
Da un punto di vista prettamente artigianale occorre ricordare che dal medesimo bosco venivano tratte anche le materie prime per la produzione di una varia gamma di utensili ad uso domestico, oltre alle famose e ricercate casse nuziali finemente intarsiate da abilissimi ebanisti. E sempre dal bosco si ricavava il combustibile più diffuso fin dall’antichità, il carbone e la legna da ardere.
Per quest'attività gli aritzesi si spingevano, a fare i tagli del bosco, in diversi territori ricadenti non solo in comuni limitrofi (Desulo,Gavoi,Seui, ecc...) ma anche nei boschi ubicati nei lontani Dorgali, Castiadas, Villacidro e Capoterra. Per poter adempiere al compito in molte occasioni si presentava l’obbligo di trasferirsi in località assai distanti per tutto il periodo necessario all’abbattitura. Gli aritzesi, fino a tutta la prima metà del '900, producevano per lo più carbone, perché le foreste non erano ancora percorse da strade quindi la produzione di legna da ardere era troppo dispendiosa. 
Venivano salvate dalla carbonizzazione le travi di leccio, che mani mirabili trasformavano in utili e robuste ruote dei carri.   
I venditori che affrontavano il viaggio con carri commerciavano legnami leggeri per usi domestici ed agricoli e rifornivano gli artigiani.
La produzione di botti costituiva un altro introito per il paese ed era svolta fuori sede, infatti i Buttaxios, si trasferivano periodicamente in centri del Campidano di Cagliari e di quello di Oristano riparando quelle già esistenti e costruendone delle nuove con legnami pregiati, tipo il rovere.

2.4 Prodotti del cielo


Elencato le risorse e i saperi che questo popolo traeva dalla terra, è ora importante citare un altro elemento su cui è stata strutturata la vita di questa comunità: l'aria. Lo spazio aereo costituisce l'atmosfera che è sempre presente e modifica la Terra a seconda dell'ora o della stagione.
Qui, scrive l'Angius “L'aria è saluberrima e vi si vive lungamente e senza bisogno di medicine”; grazie all'elevata posizione infatti, si può respirare un'aria salubre che ha fatto di Aritzo la meta di coloro che necessitano di particolari cure, oltre che per chi, in generale, vuole frequentare la montagna. La posizione naturale di Aritzo era talmente felice e la sua aria considerata sana che in occasioni di epidemie, come avvenne a metà del Seicento, perfino il Vicerè spagnolo trascorreva la quarantena ad Aritzo[9].
L'aria vivificante di questi monti, come detto nel capitolo precedente, è abitata da una ricca avifauna che oltre a rappresentare una ricchezza di tipo zoologico, nel passato veniva sfruttata economicamente.
Testimonianza di ciò sono delle antiche strutture, simili alle neviere, sorta di costruzioni-trappola, dette untulgeras, situate in radure o rocce spoglie. Si tratta di fosse circolari che venivano utilizzate da operai, gli unturgiadores, per catturare gli avvoltoi, in sardo untulgios,mediante un semplice accorgimento; ponevano al centro della buca la carogna di un animale che aveva la funzione di attrarre gli uccelli che se ne nutrivano avidamente restando particolarmente appesantiti dal pasto e pertanto impossibilitati a spiccare il volo. In queste condizioni venivano facilmente catturati ed uccisi per prelevare le piume da utilizzare per fabbricare le penne da scrivere, con cui si alimentava il mercato isolano della scrittura. Quest'attività permetteva una forma di reddito e agevolava anche nel paese la scrittura permettendo altresì la trasmissione delle conoscenze popolari. In particolare gli aritzesi, alla pari degli abitanti degli altri centri barbaricini, sono appassionati cultori della poesia che viene spesso utilizzata come mezzo di trasmissione folclorica e locale.





[1] Cfr. Angius Ivi.
[2] Angius, 1832, patrimonio zootecnico di 84.000 capi di bestiame.
[3] Utilizzo per raccolta e pascolo, indipendentemente dal fatto che fossero terre di proprietà Comunale, della Corona, del Signore o della Chiesa.    27 Cfr. Angioni.
[4] Etnotoponimo:Aritzale o Aritzali che significa quelli di Artizo.
[5] Sottobosco adatto al pascolo e non all'agricoltura,muretti a secco,insediamenti pastorali...
[6] O Cungiada.
[7] Libro dei conti della Regia Gabella della neve.
[8] G. PABA, Guida di Aritzo e delle sue montagne, Cagliari, 1997.
[9] E. COSTA, Sassari, Sassari, 1992. 

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